Chet O'Keefe - Because Of You (Rootsy.nu/I.R.D., 2013)
Cantautore quarantasettenne originario del Massachusetts, Chet O'Keefe artisticamente parlando è l’epigono di quella generazione di troubadour che parte da Town Van Zandt, passa attraverso Guy Clark, ed arriva a John Prine. Dopo l’infanzia trascorsa nel New England, i suoi sogni di rock’n’roll lo hanno condotto attraverso gli States, dapprima al seguito di Bo Diddley nella sua band, successivamente a Nashville dove ha inciso due album, per approdare in fine a Washington, dove attualmente vive. Il suo nome è arrivato agli onori delle cronache giornaliste grazie al successo della sua “Ring The Bell”, tratta dal suo disco precedente “Game Bird”, e scelta come canzone dell’anno dalla IBMA, ma un importante spinta alla sua carriera l’ha data il recente contratto con l’etichetta scandinava Rootsy, che oltre a ristampare il disco precedente, ha tenuto a battesimo anche il suo nuovo album “Because Of You”, realizzato a fatica grazie ad una raccolta fondi, e che adesso trova una più che dignitosa distribuzione anche in Italia grazie alla sempre lungimirante I.R.D.. Così eccoci di fronte a questo disco, che raccoglie dieci ballate dalle atmosfere acustiche, in bilico tra country e folk, nelle quali attraverso un gioco di luci ed ombre, Chet O’Keefe ci racconta la sua vita, accompagnato da una band essenziale in cui sono protagonisti il produttore Thomm Jutz (chitarre), Lynn Williams (batteria), e Mark Fain (basso). Durante l’ascolto si spazia, infatti, dai problemi con l’alcool raccontati nella sofferta “Not Drunk Yet”, che apre il disco, e in “Drinkin' Day”, a spaccati di una vita spesa tra le strade di Nashville come ci racconta nelle trame folkie di “Down At The Star Cafe”. Nel mezzo però trovano posto anche storie di cui si fa portavoce come nello splendido valzer “True Love” in cui canta del duro vivere quotidiano di una madre con tre figli alla ricerca del vero amore, spaccati ironici come nel caso di “Hick Tech (Nology)” e canzoni d’amore accorate come l’intensa e struggente title-track. Insomma “Because Of You” è un disco intimo, introspettivo, in cui a Chet O'Keefe sfoggia un sogwriting di alta scuola regalandoci momenti di pura poesia.
Tim Grimm - The Turning Point (Cavalier Music, 2013)
Cresciuto musicalmente alla scuola del suo amico Ramblin Jack Elliot, e autore di alcuni dischi di successo come “The Back Fields”, votato come il migliore album “americana” nel 2006, Tim Grimm è senza dubbio uno dei songwriting più interessanti degli ultimi anni, e questo non solo per la sua capacità di abbeverarsi alla fonte di Bruce Springsteen come a quella di Johnny Cash e Woody Guthrie, ma per la sua capacità di saper confezionare piccole perle dense di poesia. Dopo aver dato alle stampe “Thank You Tom Paxton”, disco nel quale celebrava le canzoni del folksinger americano, lo ritroviamo alle prese con “The Turning Point”, sesto disco in carriera, e che come suggerisce il titolo rappresenta un ulteriore svolta nella sua carriera. Sebbene gli ingredienti del suo songwriting siano sostanzialmente rimasti gli stessi, comprese le immancabili chitarre di Jason Wilber, a cui si sono aggiunti il banjo di Rebecca Ree-Lunn e l'armonica di Jan Lucas, la particolarità di questo disco è quella di essere stato inciso nella sua casa di Bloomington, per cristallizzare l’atmosfera rilassata e allo stesso tempo intima delle sessions. Le sue canzoni si caratterizzano per una rigorosa ricerca attraverso il folk e la musica old time, ma anche per la cura con la quale, da consumato storyteller, racconta le sue storie, e i personaggi. Ad aprire il disco è la suggestiva “The Lake” che ci introduce subito al primo highlight del disco ovvero la splendida “Family History” una saga familiare raccontata con vibrante partecipazione e trasporto. Si passa così attraverso il tributo ai suoi numi tutelari “The King Of Songwriter”, la rilettura del traditionale “Rovin’ Gambler” e la tesa murder ballad “The Turning Point”, fino a giungere a “Anne In Amsterdam”, che racconta della sua visita al museo dedicato ad Anna Frank ad Amsterdam. Arrivano poi i paesaggi americani raccontati in “The Canyon” in cui spicca la concertina a guidare la linea melodica, e la gustosa “Indiana” in cui dialogano violoncello, banjo e violino, che ci portano verso il finale travolgente dell’old time “Blame It on the Dog”. Insomma “The Turning Point” sarà ricordato come il disco della consacrazione di Tim Grimm, cantautore dal songwriting prezioso ed illuminato, in grado di creare un ponte tra il presente e il passato della roots music americana.
