A vederlo sul palco trasmetteva un’ energia e un magnetismo tali da farlo competere tranquillamente con un Mick Jagger di turno, eppure da qualche anno la salute non gli permetteva più di ballare, la sua voce, sebbene ancora forte, aveva imboccato il viale del tramonto, ma nonostante fosse seduto, non mancava mai di condire i suoi canti con introduzioni dense di ironia e sarcasmo. Uccio Aloisi, era ed è la voce di quel Salento che non c’è più, il punto d’incontro tra la tradizione rurale e la riproposta, l’antico che incontrava il moderno e vi si confrontava faccia a faccia, a muso duro, con quell’orgoglio che solo i Salentini riescono a tirare fuori dal nulla. Uccio Aloisi era il canto, era la terra, era il mare che faceva da ponte con le culture dell’altra sponda dell’Adriatico. Cumpare Uccio, la sera del 21 ottobre ci ha lasciato. Se n’è andato in silenzio, la notizia in un attimo a fatto il giro di tutta Italia, veicolata dalla velocità dei Social Network, dove nel giro di pochi minuti si sono riempite le pagine dei Salentini e non solo, di messaggi di cordoglio e di accorati ricordi. Mi piace pensare che un attimo prima di abbandonare questa terra, Uccio abbia detto qualche battuta delle sue, magari per esorcizzare un momento inevitabile della sua vita, magari per salutare tutti ancora una volta con il sorriso.
Mi piace immaginare che per lui la morte non è stata chiù brutta de na cambiale, ma che l’ha accolta con la stessa serenità con la quale aveva superato i tanti acciacchi degli ultimi anni. Classe 1928, Uccio Aloisi nasce Cutrofiano, un paesino del Salento, da una famiglia contadina e sin da piccolo è educato al duro lavoro per sopravvivere giorno dopo giorno. Nel corso della sua vita cambia decine di mestieri, senza però mai perdere di vista il suo amore per la musica, quella della cultura orale salentina, quella che serve a dare forza e vigore al lavoro dei campi, ad alleviare la fatica. Suona e canta da sempre, sin da giovane, lo chiamano nelle feste di paese, nelle sagre, arriva a suonare con Luigi Stifani, il celebrato violinista-barbiere-terapeuta di Nardò e poi negli anni settanta, mentre cresce il fermento della prima riproposta, da vita con Uccio Bandello e Uccio Melissano a “Gli Ucci”, vero e proprio gruppo musicale con il quale ripropongono sul palco il repertorio che un tempo avevano appreso nei campi. Arriva il successo prima in Italia e poi all’estero, ma lui resta quello che è, un contadino prestato alla musica. Spento il revival degl’anni settanta, vent’anni dopo c’è il ritorno di fiamma, con la Notte della Taranta, la nascita dell’Uccio Aloisi Gruppu, e addirittura il suo primo disco Robba De Smuju, pubblicato nel 2003 dal Manifesto. La sua presenza scenica unica e il suo naturale modo di catturare l’attenzione del pubblico, lo consacrano come leggenda, e tutta la sua vita dimostra come la tradizione abbia ancora tanto da dire ai nostri Tempi Moderni.
L’essere stato l’ultimo degli Ucci a sopravvivere più a lungo, gli ha permesso di diventare il veicolo di una tradizione che parte da lontano, passa attraverso gli stornelli, i canti d’amore, i canti alla stisa e raggiunge la pizzica moderna. Uccio non era una reliquia, non era un mostro sacro, non era un divo, non nessuna delle cose, che si leggono in queste ore che ci hanno separato da lui e dal suo canto. Uccio era un uomo semplice, che amava le romanze di Tito Schipa, che adorava i canti d’amore, e che forse un po’ odiava anche il palco della Notte della Taranta, dove la grande varietà degli stili musicali della tradizione salentina vengono sintetizzati nella sola pizzica. E non è un caso che in un intervista si sfogò dicendo: “Na’ pizzica, poi n'altra pizzica, ancora na' pizzica e la gente se rumpe li cujuni”. Questa estate sul palco de La Notte della Taranta a Melpignano, concludendo la sua esibizione aveva commosso tutti, ringraziando i medici che lo avevano curato e che gli avevano permesso di tornare sul palco. Era stanco, provato dalle sofferenze, ma nei suoi occhi luccicava ancora l’entusiasmo di quando aveva vent’anni, lo stesso entusiasmo che lo vedeva inseguire come seconda voce l’altro grande ed indimenticato Uccio, Uccio Bandello. La prima volta che ebbi la fortuna di sentirlo, fu nel 2004 quando il carrozzone di Craj, l’indimenticabile e bellissimo spettacolo-concerto di