Don Cherry: La comunione completa di un’anima meticcia

Ogni anno fortunatamente qualche uscita discografica riemerge da cassetti, scatoloni o altri fondali misteriosi a ricordarci di Don Cherry. Dopo i recenti brani inediti dal concerto al Yubin Chokin Hall di Tokyo datati 14.05.1986 con Masahiko Togashi, Steve Lacy e Dave Holland e dopo “Universal Silence” con Carlos Ward e Dollar Brand anche nel 2020 la consuetudine si rinnova. Dal nord Europa emergono la pubblicazione della seduta del 1965 programmata dalla radio nazionale danese della “Cherry Jam” e l’esibizione al Jazzclub Fasching di Stoccolma del 20 novembre 1991, in qualità di ospite dello storico quartetto svedese Rena Rama. Dulcis in fondo, ecco l’audio di una trasmissione effettuata negli studi della RAI a cura di Franco Fayenz, durante il 1976, trasmessa a suo tempo dalla TV nazionale e in seguito visibile come bootleg prima in VHS e poi in DVD. Finalmente quest’anno diventa un disco ufficiale in verde, dal titolo “Om Shanti Om” pubblicato dall’italiana Black Sweat Records. A Roma Cherry si esibì quel giorno con il suo Organic Music Theatre, che per l’occasione era un quartetto composto dalla moglie lappone “Moki” Karlsson alla tampura, dal percussionista brasiliano Nana Vasconcelos al berimbau, tabla e altro e dall’italiano Gian Piero Pramaggiore alla chitarra acustica e al flauto. La stanza venne addobbata, com’era loro consuetudine, con i coloratissimi arazzi di stoffa ad opera di Moki, a far da sfondo al concerto. La visione in bianco e nero delle riprese televisive purtroppo non renderà onore alla scenografia, su uno di loro campeggiava “Om Mani Padme Hum”, mantra tra i più popolari del buddismo tibetano e si trattava proprio di quello riprodotto sulla copertina di “Brown Rice”. All’inizio Cherry indossava un abito pittoresco sulle cui spalle si leggeva un altro mantra, “Om Shanti Shanti Shanti Om” e con questa invocazione iniziò l’esibizione. Verso il termine della quale faranno la loro apparizione sulla scena anche Neneh ai sonagli e al coro e Eagle-Eye che canticchiava a sua volta, percuotendo uno degli strumenti di Nana. All’epoca avevano rispettivamente dodici e sette anni. 
Infine padre e figli concluderanno l’incontro ballando tutti insieme a voler perpetuare l’antico anelito delle avanguardie al superamento di tutto ciò che separa l’arte dalla vita. Esemplificazione questa della “Completa Comunione” di Don Cherry che riflette perfettamente il significato contenuto nella Septuaginta. (1) Verso la fine degli anni Sessanta Cherry era uscito da un ambito esclusivamente jazzistico e aveva iniziato a sviluppare il suo personale nomadismo estetico e culturale a favore di un radicale, visionario, sognante neofolclore. Un suono universalistico e multiculturale che poeticamente e imperiosamente, di parecchio anticiperà il fenomeno globale della world music esploso dei futuri decenni. Con buona pace di tutti quelli a cui, diversi anni dopo in nome di qualche milione di dischi prodotti o venduti, ne venne attribuita la paternità: i vari Peter Gabriel, Yussoun ‘Dour, Cheb Chaled e compagnia bella. Ma Don Cherry non si preoccupò mai un attimo di questi dettagli perché gli amori impossibili finiscono dritti nell’immortalità attraverso i secoli. Il suo mondo si era riempito di ritmi eterni, suites della relatività, utopie e visioni, notti di bamboo, viaggi di Milarepa e Galdalf, elefantasie, scoperte di Bhupala. Il suono era ardente, intimo ed invitante in quei giorni a cavallo tra i due decenni, quando la musica faceva parte dei piani per il futuro. Riascoltare Don Cherry oggi è sentire gli echi di un futuro che non è mai venuto, non perduto, ma