Ursula Ricks – My Street (Severn Records/I.R.D., 2013)
Blueswoman di razza, e dalla grande esperienza maturata nei locali del natio Maryland, Ursula Ricks giunge al suo debutto sotto gli auspici della Severn Records, etichetta indipendente americana, che negli ultimi tempi ha sfornato una serie di dischi pregevoli culminati con la pubblicazione dei dischi di Bryan Lee e dei Fabulous Thunderbirds. My Street, questo il titolo del disco, è stato registrato ad Annapolis sotto la guida del produttore Kevin Anker, il quale per l’occasione ha raccolto intorno ad Ursula Ricks una eccellente band in cui spiccano Johnny Moeller (chitarra), Steve Gomes (basso), Rob Stupka (batteria), Mark Marella (percussioni) e i fiati dell’eccellente ensemble diretto da Willie Henderson. L’ascolto rivela sin da subito una miscela esplosiva e sanguigna di rock-blues, R&B, e soul, in cui spicca la vocalità prepotente ed energica della Ricks. Si parte con “Tobacco Road” con Kim Wilson ospite all’armonica, che ci introduce alla ballata dai toni soul “Sweet Tenderness” in cui spicca l’intreccio tra archi e fiati ad avvolgere la voce della Ricks. Se il funky ritmato di “Mary Jane” ci arriva dal songbook di Bobby Rush, la title track e “Due” ci consentono di scoprire ancora meglio le potenzialità vocali della blues woman del Maryland, che a tratti sembra uscire da uno dei tanti dischi della Stax. Si vira poi verso il blues con “Right Now”, impreziosita dall’ottimo lavoro alla chitarra di Moeller, per ritornare al soul con la splendida “The New Trend” e quel gioiello che è “Make Me Blue” in cui ancora una volta a farla da padrone sono gli arrangiamenti superbi di Henderson. Chiudono il disco “Just A Little Bit Of Love” di Curtis Mayfield e “What You Judge” con la band che gira al massimo guidata dalla chitarra di Moeller. Se amate il soul e il blues declinato al femminile “My Street” sarà l’occasione giusta per scoprire Ursula Ricks, una delle interpreti più interessanti degli ultimi anni, che non mancherà di regalarvi momenti di grande musica.
