Paco de Lucía, Maestro del Flamenco, emblema musicale della Spagna popolare

Appunti sulla produzione discografica 
Tornando agli anni dell’adolescenza di Paco e alle sue prime produzioni discografiche, dopo l’intenso periodo di formazione in ambito familiare, nei primi anni Sessanta, il padre Antonio decise di far suonare ed esibire in duo i figli Pepe (1945, padre della cantante Malú) e Paco, curando la realizzazione del primo disco de “Los Chiquitos de Algeciras”. Siamo nei primi anni Sessanta. Per qualche tempo i due fratelli entrarono a far parte della compagnia di José Greco, seguendo un tour americano durato nove mesi. L’anno dopo, con cipiglio imprenditoriale, il padre decise di trasferirsi con la famiglia a Madrid, al fine di far conoscere i figli al pubblico della capitale e per permettere loro un confronto più aperto con i differenti stili musicali. Pepe e Paco suonarono in tour nazionali e internazionali. Parallelamente quest’ultimo iniziò a incidere come solista “Doce canciones de García Lorca para guitarra” (1965) e “La fabulosa guitarra de Paco de Lucía” (1967). Il 1968 segnò l'incontro con il cantante Camarón de la Isla (1950), originario di San Fernando (denominato anche “la Isla”, vicino a Cadice), considerato uno dei maggiori interpreti di flamenco, purtroppo deceduto poco più che quarantenne nel 1992. Nacque così un sodalizio umano e artistico che portò a una proficua e intensa collaborazione creativa, soprattutto tra il 1968 e il 1977, durante la quale sperimentarono forme di fusione musicale, integrando nei canti tipici del flamenco influssi stilistici provenienti dalle musiche classica, jazz, araba, sud americana e folk. Insieme nel tempo incisero (a mia conoscenza) una decina di dischi, opere indispensabili per comprendere l’evoluzione del flamenco moderno. Parallelamente al duo con Camarón, il chitarrista di Algeciras registrò come solista “Fantasía Flamenca de Paco de Lucía” (1969), “El Duende Flamenco de Paco de Lucía” (1972, dove per la prima volta la chitarra risulta accompagnata dall’orchestra), dischi decisivi per la sua evoluzione stilistica. Nel 1973, incise “Fuente y Caudal”, grazie al quale ottenne un clamoroso successo con il brano “Entre dos Aguas”, basato sul ritmo di rumba con l’accompagnamento di bongos e di basso elettrico. 
Nel 1975, de Lucía riuscì a coronare il sogno dei chitarristi flamenco, esibendosi trionfalmente, insieme al fratello Ramón, nel Teatro Real di Madrid, tempio della musica classica spagnola, ottenendo un successo strepitoso anche in termini di pubblico. L’anno seguente conseguì un altro successo discografico con “Almoraima”, nel quale confermò un orientamento compositivo e timbrico verso sonorità ibride (percussioni varie e basso elettrico) non sempre ben accette dai puristi del flamenco e dalla critica più conservatrice. “Paco de Lucía interpreta a Manuel de Falla” è un disco del 1978, nel quale furono comprese composizioni e trascrizioni (in buona parte riadattate) tratte dalle opere “El Sombrero de Tres Picos”, “El Amor Brujo”, “La Vida Breve” e “Siete Canciones Populares” del compositore classico spagnolo, come noto grande estimatore del flamenco. Nel disco, tra i collaboratori, i suoi due fratelli Ramón de Algeciras e Pepe de Lucía. “Solo quiero Caminar” è del 1981, inciso con un atipico sestetto che comprendeva come consuetudine i due fratelli, il bassista Carles Benavent, il percussionista Rubém Dantas e il flautista/sassofonista Ruben Jorge Pardo. Il disco riceverà critiche, ma un discreto successo commerciale. Tuttavia la fase sperimentale terminò già l’anno seguente con “La Guitarra de Oro de Paco de Lucía” (1982), un doppio album di flamenco tradizionale nel quale il chitarrista suona o da solista o in duo con il fratello Ramón. Stessa linea seguita anche in “Siroco” (1987), particolarmente elogiato dalla critica più severa, essendo una produzione discografica nella quale pur senza rinunciare allo stile personale ormai consolidato, ebbe modo di suonare con grande rispetto verso la tradizione più autentica. Nel disco “Zyryab”, del 1990, collaborarono Chick Corea e il suo amico Manolo Sanlúcar, virtuoso della chitarra. Inoltre, musicisti di varia estrazione, che suonavano percussioni (tra cui Ramón “El Pesicola” al “cajón”), tastiere, mandolino, strumenti a fiato e voci (Potíto e Pepe de Lucía). Nel 1991, Paco de Lucía tornò a far discutere con un’esecuzione decisamente originale del “Concierto de Aranjuez”, composto da Joaquín Rodrigo. 