difficile da tracciare. Perché chi sposa il proprio tempo nella stanza dei sogni multicolorati rischia di restare presto vedovo ma la sorte garantisce sempre agli amori impossibili di attraversare i secoli. La spiritualità nella sua musica non scaturiva necessariamente dalla pace e dalla serenità, anche dal tumulto o dallo scompiglio, anche l’altalena tra rumore e gioia, tra bellezza e caos costituisce una reale world music. Prima di Cherry, la musicologia erano per me luoghi ameni, trascrizioni misteriose, archeologia etnica. Ci volle un mezzo nativo afroamericano, nato ovunque o da qualche parte, ci volle la gioiosa, infantile energia della sua trombetta tascabile per soffiare via la polvere. A quel tempo esistevano ancora i generi e i confini musicali. Multietnici potevano essere i gesti, i rumori, gli odori di mercato di una strada di Ankara, non le sonorità di una immaginaria “Terra di Codona”. Don proveniva da una madre di discendenza Choctaw (2) da parte di nonna materna, entrambe suonavano il pianoforte, a suo padre invece piaceva la tromba. Lui era stato l’esatto contraltare al suono drammatico e gotico del chiaroscuro, lirico sassofono di plastica di Ornette, nella musica di quel quartetto che era IL QUARTETTO. 
Quella musica armolodica assomigliava alla "terra ritrovata", in cui le leggi e le abitudini dell'armonia funzionale improvvisamente erano diventate carta straccia e non si applicavano più. Una melodia che permetteva di rivelare così differenti regni e differenti livelli di creatività. La sua cornetta era del 1870, uno strumento che fu utilizzato nelle guerre di Secessione, in si bemolle, costruito in ottone con il tubo avvolto in una bobina molto più piccola di quelle standard e con una campana di diametro inferiore. Non è utilizzato nelle bande da concerto e tanto meno nelle orchestre. È stata solo raramente utilizzata da solisti jazz, talvolta la si ritrova come strumento ausiliario di qualche musicista dixieland. Il divo Miles Davis che allora era il dio-jazz in terra, disprezzava quel suono e non considerava un vero musicista quel suonatore con le sue imperfezioni e così molta della critica musicale colta anche qui in Italia lo snobbava o addirittura lo ridicolizzava. Ma già allora Don Cherry non era più da considerarsi un jazzista, piuttosto uno che aveva fatto della ricerca delle radici e della pratica musicale, i veicoli di conoscenza del mondo. Indubbiamente in anticipo sui tempi ma senza alcuna supponenza perché lui sorrideva sempre e si stupiva candidamente di ogni cosa. In verità, ho sempre pensato che la sua fiamma guizzante lo rendesse più vicino all’essere un successore di Paul Gauguin o del filosofo e scrittore americano Henry David Thoreau. Un folletto capace di volare o di rendersi invisibile, un carismatico aggregatore di tutti gli spiriti curiosi e inquieti provenienti da ogni dove che capitavano dalle sue parti. Per lui la rivoluzione contro le istituzioni borghesi della sua epoca era stata dapprima quella inventata da Ornette e poi l’improvvisazione percorsa a piedi nudi tra le braci, in compagnia del vivido sax tenore di Leandro “Gato” Barbieri. Insieme possedevano una globalità di visone sonora che li portava nell’arco di una stessa composizione ad incorporare con furore una miriade di citazioni, inserti, spunti e frammenti da cogliere al volo. In questo modo, come scrisse il poeta del free-jazz Leroi Jones (Amiri Imamu Baraka), “era il suono che determinava dove andasse il pezzo”. Nelle rete frenetica e scoppiettante di quelle note, gli assoli appena arrivavano ad una certa intensità, si arrestano improvvisamente per incanalare l’energia in un’altra configurazione sonora. 