Andrew Strong - The Commitments Years And Beyond (DixieFrog, 2013)
I nostri lettori ricorderanno certamente quel piccolo capolavoro che era “The Commitments” film culto di Alan Parker, tratto da un romanzo del 1987 di Roddy Doyle, nel quale veniva raccontata la storia di uno sgangherato gruppo di irlandesi alle prese con il sogno di formare un gruppo soul. Il film all’epoca ebbe un grande successo commerciale, ed è ancora ricordato come una delle pagine più belle del cinema rock, come dimostrano anche le vendite della sua colonna sonora, per altro ristampata in una versione deluxe definitiva, proprio qualche anno fa. Ciò che all’epoca colpì molto, fu che gli attori erano quasi tutti sconosciuti al grande pubblico, ed erano stati scelti sostanzialmente per le loro doti musicali, e non è un caso che molti di questi abbiano deciso di proseguire la loro carriera nel mondo del rock, piuttosto che in quella del cinema. A differenza della maggior parte dei musicisti coinvolti nel film, che hanno dato vita ad una band con la quale portano sul palco le canzoni della colonna sonora, Andrew Strong, che interpretava Deco Cuffe l’ugola d’acciaio della band, ha preferito dedicarsi alla propria carriera come solista, incidendo anche alcuni dischi purtroppo finiti ben presto nell’oblio, così come le sue velleità di successo. A distanza di oltre vent’anni dall’uscita del film, proprio Andrew Strong torna a far parlare di se con “The Commitments Years And Beyond”, disco dal vivo registrato in Francia, e prodotto dalla Dixie Frog, che fotografa una delle sue incendiarie perfomance live accompagnato dalla sua inseparabile band. L’ascolto rivela un disco intenso e sanguigno, dove chitarre e fiati incorniciano alla perfezione la voce grintosa di Strong. Brillano così le interpretazioni di classici del soul rock come l’iniziale “Gimme Some Lovin’” dello Spencer Davis Group, una travolgente “Hard To Handle” di Otis Redding e “In The Midnight Hour” di Wilson Pickett, ma il vertice del disco arriva con una superba resa di “In the Dark Of The Street”, caratterizzata da una straordinaria performance vocale di Strong. Non mancano poi alcune incursioni nel rock come nel caso della rilettura rhythm ‘n’ blues di “Born To Be Wild” degli Steppenwolf, o ripescaggi sorprendenti come quella “Yolanda” di August Darnell, leader di Kid Creole And The Coconuts, o ancora “Take Me To The River” di Al Green. Pregevoli sono anche i rifacimenti di “Mustang Sally” di Wilson Pickett, in cui spicca un eccellente assolo del sax in conclusione, “Try a Little Tenderness” e “I Thank You” di Isaac Hayes, caratterizzata dall’intreccio tra la voce di Strong e quella di Brenda Della Valle Herve. Completano il disco “Show Me” è di Joe Tex, con continui star and stop e cambi ritmici, e una rovente “Fire”, già nel repertorio di Jimi Hendrix. Per quanti avessero poi la fortuna di recuperare l’edizione speciale, o avessero voglia di acquistare questo disco su iTunes, ci sono altri tre brani in incisi dal vivo in studio ovvero “(I Got You) I Feel Good” dal repertorio di James Brown e cantata in duetto con Claudia Tagbo, una torrenziale “I Heard It Through the Grapevine” in coppia con Nico Wayne Toussaint, e una scintillante “Soul Man”. Insomma per quanti hanno amato il film, e nelle loro vene scorre sangue soul questo disco sarà certamente una bella sorpresa, tra canzoni memorabili, grande musica e soprattutto una bella dose di divertimento.
Emily Herring - Your Mistake (Emily Herring, 2013)
Cantautrice texana di buon talento, Emily Herring vanta un percorso artistico molto lineare che l’ha portata negli anni ad affinare il suo stile che pesca tanto dal western swing quanto dal country e dalla musica old time, qualcosa insomma di ben lontano dai lustrini di Nashville, ma piuttosto in grado di evocare ora Patsy Cline, ora la primissima Lucinda Willams. Ciò che colpisce del suo songwriting è la capacità di destreggiarsi nella tradizione americana, proponendo canzoni riflessive, e dense di poesia. L’ascolto ci conduce attraverso il western swing dell'iniziale Austin (Ain't Got No) City Limits, un accorato tributo agli Asleep At The Wheel, il country da ballroom della title track, e l’introspettiva “Praire Lea”, fino a giungere alle splendide “Turquoise Earrings” e “One Sip Of Water”, in cui spicca il dobro di Benjamin Dewey. Si prosegue con il country-rock stradaiolo della trascinante “Wanna Holler” in cui brilla la chitarra di Brian Kelly che si ripete nel rockabilly di “Stifling Its Sound”. Completano il disco il country di “Don't Waste Time”, e l’incursione nel blues di “One Steals The Load”, a dimostrazione anche della vitalità e della versatilità dello stile della Herring. “Your Mistake” è insomma un bell’esempio di cantautorato country-rock al femminile, nonostante qualche qualche passaggio derivativo.
