
Ernesto Bassignano - Ho scritto alcune canzoni e il libro “Canzoni pennelli bandiere supplì” proprio per capire da dove vengo e chi sono. Perché io sono nato a Roma, anche se tutti credono che io sia piemontese. Mio papà lavorava all’Ospedale Forlanini, ma quando avevo sette anni gli hanno lasciato una farmacia a Cuneo. Che poteva fare? L’ha presa giustamente! All’epoca facevo le scuole elementari a Villa Paganini e un giorno mi dissero: “andiamo a Cuneo”. E io: “Cos’è Cuneo?” e così mi hanno portato là con le braghe corte estive e ho trovato un metro e mezzo di neve! Ho cominciato la mia vita al nord con le calosce! Insomma, devo ancora capire se sono un romano di Cuneo o un cuneese romanizzato!
In effetti un giorno sei tornato a Roma e hai fatto tante cose. Fino a quando sei approdato al Folkstudio e sei diventato uno dei famosi quattro ragazzi…
Ernesto Bassignano - Con la chitarra e un pianoforte sulla spalla!
Ma quello col pianoforte sulla spalla non eri tu!
Ernesto Bassignano - No. Quello era Antonello Venditti e se un giorno vieni a casa mia ti faccio sentire una cassettina che mi regalò Giorgio Lo Cascio; lui era uno dei quattro e purtroppo è mancato. Ecco, in quella cassetta c’è la registrazione di una delle nostre prime uscite insieme: Francesco De Gregori, Antonello, Giorgio ed io. Eravamo a Napoli, al Teatro Instabile; Giorgio mise un geloso e registrò tutto. Si sentono tutti gli improperi di Antonello perché come al solito, pure se ce lo promettevano, non trovammo il pianoforte.
Ernesto Bassignano - E sì! anche in un teatro importante come quello non c’era il piano; allora lo accompagnavamo noi ma sbagliavamo e allora lui minacciava di andarsene e noi lo convincevamo a restare! L’ha davvero patita questa cosa del pianoforte!
Come sei arrivato al Folkstudio?
Ernesto Bassignano - Un jazzista mi disse una sera: “Tu fai canzoni di lotta ma anche d’Autore, perché non vai al Folkstudio?” ma io non ne sapevo niente; all’epoca stavo sempre a casa del mio amico Gian Maria Volontè, facevo altre cose. Però mi convinsi e andai da Giancarlo Cesaroni, che dopo avermi sentito mi aggiunse subito alla Banda dei Quattro. Prendevamo 3000 lire a sera per tre canzoni a testa. All’ epoca il Cantautore era quello che scriveva tutti i giorni sulle cose e per le cose che vedeva. Era una specie di cronista. Ora il cantautore mi sembra faccia altro, ma ce ne sono ancora di bravi. Guccini e Fossati hanno smesso purtroppo e Gianmaria Testa non c’è più. Ma qualcuno in gamba c’è: Roberto Kunstler, Federico Sirianni, Carlo Valente, Luigi Mariano. Però in linea generale mi pare siamo rimasti un po’ senza. Io resisto. E mi sembra però di essere migliorato. Di certo sono migliorato dal “Grande Bax” al “Mestiere di vivere”. A prossimo vado all’Olympia!
“Il Mestiere di vivere” vede la direzione artistica e gli arrangiamenti di giovani musicisti straordinari, che ti hanno portato una band con altri musicisti fortissimi. Loro sono Edoardo Petretti e Stefano Ciuffi. Sei consapevole di quanto il loro apporto abbia esaltato la tua natura di Cantautore Doc?

Sentiamo anche loro. Edoardo, Stefano, come avete conosciuto Bassignano?
Edoardo Petretti - Ci siamo conosciuti al Teatro Arciliuto circa cinque anni fa perché io partecipavo a una serata con Simone Avincola. Ci siamo voluti bene quasi da subito. E sono stato nella band che ha presentato l’album “Vita che torni”. Dopo quell’esperienza abbiamo pensato di fare delle cose insieme e mettere su un repertorio di brani nuovi; io già da un po’ lavoravo con Stefano Ciuffi e così l’ho coinvolto. L’idea era riportare un po’ Bax “dalle sue parti”, di fargli recuperare la dimensione acustica, dopo dischi come “Al di là del mare” - che era un album orchestrale - e “Vita che torni” che è decisamente pop. Abbiamo pensato che Ernesto invece ha bisogno di un suono più asciutto e abbiamo però cercato di fare in modo che non suonasse “vecchio”; mi pare che ci siamo riusciti. Ci sono tutta una serie di accorgimenti armonici che rimandano anche alle soluzioni dell’ultima scuola romana – alla Fabi per intenderci – e quindi siamo andati da una scuola romana all’altra.
Stefano Ciuffi - Abbiamo registrato l’ossatura del disco quasi tutta dal vivo e per esaltare la musica di Bax abbiamo fatto una scelta controcorrente: abbiamo infatti ricalcato le modalità di una volta,