Lo stesso autore elogiò l’interpretazione, ma le critiche giunsero soprattutto dal mondo della classica anche a causa di un insanabile pregiudizio, in base al quale un suonatore popolare di flamenco non dovrebbe eseguire repertori classici e viceversa. L’esecuzione fu generalmente stimata come originale e di elevato livello interpretativo anche negli altri brani contenuti nel disco, tra cui le composizioni riadattate da opere di Isaac Albéniz (“Triana”, “Albaicín”, “El Puerto”). Degli anni Novanta, meritano menzione almeno il “Live in America”, del 1993, e l’album “Luzía”, del 1998, dedicato alla memoria dell’amata madre portoghese deceduta proprio durante le registrazioni del disco. Nelle interviste, Paco spesso evidenziò quanto fosse affezionato alla madre, elogiandone le virtù di donna (“colei che in famiglia dava sicurezza, calore e molto amore”) e di cuoca. Prima del decesso, per sei mesi consecutivi, durante la degenza ospedaliera, andò a trovarla ogni giorno:- «L'intero album è impregnato di quella sofferenza, dal dolore che si prova quando tua madre ti sta lasciando. Una volta ho detto che le avrei dedicato il disco e lei era molto felice. Lei mi ha donato un bel sorriso, un sorriso che non dimenticherò mai e penso che sia una ragione sufficiente per dedicarsi a lei». È indicativo il nome del titolo dell’album scritto con la “z”, alla portoghese certo, ma anche per giocare sull’assonanza spagnola, giacché “Luzía” significa “riluceva, luccicava”. L’album seguì un lungo percorso creativo, in cui Paco si prese un periodo di riposo, interrompendo i concerti, dedicandosi esclusivamente alla composizione. Dopo sette mesi, lavorando dieci ore al giorno, registrò “Luzía”. Nel disco, per la prima volta, Paco incise la sua voce come cantante (una passione giovanile che mise in pratica raramente). Un brano venne dedicato alla memoria dell’amico Camarón. Nel nuovo millennio, le pubblicazioni diminuirono. Tuttavia di questi anni si menzionano il film documentario (del 2002) cui si è accennato in precedenza, “Francisco Sánchez - Paco De Lucía”, che inizia con le sentenziose parole “Me llamo Francisco Sánchez alias Paco De Lucía y soy guitarrista”, quasi a voler rilevare la distinzione tra l’uomo comune, nato e vissuto nel barrio popolare di Algeciras, cittadina di marinai e pescatori, e l’artista che ha calcato i palchi in ogni parte del mondo facendo conoscere, ai massimi livelli, la musica del flamenco. Paco è il diminutivo di Francisco ed è bene chiarire che, essendo assai comune, rispettando una consuetudine spagnola, ai bambini veniva spesso aggiunto il nome della mamma o talvolta della nonna. 
“De Lucía” era quindi riferito al nome della madre (Paco figlio “di Lucía”). E tale consuetudine nominale conservò quando, da ragazzino, dovette scegliere un nome d’arte, che lo accompagnò con successo tutta la vita. Il film documentario, nel 2004, venne poi commercializzato come doppio dvd, comprendente anche diverse altre performances dal vivo. Nello stesso anno, pubblicò l’album “Cositas buenas” sempre all’insegna del flamenco, composto in prevalenza nella sua casa marina sulla costa dello Yucatán («quando compongo, preferisco essere solo con la mia chitarra»), del quale apprezzava la natura, ma soprattutto il mare («il più bello mai visto da occhio umano»), luogo ideale per rilassarsi e per concedersi dei momenti di svago con la pesca subacquea. Nel disco de Lucía ebbe modo di rivisitare un po’ tutto il suo percorso musicale ricordando con affetto i luoghi dell’infanzia, tanto che alcuni brani furono riferiti alla natia Algeciras, cittadina nella quale nel frattempo gli furono dedicate una via, una scuola musicale e una statua eretta in suo onore. Nel 2011, venne prodotto “En Vivo, Conciertos España 2010”, che de Lucía elogiò, perché «… l’energia che si produce nel palcoscenico non si potrà mai raggiungere in uno studio di registrazione … quello che succede dal vivo è reale, a volte sbagli, però ti trovi in uno stato di eccitazione nel quale l’adrenalina ti aiuta a trovare soluzioni… l’anima della musica è più probabile che appaia dal vivo». Questa fu la sua ultima pubblicazione, postuma è già uscita l’opera “Canción Andaluza”. Oltre alle produzioni discografiche pare opportuno ricordare che De Lucià collaborò anche per la realizzazione di colonne sonore cinematografiche (l’ultima in ordine di tempo “Solo quiero caminar”, del 2008, con la regia di Agustin Diaz Yanes). 