Jude Johnstone – Shatter (Bojak Records 2013)
Nota soprattutto per aver firmato quella “Unchained”, resa famosa dalla superba interpretazione di Johnny Cash per le sue American Recordings con Rick Rubin, Jude Johnstone è una di quelle cantautrici americane, che nonostante abbiano dimostrato di possedere talento da vendere, non sono riuscite a sfondare a livello di successo commerciale, e nel suo caso, tutto ciò si acuisce considerando che tante sue colleghe come Emmylou Harris e Bonnie Raitt hanno fatto ricorso spesso alla sua penna. Dispiace, così, sapere già in anticipo che il suo nuovo album “Shatter”, disco tanto pregevole quanto vibrante nel raccontare temi personalissimi come la perdita e la fine di una coppia, sia destinato a rimanere nell’ombra. La sua scrittura che rimanda alla migliore tradizione cantautorale americana, sposa nelle sue trame notturne e quasi sofferte, i toni del blues e del gospel, come dimostra proprio la title track che apre il disco. Che dire poi della sinuosa “What a Fool” o le splendide “Halfway Home” e “The Underground Man” con la tromba di Dan Savant ad impreziosire la linea melodica, o ancora della cruda “Alcohol” che rientra dritto tra le sue migliori composizioni, sono brani sentiti, toccanti, profondi, così come lo è quando svela il suo lato più romantico nella conclusiva “Your Side of the Bed”. Per chi ha apprezzato i dischi precedenti “Blue Light” e “Mr. Sun”, questo nuovo album rappresenterà certamente una bella sorpresa, mostrandoci la Johnstone al vertice della sua carriera di cantautrice, anche quando deviando il percorso ci conduce verso i sentieri del pop rock con “When Does Love Get Easter” o del jazz di New Orleans con Touchdown Jesus.
Too Slim & The Taildraggers – Blue Heart (Underworld Records 2013)
Originario di Spokane, Washington, Tim “Too Slim” Langford è un bluesman di razza, con alle spalle tanta esperienza maturata, macinando concerti su concerti sui palchi degli States. A partire dal 1986 ha messo in fila ben undici dischi in studio e quattro dal vivo, costruendosi pian piano un seguito nutrito di fedelissimi. Il suo nuovo album “Blue Heart” nasce a Nashville, città in cui si è trasferito di recente, e nella quale ha inciso questi undici brani, di cui nove originali e due cover, prodotti da Tom Hambridge, con la benedizione di Nancy Langford, nelle vesti di executive producer. Al suo fianco immancabili troviamo i suoi The Taildraggers ovvero Tom Hambridge (batteria, cori), Bob McNelley (chitarra), Tommy MacDonald (basso),Reese Wynans (organo Hammond B-3) e Jimmy Hall (lead vocal, armonica). Ad aprire il disco è il racconto personalissimo della sua vita dissoluta, spesa tra donne alcool e cocaina, di “Wash My Hands”, che ci introduce prima a “Minutes Seem Like Hours”, una blues ballad guidata dalla sua chitarra tagliente e quasi sofferta, e poi alla title-track, un brano swingante di puro blues made in Chicago con l’armonica di Jimmy Hall in gran spolvero. Se “Make It Sounds Happy” è un gustoso rock-blues, la successiva “Good To See You Smile Again” ci porta verso sonorità quasi jazz con la complicità di Jimmy Hall al canto. I problemi con l’alcool ritornano nell’hard blues “When Whisky Was My Friend”, mentre “New Years Blues” è uno spaccato dell’America preda della crisi finanziaria. Sul finale arrivano poi la rilettura di “Shape Of Blues To Me”, lo scintillio della slide di Langford di “Preacher” e il blues del Mississippi della confessionale “Angels Are Back” in cui il bluesman ci parla della sua visione della morte. Artista scapestrato quanto geniale, Tim Langford si conferma come uno degli interpreti più raffinati delle tradizione blues contemporanea.