Bax, vorrei chiacchierare un po’ con te di alcune canzoni dell’album che mi paiono particolarmente rappresentative. Partiamo da “Quella notte che”
Ernesto Bassignano - È un brano dedicato ai terremotati ed è molto “ciuffesco”, perché - a parte un pizzico di Petretti al piano - è l’unico “voce e chitarra” del disco. Avevo letto un articolo che raccontava di una signora delle Marche, una signora che ricamava, scomparsa nel terremoto del 24 agosto. In questa canzone immagino un paese tutto nuovo, un luogo dove camminare dopo dieci anni tutti insieme.
Una speranza in questo mondo dove bisogna imparare “il mestiere di vivere” insomma.
Ernesto Bassignano - Il mestiere di vivere è difficilissimo, ma siccome oggi succede di tutto ed è tutto nuovo, siccome sembra non ci sia fine al peggio e tutto appare spaventoso, magari ha ragione De André a dire che dal letame nascono i fiori…: il mestiere di vivere è imparare a resistere. Anche i terremotati appunto resistono.
E anche “Amiamoci di più”, con cui apri il disco, è un modo per fare resistenza. Forse probabilmente l’unico che funzioni.

La tua storia personale testimonia il fatto che per te l’impegno civile è stato quasi più importante della musica, in fondo.
Ernesto Bassignano - Da un certo punto di vista sì, o meglio: è stato un tutt’uno. Nel 1972 sono entrato nella direzione del Pci, alle Botteghe Oscure, a Stampa e Propaganda. Al Folkstudio dicevo di essere un “Operatore Culturale Organico Gramsciano”. La mia attività per il Partito era compensata con 80 feste dell’Unità, dove andavo a suonare. Una vita bellissima che mi faceva girare e conoscere il Paese da Trapani al Trentino. Ma da un altro punto di vista è stata anche la fine per la mia carriera da Cantautore. Andava di moda “Contessa” di Pietrangeli e Pajetta mi costrinse a scrivere una canzone sdraiata sulla linea del Partito. E così scrissi “Veniamo di lontano e andiamo lontano, Compagno Gramsci non sei morto invano” (la canticchia); fu un successo enorme in tutta Italia ma fu anche la mia “morte”; Gino Castaldo scrisse su Muzak che ero un servo di partito; cominciarono a prendermi in giro tutti perché ero troppo PCI e gli altri invece erano gruppettari: andavano molto più forti perché il gruppettaro era un anarchico che faceva come quello che voleva. Insomma, sono rimasto un po’ ingrippato dentro le Botteghe Oscure. Umanamente è stata un’esperienza straordinaria che solo per raccontarla servirebbe un libro. Ma dal punto di vista della Professione Cantautore mi ha rovinato.
Ernesto Bassignano - Ah no! Anzi: per il resto devo tutto a quegli anni lì.
Torniamo però a oggi: nel disco ti sei occupato anche dell’essere giovane in un momento storico come questo; c’è una canzone molto ispirata che si chiama “Gli occhi di mio figlio”.
Ernesto Bassignano - Sì, è una canzone molto ispirata e personale. Solo a parlarne mi commuovo. È dedicata a mio figlio ma anche a tutti questi ragazzi di oggi, sul muretto con la birra in mano a chiedersi cosa faranno da grandi. Io sono vecchio e questa è la mia sfortuna oggi; ma la mia fortuna ieri è stata la possibilità che ho avuto di cambiare almeno cinque mestieri. Sono stato grafico, scenografo, attore, regista, pittore, cantautore, giornalista. Ho sempre guadagnato.
Sei stato anche brillante conduttore radiofonico!
Ernesto Bassignano - Sì, ho fatto moltissimo la radio… ma quando sono arrivato a Roma da Cuneo vendevo disegni di donne nude a Piazza Navona! Dipingevo anche i paesaggi di Roma ma non importava a nessuno: funzionavano le donne nude che vendevo a 5 mila lire. Le facevo con l’aerografo. E comunque ho fatto anche le copertine di Topolino: ero un bravo grafico!
E tu pensi che oggi i ragazzi non abbiano possibilità?
Ernesto Bassignano - E cosa possono fare? Ci sono ragazzi straordinari e in gambissima, però la maggior parte di loro non ha lavoro; qui a Roma di certo. Magari trovano lavoro a Mantova o a Laigueglia. Ma a Roma no. Stanno tutti lì a far caciara al Pigneto e quando trovano da fare è tanto se guadagnano 700 o 800 euro.
A proposito di pazzia, volevo chiederti del brano che non canti tu, “Il giullare verticale”.
Ernesto Bassignano - Eh sì, grande sorpresa; onestamente non so dire come sia nata questa poesia; in realtà credo che questo sia un album più bello del solito perché ho vissuto un po’ di mesi come da fumato - e io non fumo - e sono usciti questi brani uno dietro l’altro. A un certo punto mi sono trovato in mano questa che è proprio una poesia che ho chiamato “Il giullare verticale”, non so perché. Chissà. Forse pensavo a uno come me che è un giullare, ma sta anche bello dritto con la schiena! Inizialmente dovevo recitarla io, ma poi ho pensato a David Riondino, un grande. Siamo amici dai tempi di Paese Sera. Io lo ritengo uno degli uomini più intelligenti e colti che abbiamo. Pensa che l’ho conosciuto insieme a Paolo Hendel: erano una coppia e si esibivano nei circoli Arci nei dintorni di Firenze. Vennero al Folkstudio e la scena era questa: Riondino seduto con la chitarra e Hendel in piedi con una calotta e due orecchie di acciaio: era una parodia di “Blade Runner”, il famoso “Ho visto cose che voi umani”. Hendel faceva il replicante e Riondino cantava delle canzoni pazzesche. Insomma ci vogliamo bene e la poesia l’ha recitata lui… e in questo caso la musica è tutta di Ciuffi e Petretti, che ne hanno fatto un’opera d’arte.
Stefano Ciuffi - Bax ci ha portato questo testo, che ci ha sorpreso, perché la modalità di scrittura di Ernesto è di solito molto diversa. Qui invece si tratta di tutta un’altra cosa. È un testo surreale… insomma con Edoardo ci siamo chiusi in casa un paio di giorni, nemmeno fossimo conviventi, e alla fine siamo molto contenti del risultato.

