Tupa Ruja – Contrast (Filibusta Records, 2025)

Il loro nome in lingua sarda è “Rifugio Rosso”, che riconduce all’immagine di un luogo intimo e solitario, scrigno dell’azione creativa, mentre il rosso rinvia ai colori dell’outback australiano, luogo di origine del didgeridoo. Sono i Tupa Ruja, progetto world nato intorno alle musiche e al canto plurilingue di Martina Lupi (voce, whistle e scacciapensieri) e di Fabio Gagliardi (didgeridoo e percussioni). “Contrast”, titolo in un’altra lingua minoritaria, questa volta il friulano (con il brano omonimo hanno vinto l’edizione 2022 del “Premio Alberto Cesa” a Folkest) è il titolo del loro quinto album, che esce per Filibusta Records. Con i due fondatori suonano Mattia Lotini (chitarra, basso e bouzouki) e Stefano Vestrini (batteria e percussioni); ospiti i fiati di Javier Girotto (sax soprano e quena), il piano di Alessandro Gwis (già con la band tra il 2017 e il 2021), il basso di Marco Siniscalco e il violino di Michele Gazich. Privilegiando l’idea di sacralità e di socialità, attraversando luoghi, tempi e culture musicali, sensazioni ed emozioni, i Tapa Ruja presentano dieci canzoni dalla variegata configurazione ed ambientazione espressiva canora, timbrica e ritmica. Con Fabio Gagliardi e Martina Lupi parliamo dei trascorsi e dell’attualità della band, della loro ricerca musicale ed esperienziale e, naturalmente, dell’universo ideativo e performativo di “Contrast”.

Come nascono Tupa Ruja? 
Fabio Gagliardi – Nel 2006, Martina ed io ci siamo conosciuti a Roma, durante un corso di teatro sperimentale al quale entrambi avevamo avuto accesso grazie a una borsa di studio messa a disposizione 
dalla Regione Lazio. In quel periodo abbiamo avuto modo di iniziare a sperimentare, unendo i nostri bagagli artistici e musicali; al termine del corso, abbiamo cominciato a viaggiare e ad approfondire sul campo lo studio di strumenti e tecniche vocali di diversi Paesi e culture, già oggetto della nostra formazione artistica fino a quel momento. Martina aveva sostenuto diversi esami di etnomusicologia all’Università di Tor Vergata, relativi alla musica tradizionale del Sud Italia, della quale aveva studiato per anni le danze tradizionali e i canti. Insegnava già danze mediorientali, affascinata dalle culture e dai ritmi arabi.
Martina Lupi – Lo studio della musica e del canto ha sempre fatto parte della sua formazione personale. Fabio era già insegnante di didgeridoo, veniva da un passato di arti marziali, attraverso le quali aveva approfondito tradizioni culturali e musicali d’Oriente. 

In principio avete accostato voce e didgeridoo: come è iniziata la vostra ricerca sulla comunione tra questi strumenti “antichi”?
Fabio Gagliardi – Unire la voce e il didgeridoo è stato come unire le nostre vite, spiritualmente: un ritorno alla musica naturale, semplicemente perché la voce e il didgeridoo rappresentavano le nostre esistenze fino a quel momento. Nemmeno noi sapevamo che quell’unione, così istintiva, sarebbe stata in realtà il prologo di qualcosa di estremamente interessante, capace di coinvolgerci a tal punto da segnare profondamente la nostra storia artistica.

Lo studio delle tecniche vocali è uno dei vostri punti di forza. 
Martina Lupi – Abbiamo studiato per molto tempo con il Maestro Tran Quang Hai varie tecniche di canto armonico, in particolare il “sygyt”, invitandolo più volte a Roma per tenere corsi e seminari. (Molti ricorderanno quello svoltosi al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, che registrò un’affluenza di pubblico e allievi davvero molto elevata). Amiamo fondere queste tecniche tradizionali con la nostra musica, facendole amalgamare con lingue e dialetti che, apparentemente, non avrebbero nulla in comune. È il caso, ad esempio, di “Contrast”, il brano che dà il nome al nostro nuovo album, in cui il canto armonico tuvano e il “konnakol” indiano si uniscono a un testo tradizionale friulano.