L’estetica era quella del free ma solo per la libertà espressiva, in quanto germogli di musica etnica affioravano continuamente, anche se per un attimo e solo superficialmente abbozzati. Ma per Don Cherry, i tempi stavano maturando in fretta. Appena dietro l’angolo stava per iniziare una storia straordinaria che si sta ancora sviluppando un po’ ovunque, sessanta anni più tardi. Dopo il jazz, Cherry sembrava essere arrivato alle porte di quest’altro regno da una scalinata molto antica che iniziava a Stoccolma dalla metà degli anni Sessanta e reinventava tutta una tradizione globale. Come un architetto immaginario che costruisca un quartiere tra le nuvole partendo dalle strade delle terre d’Africa, che portavano ai villaggi montuosi di Tangeri e Marrakech per arrivare in India al suono della musica classica Hindustana del sitar di Pandit Ravi Shankar e delle tabla di Chatur Lal. Un vasto movimento nacque in Svezia dove confluirono musicisti turchi come Okay Temiz o Maffy Falay. A loro si unirono quelli locali come Bernt Rosengren, Lennart Åberg o Christer Bothén, che fece conoscere a Don, il dossou n’gouni, uno strumento a corde delle confraternite dei cacciatori in Mali e Guinea dal quale non si separerà mai più. Altri arrivarono, tra cui i sudafricani Mongesi Feza e Johnny “Mbizo” Dyani, a creare un esotismo da sogno che oggi è diventato storia. Cherry ripudiò il professionismo seguendo solo vibrazioni e meditazioni, iniziò a vivere in una comune ricavata nella vecchia scuola di Tågarp, un’area boschiva nel sud della Svezia nella quale all’epoca il ministro della cultura era un illuminato Olof Palme. In quel momento il jazz era ovunque nel paese, non solo nei club come il Golden Circle, ma anche i parchi o il Museo di Arte Moderna di Stoccolma erano invasi da estese forme di improvvisazioni collettive e prese di coscienza. 
In quella confraternita musicale l’inconfondibile tromba tascabile di Don serpeggiava e disegnava ombre nate nei deserti africani, in mezzo al gelido buio invernale nord-europeo, abbatteva barriere in un matrimonio culturale senza scrupoli. Un paesaggio di suoni fossili occidentali sposava atmosfere asiatiche, subito dopo voci africane eterne dialogavano esplorando un territorio indigeno latino. Il suono era alla ricerca di una mitologia immaginaria, di una tradizione fantascientifica, alle frontiere dei linguaggi, cesellato e scagliato in un folle viaggio iniziatico. A disegnare con la fusione dei suoi ritmi organici, nuove relazioni tra culture ed etnie, la dimensione universale e ritualistica di questa musica era intesa come una forza primitiva d’unione. Cherry è stato capace di “varcare il punto estremo e spostare l’orizzonte” come cantava la disperata voce di Volodja Vysotskij in quegli anni. Un altro musicista fondamentale nel racconto di quell’epoca fu il percussionista Bengt “Beche” Berger che soggiornò a lungo in Africa e fece conoscere a Don le melodie del popolo Ewe, una etnia che vive nella parte occidentale del Continente (Ghana sudorientale, Togo meridionale, Benin sud-occidentale). Un popolo che ha una vasta e riconosciuta cultura musicale, nell’utilizzo delle percussioni in particolare. Gente che crede un bravo percussionista sia tale perché anche i suoi spiriti ancestrali lo furono. La loro lingua è tonale, ovvero è la variazione di tono di una sillaba che ne determina il significato. E le loro poetiche storielle portano sempre una forte connotazione di insegnamento, così dietro il perché le lepri scappino sempre, le scimmie vivano sugli alberi o le iene ed i gatti non si guardino mai in faccia, c’è una profonda morale. Nella “Musica Organica” di Don Cherry tutto diventava atto di devozione, un'estatica dimora nella dimensione di un sacro rallegrarsi comune. Perché “el corazón” è ancora il più alto punto di vista sulla terra. E la natura stessa non era intesa solo come strumento per raggiungere conoscenze ideali ma anche fonte di benessere, semplice soluzione esistenziale alla portata di chiunque. Un credo fondato sulla spiritualità di una cerimonia intima e sulla universalità dell’amore, all’interno di in una più ampia coscienza pan-tribale. Fondamenta queste tipiche delle comunità hippie all’epoca della contro-cultura. Lui viveva come un giullare di corte dentro un’opera di Shakespeare, camminava nelle radure fuori dai sentieri segnati, al suono di gong tibetani e alla ricerca di una imprevedibile sinfonia per improvvisatori. 