In memoriam 
Come verrà ricordato Francisco Sánchez Gómez, in arte Paco de Lucía, supremo chitarrista flamenco venuto dal mare andaluso, spentosi su una ridente località marina del Messico nella quale, da decenni, si rifugiava per ritrovare pace e serenità lontano dal caos cittadino o dalla ressa dei concerti? Pur essendo un “payo” (non “gitano”), Paco è divenuto il simbolo di una musica interculturale attraverso la quale i gitani andalusi hanno trovato un originale modo per esprimere sentimenti, desideri, amori e passioni. Questa musica è stata da lui appresa seguendo con il massimo rigore i canoni della tradizione, in anni in cui era forse inevitabile innovarla in modo da essere fruibile a livello internazionale. De Lucía seppe mantenere salda l'identità del flamenco, ricercandone una nuova vita in modo che il messaggio musicale originale potesse essere diffuso: anche per questo è stato considerato come il più rappresentativo ambasciatore della musica spagnola popolare nel mondo. Inoltre, con le ri-elaborazioni delle musiche di De Falla, Rodrigo, Albéniz, Paco avvicinò molti giovani alla musica classica; grazie a lui una schiera di ascoltatori si è appassionata alla chitarra, attratta da bravura, espressività, bellezza giovanile e dal suo inarrestabile successo mediatico. Dal 2010, l’Unesco ha riconosciuto il flamenco Patrimonio Immateriale dell’Umanità, un traguardo importante al quale Paco de Lucía certamente contribuì con la sua arte popolare che, per essere appresa, gli richiese immensi sacrifici e notevoli rinunce, tali da impedirgli verosimilmente di avere un’infanzia “normale”, dovendo passare i suoi giorni ad allenare instancabilmente le dita, per raggiungere una tecnica impeccabile, grazie alla quale riuscì a calcare i palcoscenici più rappresentativi, innovando la cultura strumentale del flamenco, rendendolo senza frontiere. Un inestimabile regalo ci ha donato con la sua arte Paco de Lucía,“el Maestro”, genio musicale andaluso che milioni di appassionati ringraziano a cuore aperto per tutte le emozioni che ha saputo trasmettere attraverso il suo strumento popolare in oltre cinquant’anni di attività.  Appreso della sua prematura scomparsa, il 26 febbraio 2014, mi sono rattristato, ma ho ritrovato il buon umore rivedendo la sua storia attraverso numerosi video sparsi nel web, indimenticabili performances che lo renderanno, insieme alla nutrita produzione discografica, perennemente vivo anche agli occhi dei più giovani e delle future generazioni. Paco de Lucía al termine del suo documentario autobiografico, disteso comodamente sull’amaca, ha voluto far sapere di non aver mai programmato nella vita e come un fiume di essersi mosso trasportato dalla sua corrente: “panta rei”. Ha infine voluto salutare amichevolmente i propri spettatori con il convenzionale saluto “hasta luego” (arrivederci), prima di appoggiare il cappello di paglia a copertura del volto sorridente. Dopo la fatica di un’esistenza intensamente vissuta sotto i riflettori, è giunto il momento della meritata “siesta”. “La vida es un soplo (soffio): ars longa - magnífico Paco - y, encantado, muchas gracias por todo”, soprattutto per aver trovato con fiero orgoglio spagnolo il coraggio e la forza di mostrare all’umanità il tuo gigantesco cuore musicale e quello del popolo andaluso. 



Paolo Mercurio

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