Parallelamente, uno dei vostri impegni a carattere sociale è legato al benessere  musicoterapico. In che modo questo percorso si integra con la vostra ricerca sugli strumenti e sulla voce?
Fabio Gagliardi – Suoniamo strumenti musicali come il didgeridoo, il tamburo sciamanico, le campane tibetane e utilizziamo la voce – in particolare con tecniche di canto armonico come il “kargyraa” – che, oltre ad avere suoni potenti ed evocativi, generano una vibrazione molto intensa. Queste vibrazioni permettono alle persone di percepire il suono non solo a livello uditivo, ma anche fisico. Suonarli in modo “meditativo” è un’esperienza di benessere sia per noi sia per chi riceve quello che definiamo un vero e proprio “massaggio sonoro”. Abbiamo avuto esperienze con bambini audiolesi: mentre suonavamo questi strumenti a contatto con i loro corpi, spalancavano gli occhi, stupefatti ed entusiasti di riuscire a percepire il suono e il ritmo attraverso le vibrazioni. Lavoriamo anche con bambini e ragazzi con disturbi dello spettro autistico, che grazie a questi trattamenti sonori riescono a calmarsi e ad entrare in contatto con le proprie emozioni. Ogni volta che realizziamo un trattamento di massaggio sonoro – anche rivolto a persone che desiderano semplicemente vivere un’esperienza di rilassamento e benessere – riceviamo feedback sempre diversi, perché ciascuno vive questo momento in modo intimo e personale. È un’esperienza che tocca corde profonde e dà vita a momenti di grande e autentica condivisione.
 
Negli ultimi anni, e con il nuovo lavoro, avete ampliato lo spettro timbrico e la line-up?
Fabio Gagliardi – In questi anni abbiamo avuto diverse collaborazioni importanti, tra cui quella con Alessandro Gwis, dal 2017 al 2022. Successivamente, nell’estate del 2022, abbiamo partecipato al Premio Alberto Cesa con una formazione in quartetto, in cui alla voce e agli strumenti suonati da Martina, e al didgeridoo e alle percussioni suonati da me, si aggiungevano la chitarra, il bouzouki e la batteria. Con questo organico abbiamo vinto il prestigioso premio dedicato alla world music, sul palco del Folkest: per noi è stato un nuovo inizio. Attualmente, la line-up è composta da Martina Lupi (voce, flauti e strumenti dal mondo), io suono didgeridoo e percussioni, Mattia Lotini (chitarra e bouzouki) e Stefano Vestrini (batteria e percussioni). A volte il gruppo si amplia ulteriormente con la collaborazione di musicisti che arricchiscono il nostro spettro sonoro, come è stato durante il concerto a Jazz Image al Parco del Celio, con il contrabbasso di Paolo Camerini e il violino di Michele Gazich e alla Casa del Jazz, in occasione della presentazione del disco “Contrast”, sempre con Michele Gazich al violino e Marco Siniscalco al basso elettrico. 
  
Perché avete “Contrast” come titolo emblematico dell’album? 
Martina Lupi – “Contrast!” è una canzone in lingua friulana, una lingua intensa ed estremamente musicale, con la quale ho avvertito da subito una forte familiarità. Nel 2022 ci è stato proposto di riarrangiare un brano tradizionale friulano per partecipare al Premio Alberto Cesa. Abbiamo scelto proprio “Contrast”, e con quel brano abbiamo vinto il primo premio. È stato un riconoscimento fondamentale, perché ha segnato simbolicamente la nascita della nostra nuova formazione in quartetto, con Mattia Lotini e Stefano Vestrini. Il brano ha un significato allegorico e potente: racconta del Carnevale, inteso come momento di massima spensieratezza e leggerezza, che respinge la morte. È la pulsione di vita che si oppone alla fine, due concetti contraddittori che da sempre contraddistinguono l’esistenza umana. La vita che vince sulla morte. Simbolicamente, “Contrast” è per noi un inno alla vita, all’amore, all’allegria,
all’unione e alla bellezza: un messaggio necessario in questo momento storico, in un mondo segnato da violenza e guerra.

Combinate una pluralità di riferimenti musicali e di atmosfere sonore: qual è il punto di convergenza? C’è un terreno comune?
Fabio Gagliardi – Sicuramente il terreno comune su cui viaggiano le nostre sonorità è l’amore per la ricerca, la curiosità che ci spinge a unire strumenti appartenenti a culture diverse, per poi scoprire che, in tempi, luoghi e contesti lontani, i ritmi, le rappresentazioni coreutico-musicali e i rituali hanno sempre mostrato somiglianze e aspetti comuni. Siamo tutti collegati, e il significato che attribuiamo alla musica risiede nella possibilità di creare ponti, unioni e di diffondere la cultura e le tradizioni, dando vita a forme sempre nuove di linguaggio.