Ernesto Bassignano - Chissà che vi siete presi! Dentro ci sta Kurt Weill, Fiorenzo Carpi, ci sta tutta la musica scapigliata degli anni 30, 40 e 50.
Stefano Ciuffi - Ma sì. Abbiamo fatto riferimento a un mondo particolare. Ci sono interventi di free jazz, alcune cose ricordano indubbiamente Kurt Weill; un’altra ispirazione è di sicuro arrivata da Nino Rota, che è uno dei miei compositori preferiti. Insomma. Ci sono varie influenze dentro.
Ernesto Bassignano - E poi il bello è che David è talmente folle che ha trasformato quel “tocca vivere cantare recitare” - che io intendevo nel senso di “bisogna” - in un uno “Tocca” nel senso “tattile” del termine.
E ora parliamo di “La vita l’è quela che l’è”, canzone dedicata al Derby, alla Milano delle Latterie.
Ernesto Bassignano - Sì, la storia milanese… Papà è Bassignano di Cuneo e mamma è di Milano, con parenti Carpi, una famiglia di grandi. Uno è stato scrittore per ragazzi: Pirin Carpi; l’altro è Fiorenzo Carpi, quello che ha scritto quaranta anni di musica per Dario Fo; e così quando ero a Milano grazie a lui ho conosciuto Andreasi, Cochi e Renato – anzi, Cochi è rimasto amico mio qui a Roma per anni, insieme al caro Duilio Del Prete con cui recitava – e sì, ho deciso di dedicare una canzone a quella Milano, a quella vita.
Ernesto Bassignano - Negli anni Cinquanta Mario Pogliotti ha scritto “Un paese vuol dire non essere soli” in ricordo di Cesare Pavese e de “La luna e i falò”; io invece ne ho fatto un altro motivo, un altro testo, per dire dell’Italia di oggi.
A me interessa l’associazione tra Cesare Pavese e quello che vivi ora.
Ernesto Bassignano - “Il paese vuol dire non essere soli, vuol dire tornare e volere di più” mi è sembrata una frase eccezionale e io spero che così facciano migliaia di ragazzi che sono andati a fare i camerieri a Londra: che tornino e aderiscano alla resistenza.
Ernesto Bassignano – Il Mestiere di Vivere (Helikonia, 2019)

Elisabetta Malantrucco