Probabilmente non molto distante da Daevid Allen. Si dice che l'artista sonoro sia il più vicino ai segreti del Divino, al ronzio universale perfetto. Il saggio sufi Hazrat Inayat Khan si chiedeva il perché la musica fosse chiamata “arte divina”, a differenza di tutte le altre. In quanto certamente si può vedere Dio in tutte le arti e forse anche in tutte le scienze però solo nella musica lo vediamo liberato da qualsiasi forma o pensiero. In ogni altra arte esiste idolatria. Solo il suono è libero dalla forma. Le immagini, le parole di ogni riga poetica disegnano una qualche immagine, il suono no, non fa apparire nessun oggetto davanti ai nostri occhi. All’interno del “ronzio dell’universo” Don Cherry ha ricercato, con l’intera sua opera musicale, la quintessenza dell'espressione del culto, la nota perfetta, il "per sempre" che nasce nell’anima dove corpo e spirito coesistono. E lo ha fatto in se stesso e ad ali spiegate, senza limiti o confini, tanto meno geografici, perché per cantare Dio non si può andare a volo radente. Ma “contro il sole velato” proprio come le cinque anatre della canzone di Francesco Guccini, costi quel che costi. La sua base musicale ha rappresentato il rumore di fondo della sua esistenza, il caos da cui sorge il ritmo, quello per cui esistono tutte le forme artistiche. E anche quello che sanno fare meglio: costruire ponti fra le persone. Don Cherry è stato l’eterno fanciullo che vive negli incanti dell’attimo, nel “carpe diem” di Orazio. Ingenuo, appassionato, lirico, puro, incendiato da un’ansia di assoluto in un universo incandescente. Ha disegnato mosaici inediti di note senza generi musicali, proprio come le Muse decoravano le grotte e le fontane che adornavano i giardini dell’antichità. Ha saputo mettere in pratica anche con una semplice melodica tra le labbra, le parole di Ludwig van Beethoven: "Non limitarti a praticare la tua arte, ma falla entrare nei suoi segreti, la conoscenza può elevare gli uomini al Divino” e nel suo mondo non c’era alcuna differenza tra Thelonious Molk e Terry Riley, Ornette Coleman e Dollar Brand, Rolando Alphonso e Thomas Mapfumo. Ricordo Don a notte fonda il 21 giugno 1990, giorno del solstizio d’estate, in una stanza qui a Verona, suonare il pianoforte per quattro gatti mezzi addormentati...l’articolo è dedicato a tutta la sua grande famiglia: Moki, Carletta, Neneh, Mabel, David Ornette, Christian, Eagle-Eye, Jan Elisia….


Flavio Poltronieri
flavio.poltronieri@libero.it

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(1) La Septuaginta è la prima traduzione greca dell’Antico Testamento dall’originale ebraico e incarna sia la relazione spirituale con la divinità che la mutua fiducia tra amici nelle relazioni comunitarie o societarie. Il nome deriva dal latino “septuaginta”, che significa “settanta” poiché la leggenda racconta che settanta furono i traduttori. Fu presumibilmente realizzata per la comunità ebraica in Egitto al tempo che il greco era la lingua comune in tutta la regione.
(2) I Choctaw sono un popolo nativo americano che originariamente occupava i territori degli attuali stati di Alabama, Florida, Mississipi e Louisiana. Il nome deriva dalla frase “Choctaw Hacha hatak” (popolo del fiume). Anche se non entrarono mai in guerra contro gli Stati Uniti furono forzatamente trasferiti nel 1831/1833 e le loro terre d’origine usurpate.

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