Forma canzone: punto di partenza o punto di arrivo? 
Martina Lupi – Per noi la forma canzone ha rappresentato più che altro un punto di partenza. Il suono del didgeridoo e le ritmiche di Fabio mi hanno ispirato fin dall’inizio a comporre melodie e testi, esprimendo un aspetto cantautorale privo però della parte armonica. Col tempo, l’esigenza di un tessuto armonico è stata la ragione delle preziose collaborazioni che abbiamo avuto, come quella con il pianista Alessandro Gwis, con cui nel 2019 abbiamo registrato l’album “In questo viaggio”. Alla forma canzone abbiamo sempre affiancato anche brani in cui la voce si esprime come strumento, attraverso vocalizzi privi di schemi prestabiliti.

Le ibridazioni sonore non sempre vanno d’accordo con i palinsesti di festival di genere nella “piccola” Italia? Vi ponete problemi di collocabilità? Guardate anche oltre i confini nazionali?
Fabio Gagliardi – Il nostro progetto è un luogo sonoro dove incontrano espressioni, linguaggi, ritmi, tecniche vocali e musiche di culture diverse, spesso geograficamente lontane. Siamo generatori di contaminazioni, amiamo la fusione e la ricerca, che affonda le radici nella musica tradizionale per arrivare a territori sonori nuovi e inesplorati. Non ci lasciamo facilmente classificare o collocare in un genere 
preciso. Ci sentiamo liberi di spaziare anche grazie alle collaborazioni con musicisti che portano le loro suggestioni all’interno del nostro progetto, arricchendolo. Talvolta diventa anche un progetto cantautorale, perché i testi, pur in lingue diverse, contengono sempre aspetti intimi e personali. Questa varietà ci permette di affacciarci a diversi scenari musicali: dalla world music al cantautorato, fino al jazz. Il nostro obiettivo è portare la nostra musica sempre più lontano, non solo attraverso le radio, come sta avvenendo con il nuovo disco, ma anche con le performance live.

Ci sono ascolti che vi hanno accompagnato nella gestazione e realizzazione di questo lavoro?
Martina Lupi – Più che in questo lavoro nello specifico, ci sono ascolti che hanno caratterizzato il nostro background musicale e che inevitabilmente lasciano traccia nel nostro lavoro. Artisti come Huun Huur Tu, De André, Pino Daniele, Esperanza Spalding, Maro, Pedro Aznar, Mercedes Sosa e molti altri ci hanno accompagnato nel tempo. Gli ascoltatori più attenti potranno trovare richiami o riferimenti a queste sonorità.
Fabio Gagliardi – Da sempre ci affascina la contaminazione tra generi e strumenti provenienti da diverse parti del mondo. Un esempio è il disco “Invite” del Trio Chemirani, dove lo zarb di Djamchid Chemirani si sposa con il pianoforte di Omar Sosa o la kora di Ballaké Sissoko. Oppure il progetto Hadouk Trio, con i fiati multietnici di Didier Malherbe che si fondono con le percussioni di Steve Shehan e le corde di Loy Ehrlich.

In “Oua” entrano i fiati di Javier Girotto.
Martina Lupi – Il sax soprano e la quena di Girotto sono gli strumenti che caratterizzano “Oua”, la canzone in lingua genovese scritta da Fabio (una delle due canzoni dell’album non scritte da me), arrangiata con il quartetto al completo. Il testo struggente di Fabio, dedicato a suo padre, è esaltato dalle note di Girotto, che portano con sé l’eredità culturale dell’Argentina e il suo modo unico di fare musica, ampliando e connotando la dimensione espressiva del brano.

Parlando di America latina, “Mi alma” è cantata in spagnolo: di cosa parla?
Martina Lupi – Ho preso ispirazione da una frase della scrittrice statunitense Taylor Jenkins Reid: “Molti pensano che l’intimità riguardi il sesso. Ma l’intimità riguarda la verità”. In un freddo pomeriggio invernale, camminavo suonando le kass kass (strumento africano), riflettendo su quanto sia intimo mostrarsi all’altro senza maschere, sapendo di non essere giudicati. La canzone, dal ritmo incalzante, parla di una condivisione profonda, fondante per me nelle relazioni. L’ho scritta in spagnolo per la musicalità della lingua, adoro giocare con le sonorità che le parole suggeriscono, come se fossero melodie.

Ci raccontate “D’Ali”, in cui suona Michele Gazich? Un brano che ci trasporta verso Levante?
Martina Lupi – “D’Ali” è una canzone scritta da me dopo la perdita di un caro amico giovane. Racconta una storia d’amore che continua a vivere nel sogno, quella dimensione in cui si può continuare a esplorare la realtà. Ho scelto il titolo “D’Ali” dedicandolo alla compagna del mio amico, Dalila, in riferimento al suo nome e al simbolismo delle ali, su cui continua a viaggiare il loro grande amore.
Fabio Gagliardi – Il brano è in italiano con un inserto in turco. Michele Gazich, col suo violino, ha dato al pezzo suggestioni gitane e mediorientali, come un’eco lontana, un riverbero che avvolge il testo con sacralità e mistero. Racconta la vita che va oltre il visibile, percepibile solo nei sogni o nelle rivelazioni.

