Peppe Barra |
Alla sera il festival ha tributato il Premio alla carriera a Peppe Barra: maestro totale! Chi potrebbe cantare Marley in napoletano (“No woman no cry” diventa “Nun chiagnere cchiù”) con profondità e sincerità, laddove altri precipiterebbero nella farsa, nel kitsch o nell’inconsapevole parodia? Si susseguono l’omaggio devoto a mamma Concetta, a Petito, alla Napoli di oggi e a quella di ieri, cantando perfino Gaber (“Lo shampoo”). Con un quintetto di eccellenti musicisti che lo accompagnano (clarinetti, fisarmonica, basso acustico, chitarra, percussioni) e che sa passare agevolmente dai suoni folk/world alla canzone napoletana, dal jazz manouche alla canzone d’autore, Barra, cantore, teatrante e chansonnier insieme, ha portato la sua maestria eccelsa ed inarrivabile sul lungomare loanese. Lo spazio pomeridiano ha offerto uno show di Mimmo Cavallaro. Il musicista di Caulonia, protagonista del rinnovato quanto considerevole interesse verso la tradizione popolare calabrese (snobbata dai media Puglia-oriented), ha presentato materiali dal suo nuovo lavoro “Sacro et profano”. Il giorno successivo Enrico de Angelis, il responsabile artistico del Club Tenco, ci ha guidati nell’universo di voci femminili delle città (Ria Rosa, Christian, Milly, Betti, Vanoni, Ferri, Nada, Marini) tra immagini, ascolti ed analisi di liriche e musiche.
Din Dùn |
Mimmo Epifani |
Per contrasto, parla una lingua sonora terragna il mandolino del pugliese Mimmo Epifani, maestro di corde e musicista di mestiere, che ha saputo spaziare tra melodie e danze tradizionali, umori partenopei (il classico “Reginella”, la carosoniana “Pasqualino Marajà”), ma anche milanesi (l’incipit di “Ma se ghe penso”), tributi alla Puglia di Modugno (“La donna riccia”) e al poeta del Tavoliere Matteo Salvatore (“Lu bene mio”), che è stato il primo premio alla carriera dieci Loano fa. Ruffiano? No, artista popolare, che capisce il suo pubblico, lo asseconda, ma piega le canzoni alla sua sensibilità di grande strumentista. “Cantare la voce”: il titolo stratosiano, scelto dal direttore artistico del festival John Vignola (giornalista de “Il Mucchio Selvaggio” e voce di Radio Rai), è la produzione del festival incentrata sul canto femminile e l’appartenenza, un’idea che in un certo senso ha proseguito ed allargato quanto iniziato pochi giorni prima negli incontri pomeridiani, quando si è parlato di storiche cantatrici. Qui l’enfasi è stata sull’interpretazione di canti e musiche della tradizione popolare (o esempi di nuova scrittura in stile popolare) intesa come viaggio, avventura, “un concerto senza rete”, nelle parole di Vignola, che ha accolto artiste di diversa origine e formazione. A partire dal trio vocale Balentes, eretiche fin dal nome che capovolge uno dei valori dell’ethos maschilista tradizionale sardo. Le tre interpreti sono capaci di rileggere in forma “light” e accattivante, ma che tuttavia ne rispetta la struttura, i canti tradizionali sardi (un tempo di esclusività maschile). Ritmo, giochi vocali, innesti pop, gustoso incrocio di voci nelle interpretazioni a cappella delle fanciulle sarde.
Le Balentes |
Immancabile lo standard folk “No potho reposare”, ma anche una Patty Pravo riletta a tenores (“La Bambola”) e due artisti che accomunano Liguria e Sardegna, Fabrizio De André (“Volta la carta”) e Andrea Parodi (“Pandela”), trovano spazio nel repertorio del trio. Un bell’incipt per la serata finale del festival! Tocca le corde dell’anima Paola Lombardo, nell’essenzialità della voce pura, accompagnata dal solo tamburo nel tradizionale occitano “Margot vou pa dancar” e dalla chitarra di Enrico Negro. “Tres Jorns a Paris” e “Lo miton” escono dalla penna della stessa Paola. Ancora di derivazione tradizionale sono, invece, la suite di ninna nanne della val Susa, il canto in piemontese “La crava mangia j more” e quello occitano “Triste es lo cel”. Il timbro della Lombardo si erge limpido e delicato, vitale e sincero; la cantante ci mette anche un po’ di teatralità, che non guasta. Sono solo quindici minuti, ma che percorso emozionale! Si cambiano registro e area geografica: è la volta poi di Spakka-Neapolis55, il cui set comprende nuovi canti e musiche di tradizione campana dalla cifra world, innesti di tessiture rock e mediorientali, riformulazione dei canoni della tradizione strumentale con piglio contemporaneo (“Spata r’oro”, “Vesuvio”), poetica dai toni crudi (“Scampia”, “E Nnuvole”). Chiamatelo pure nu-folk da esportazione, ma la band guidata dal violinista Antonio Fraioli e dalla front woman Monica Pinto possiede sostanza e vigore.
Spakka-Neapolis55 |
Il canto scuro e robusto di Monica, maturata sia come vocalist sia come personalità che sa tenere il palco (e conquistare il pubblico), trova, com’è giusto, pieni consensi anche a Loano. Gli Spakka si riservano anche un salto nel repertorio salentino (“Lo ruciu te lu mare” e “Ahi lu core meu”), di cui non si avverte necessariamente il bisogno, per poi ritornare nella tradizione colto-popolare campana affidandosi al tiratissimo classico “Cicerenella”. Il gran finale della serata è per “Terra ca nu senti”, l’album più votato dalla qualificata giuria del Premio Nazionale Città di Loano, realizzato da Rita Botta & Banda di Avola, quell’opera mirabile del Maestro Sebastiano Bell’Arte, che dirige un’orchestra dall’età media molto bassa, cui corrisponde una già notevole qualità sonora. È un mix di canto potente, accorato e drammatico, ma anche ironico della vocalist catanese che si sposa al suono della banda di trenta elementi. Quale modo migliore di premiare la tradizione popolare siciliana? Aperto da “Don Nuzzo”, composizione di Bell’Arte, sullo stile delle marce tipiche del repertorio bandistico, il set riesce a sintetizzare umori, sentimenti e contrasti delle terra di Sicilia.
Rita Botto |
Rita canta l’amore (“O cori di stu cori”), l’emigrazione (“Terra ca nun senti”) e la festa (“Lu Matrimoniu”), poi si propone in un omaggio al repertorio dell’imprescindibile Rosa Balistreri (“Canto e cuntu”). “Vogliu spaccari, spaccari li cieli, pi fari chioviri, chioviri amuri”, canta Rita, mentre, come in un colpo di teatro, inizia a scendere una pioggerella. La Botto si lancia in un irresistibile scioglilingua che si sposa a “La virrinedda”, ad esorcizzare lo scroscio, che intanto, purtroppo, ha fatto allontanare una fetta di pubblico. Ma i più restano fino alla fine del concerto. Gentile e doveroso l’omaggio floreale per le donne protagoniste della serata; plauso davvero sentito a chi da un decennio porta avanti una manifestazione alla quale si lavora tutto l’anno, al fine di accendere le luci del folk sul finire di luglio nella bella location della cittadina rivierasca, dove si suona, si canta, si racconta la musica popolare.
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