Alias Means - Light Matter (Autoprodotto, 2013)
“Light Matter” è il disco di debutto di Alias Means, cantautore californiano di Silver Lake, con alle spalle una buona esperienza maturata con Ronnie Mack’s Barndance, The Grand Ole Echo, e Art Fein’s Elvis Birthday Bash, ed animato da una grande passione tanto per i Rolling Stones quanto per Earle Scruggs. Spaziando dal rock n’ roll al country-rock, passando per l’honky tonk e il bluegrass, Alias Means ha messo in piedi un disco, senza dubbio interessante, che raccoglie dieci brani, incisi con il supporto di un ampio cast di musicisti composto da Darice Bailey (piano, e organo), Brian Descheneaux (controcanti), Jorden Levine (chitarra), Matt Lucich (batteria e percussioni), Gene Micofsky (chitarra) e Marty Rifkin (pedal stee, lap steel e dobro). L’ascolto ci consente di scoprire così la sua versatilità nel destreggiarsi tra gli echi dei Rolling Stones dell’inziale “Delicate Mind” e del piano boogie “Trouble With My Muse”, a spaccati di puro country come nel caso di “Sleeves”, “Last Train”, e “Winterblind”, e pur non brillando per originalità, il suo songwriting si lascia apprezzare tanto per l’onestà intellettuale, quanto soprattutto per la grande dose di passione cha ha impresso in ogni suo brano.
Dan Israel - Live On (Autoprodotto, 2013)
La storia di Dan Israel è quella di tanti cantautori americani, sconosciuti forse al grande pubblico, ma animati da un desiderio fortissimo di portare avanti il loro percorso artistico, senza badare troppo al successo, ma piuttosto mirando solo ed esclusivamente a valorizzare la propria integrità di artigiano della musica. Messosi da qualche anno alle spalle l’esperienza con i Cultivators, la sua band con la quale animò a fine anni Novanta la scena alt-country di Minneapolis, Isreal da qualche anno ha virato con maggiore decisione verso la sua carriera solista, e così, grazie ad una campagna di fund raising organizzata su Kickstarter, lo ritroviamo alle prese con un nuovo album “Live One, che raccoglie undici brani di impostazione folk rock nei quali si mescolano la sua passione per la roots music e una particolare attenzione verso le melodie pop. Il disco nel suo insieme è una profonda riflessione sulle responsabilità che comporta l’essere adulto e padre, e si caratterizza per una scrittura personale ed introspettiva, come mai era successo nella sua produzione. Israel si mette a nudo, ci parla della sua famiglia, dei problemi di tutti i giorni, e allo stesso tempo ci regala brani pregevoli come gli spaccati elettroacustici di “Rollin Away” e “Until You See The Sign”, la splendida title-track scintillante nel suo intreccio tra armonica e steel guitar, ma soprattutto la toccante “Mile After Mile”, dedicata a Slim Dunlap dei Replacements. Per chi volesse saperne di più su Dan Israel parallelamente a questo disco è stato pubblicato in digitale ed in vinile “Danthology”, doppio album che raccoglie venticinque brani dalla sua produzione precedente.
Artisti Vari - The Golden Demon (Hemifran, 2013)
Da diversi anni il promoter svedese Hemifran si è ritagliato un ruolo di rilievo nella diffusione della musica country, roots e blues in Europa, non solo promuovendo artisti e band ben note agli appassionati, ma anche facendoci conoscere diverse realtà nuove. Se negli ultimi anni grande apprezzamento hanno riscosso i due volumi della compilation “Music From Home” e quel gioiellino che era “Music Is Love”, tributo a CSN&Y prodotto dall’etichetta italiana Route 61, la sua nuova pubblicazione “The Golden Demon”, promette di replicare il successo dei precedenti, a partire dal bel sottotitolo scelto per l’occasione “New Songs About Chaos & Transition”, ovvero canzoni nuove riguardo i tempi che stiamo vivendo tra caos e transizione. Dalla politica, alla società, passando per riflessioni personali, e ricordi, alcuni artisti del rooster di Hemifran, tra cui Sid Griffin, Greg Copeland, Kenny White e Allan Thomas hanno regalato un loro brano, componendo un interessante affresco sulla contemporaneità. Certo la qualità è spesso altalenante, ma diverse sono le belle sorprese, come l’attualissima “Occupy Wall Street” di Bob Cheevers, “Brothers” di Dough Ingoldsby e quel gioiello che è “Right ‘Round The Bend” firmata da Sid Griffin.
Salvatore Esposito
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