In “F-rammenti” si avverte un calore mediterraneo ma non solo…
Fabio Gagliardi – È un elogio all’amore che dona libertà: un amore incondizionato che sa donare senza aspettarsi nulla, che può significare anche distacco per vivere la vita pienamente. Parla di un bagaglio di “baci nelle tasche” che aiutano a superare i sentieri più ombrosi e resteranno nei frammenti di ricordi. Sono l’autrice del brano, arrangiato con Alessandro Gwis, che ha dato un movimento straordinario. Sonorità mediterranee convivono con richiami irlandesi (whistle suonato da Martina) e africani (udu 
suonato da me), sottolineando il testo che è un vero inno all’amore incondizionato.

“Nina tu eres” è uno dei brani più intensi con Alessandro Gwis. Cosa racconta?
Fabio Gagliardi – Brano scritto da Martina per nostra figlia Nina, con arrangiamento e brillante interpretazione di Alessandro Gwis. Il pianoforte fonde, a ritmo di chacarera, struttura rigorosa e freschezza del testo sognante in spagnolo. Martina ha scritto il brano guardando un tramonto estivo, descrivendo l’emozione di aver tenuto Nina in grembo, vedere i suoi occhi e ascoltare i suoi sogni ora che è una piccola donna. Un inno alla meraviglia della vita e al legame tra madre e figlia.

“Los Elementos” è un brano sonoramente differente. Che cosa racconta?
Martina Lupi – È il brano più autobiografico dell’album. Gli elementi naturali sono invertiti: l’acqua brucia, il fuoco inonda, l’aria germoglia, la terra spira. Un ritratto di energie potenti “al contrario”, descritto da uno studio simbolico di Lorenzo Ostuni. Un brano spirituale, con didgeridoo che crea una cadenza rituale, tamburo sciamanico e chitarra slide che plasmano un tappeto sonoro su cui la voce libera uno stato autentico e selvaggio, che incarna il testo.

“Como o ar do mar” tra tristezza e danzabilità…
Martina Lupi – Il testo nasce dalla scrittura, descrivendo un cambiamento interiore paragonato all’aria del 
mare, una consapevolezza fugace come una brezza marina che inebria ma non si può trattenere. Un testo malinconico accostato a una ritmica festosa crea un contrasto capace di definire un moto dell’animo.

Quanto è difficile cantare in più lingue in modo credibile?
Martina Lupi – Cantare in lingue e dialetti diversi è una ricerca sonora: ogni lingua ha la sua musicalità. Lingue latine come spagnolo e portoghese sono più affini alla mia espressività, oltre all’italiano. Lo studio del latino ha aiutato nella familiarizzazione con le pronunce. Attraverso i dialetti si possono esprimere emozioni in modo ancora più intimo. Essere credibili è un’attitudine, ma io affronto il canto con un approccio teatrale e musicale: studio con attenzione accenti e sfumature, fonetica e suono, come si fa con la dizione o un brano musicale.

Martina, so che stai lavorando anche a un album da solista…
Martina Lupi – Sto lavorando a un disco cantautorale, in uscita il prossimo autunno, accompagnata al pianoforte da Alessandro Gwis e con produzione artistica di Michele Gazich, che suonerà anche il violino. L’idea è nata dopo essere stata finalista al “Premio Musica d’Autore Bruno Lauzi” e aver vinto il premio miglior arrangiamento per la canzone “La distanza”, esibendomi per la prima volta da sola al pianoforte. Michele Gazich, presente sul palco, mi ha incoraggiata a raccogliere in un disco le mie canzoni più cantautorali.

Esiste un luogo elettivo per apprezzare al meglio il suono di Tupa Ruja?
Fabio Gagliardi – I nostri live alternano suoni sottili e momenti di grande energia, spaziando dal minimale all’avvolgente, dal cantautorale alla musica da ballo. La dimensione live è molto importante, perché la nostra musica vive e si trasforma nell’interazione con il pubblico. La varietà del nostro repertorio permette di adattarsi a diversi contesti, dal club al teatro, dal festival world a quello jazz, dove la ricerca sonora viene particolarmente apprezzata. Il luogo ideale è quindi un posto dove si possa ascoltare con attenzione e con la voglia di lasciarsi trasportare da suggestioni diverse e profonde.