Giovanni Lindo Ferretti e Teresa De Sio approdò nel borgo medioevale di Caserta Vecchia. Sul palco insieme a lui c’erano anche gli indimenticati Matteo Salvatore e Pino Zimba. Fu magia pura, e per me amore a prima vista. Da quel momento cominciò un percorso di lento avvicinamento alla tradizione musicale della Puglia in generale e del Salento in particolare, ho scoperto il fascino delle voci dei cantori, l’ipnotico suono del tamburello, la profondità e la semplicità di quei testi nati per alleviare le fatiche e il sudore del lavoro nei campi. Successivamente mi è capitato più volte di rivedere Uccio sul palco, spesso proprio a Melpignano. Non mi ricordo in quale circostanza, accadde che i nostri sguardi si incrociarono nel backstage della Notte della Taranta, rimasi immobile, sospeso tra il desiderio di volergli stringere la mano e il timore reverenziale di avere di fronte la tradizione. Mi mancò il coraggio o forse fu solo il timore di non disturbarlo dopo la sua esibizione, ma alla fine non mi restò che guardarlo allontanarsi accompagnato dal suo gruppo. Uccio Aloisi era una delle radici più solide ed antiche di quell’albero maestoso della tradizione musicale salentina, e sebbene fisicamente non ci sia più, la sua anima continuerà a permeare ed illuminare la vita di tanti musicisti che in lui hanno visto un esempio di dedizione e passione per la musica ma soprattutto di amore per la propria terra. Addio Uccio suona con gli angeli!
L’essere stato l’ultimo degli Ucci a sopravvivere più a lungo, gli ha permesso di diventare il veicolo di una tradizione che parte da lontano, passa attraverso gli stornelli, i canti d’amore, i canti alla stisa e raggiunge la pizzica moderna. Uccio non era una reliquia, non era un mostro sacro, non era un divo, non nessuna delle cose, che si leggono in queste ore che ci hanno separato da lui e dal suo canto. Uccio era un uomo semplice, che amava le romanze di Tito Schipa, che adorava i canti d’amore, e che forse un po’ odiava anche il palco della Notte della Taranta, dove la grande varietà degli stili musicali della tradizione salentina vengono sintetizzati nella sola pizzica. E non è un caso che in un intervista si sfogò dicendo: “Na’ pizzica, poi n'altra pizzica, ancora na' pizzica e la gente se rumpe li cujuni”. Questa estate sul palco de La Notte della Taranta a Melpignano, concludendo la sua esibizione aveva commosso tutti, ringraziando i medici che lo avevano curato e che gli avevano permesso di tornare sul palco. Era stanco, provato dalle sofferenze, ma nei suoi occhi luccicava ancora l’entusiasmo di quando aveva vent’anni, lo stesso entusiasmo che lo vedeva inseguire come seconda voce l’altro grande ed indimenticato Uccio, Uccio Bandello. La prima volta che ebbi la fortuna di sentirlo, fu nel 2004 quando il carrozzone di Craj, l’indimenticabile e bellissimo spettacolo-concerto di Giovanni Lindo Ferretti e Teresa De Sio approdò nel borgo medioevale di Caserta Vecchia. Sul palco insieme a lui c’erano anche gli indimenticati Matteo Salvatore e Pino Zimba. Fu magia pura, e per me amore a prima vista. Da quel momento cominciò un percorso di lento avvicinamento alla tradizione musicale della Puglia in generale e del Salento in particolare, ho scoperto il fascino delle voci dei cantori, l’ipnotico suono del tamburello, la profondità e la semplicità di quei testi nati per alleviare le fatiche e il sudore del lavoro nei campi. Successivamente mi è capitato più volte di rivedere Uccio sul palco, spesso proprio a Melpignano. Non mi ricordo in quale circostanza, accadde che i nostri sguardi si incrociarono nel backstage della Notte della Taranta, rimasi immobile, sospeso tra il desiderio di volergli stringere la mano e il timore reverenziale di avere di fronte la tradizione. Mi mancò il coraggio o forse fu solo il timore di non disturbarlo dopo la sua esibizione, ma alla fine non mi restò che guardarlo allontanarsi accompagnato dal suo gruppo. Uccio Aloisi era una delle radici più solide ed antiche di quell’albero maestoso della tradizione musicale salentina, e sebbene fisicamente non ci sia più, la sua anima continuerà a permeare ed illuminare la vita di tanti musicisti che in lui hanno visto un esempio di dedizione e passione per la musica ma soprattutto di amore per la propria terra. Addio Uccio suona con gli angeli!
Salvatore Esposito