Dal disco al live che succede? 
Fabio Gagliardi – Il live è indubbiamente la nostra dimensione ideale, il momento in cui riusciamo a dar vita alle nostre emozioni attraverso la musica, creando uno scambio energetico fondamentale, con il pubblico. Un aspetto che spesso è stato riscontrato dagli uditori dei nostri concerti, è la sintonia, non solo musicale, tra tutti i musicisti presenti sul palco. È infatti per noi imprescindibile, ancora prima dell’aspetto artistico, il lato umano e le sinergie che si creano sul palco. I sorrisi, gli sguardi d’intesa e un senso di positività, non mancano mai ed il pubblico percepisce un’armonia che l’accompagna per l’intero concerto. Fondamentale è poi che il pubblico veda gli strumenti che suoniamo. Nel disco inevitabilmente non si riesce a cogliere la totalità degli strumenti utilizzati. Chi non ha mai visto o ascoltato il didgeridoo potrebbe pensare, ascoltando il disco, che sia un suono elettronico, così come ad esempio il canto armonico, o le kass kass che potrebbero somigliare a dei semplici shaker, ma che invece si suonano con una tecnica simile a quella della giocoleria circense, che solo dal vivo si può apprezzare. 
  

Tupa Ruja – Contrast (Filibusta Records, 2025)
“Siamo generatori di contaminazioni, di sonorità e generi […] per giungere laddove la sperimentazione crea nuove forme e territori sonori ancora diversi e inesplorati”
, dichiarano nell’intervista Martina Lupi e Fabio Gagliardi. Libertà di navigare senza bussola, dove portano suggestioni, riflessioni e intuizioni; il guardarsi dentro e il raccogliere le passioni e le ricerche sulle comunanze tra le musiche tradizionali, le esperienze di vita e quanto ci accade intorno. “Contrasto e coerenza”, una scrittura da cui sgorgano, con naturalezza e raffinatezza, una pluralità di timbri, di espressività, di codici sonori e di configurazioni: tra cantautorato plurilingue, stilemi world e improvvisativi, uso di diverse tecniche vocali e strumentali che favoriscono il superamento di steccati musicali e la creazione di ponti sonori – temi molto in voga nelle dichiarazioni di tanti artisti, ma non sempre veramente realizzati, come accade invece nella “fusion” realizzata da “Contrast”. Che è anche la title track posta in apertura di questo album: un testo tradizionale friulano, una villotta che mette in scena un dialogo tra Carnevale e Quaresima, simbolizzando la lotta tra piacere e penitenza, gioia e sobrietà (qui ricordiamo la versione de La Sedon Salvadie in “Salustri”), riletto dai Tupa Ruja con innesti di canto armonico tuvano e di konnakol indostano. Atmosfere rarefatte nell’intima ballad in inglese “My perfect breath”, in cui l’amabilità vocale di Martina si appoggia alle corde della chitarra acustica prima che lo sviluppo del motivo dia spazio al pieno assetto strumentale. Il sax soprano e la quena di Girotto entrano ad ampliare lo spettro timbrico ed espressivo di “Oua”, brano dalla fisionomia cangiante, molto personale, scritto in genovese – sua lingua madre – da Fabio Gagliardi. Cambia il registro con le movenze danzanti di “Mi alma”, accorata song che ci conduce in territori sonori latino-americani. Il violino di Michele Gazich è protagonista di “D’ali”, un altro pezzo forte del lavoro, cantato in italiano e in turco, che ci trasporta verso il Levante mediterraneo. Nell’amore cantato in “F-rammenti”, arrangiato insieme ad Alessandro Gwis, convivono elementi mediterranei e irlandesi. Delicatezza e profondità nella splendida “Nina tu eres” (con il piano di Gwis), in cui si esalta la duttilità canora di Lupi, costruita su ritmo di chacarera. Il basso di Siniscalco avvolge il canto di Martina in “La distanza”, fino alla conclusiva manifestazione del sax di Girotto. L’impronta rituale, quasi ambient (didgeridoo, tamburo sciamanico, percussioni ed effetti), permea “Los elementos”. Infine, si disvela “Como o ar do mar”, cantata in portoghese, in cui l’aria del mare diventa immagine del cambiamento personale, in un contrasto tra la liricità perfino malinconica del testo e il movimento festivo della musica.
Un album che raccoglie sensazioni autobiografiche ed esistenziali, raccogliendole in una pluralità di espressioni sonore, un raffinato e appassionato percorso di ricerca e di vita artistica.


Ciro De Rosa

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