Vardan Hovanissian & Emre Gültekin – Karin (Muziekpublique, 2018)

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Ci sono collaborazioni il cui profondo significato travalica la semplice motivazione musicale: è il caso del sodalizio tra Vardan Hovanissian (duduk), dotato fiatista armeno di Yerevan da più di vent’anni in Belgio, e di Emre Gültekin (voce, bağlama, kopuz, cura, şelpe, divan), strumentista raffinato e voce profonda, di famiglia turca ma nato a La Louvière in Vallonia. Il duo si era già imposto all’attenzione con “Adana” (2015); ora è la volta della seconda superba prova, “Karin”, sempre pubblicata dall’organizzazione non profit Muziekpublique, con sede a Bruxelles. Hovanissian ha studiato con il maestro Khatchik Khatchatryan, mentre Gültekin, noto anche per essere nel progetto turco-indiano Baul Meets Saz, è stato iniziato all’arte dei liuti a manico lungo da suo padre Lütfü, ma tra i suoi numi tutelari menziona Talip Özkan, Mustafa Karaçeper, Engin Arslan e altri maestri dell’arte strumentale anatolica. Il titolo del loro secondo album evoca l’antico nome di Erzurum, oggi città della Turchia orientale, luogo di nascita del nonno di Hovanissian, tra le poche centinaia di sopravvissuti alla deportazione di oltre 40.000 armeni nel deserto siriano nel tragico 1915. È il cosmopolitismo dell’antica Karin, uno dei centri commerciali di transito lungo la carovaniera Via della Seta, un tempo parte di un territorio più ampio che comprendeva le odierne Armenia e Georgia, dove convivevano popolazioni diverse, a ispirare le musiche suonate nelle dodici tracce. 
L’esplorazione dei punti di contatto e delle contiguità turco-armene del primo album si espande in questa seconda opera della coppia, abbracciando una più ampia prospettiva, in cui si ascoltano anche temi di origine curda e georgiana. D’altra parte Emre è consapevole del mosaico di culture e lingue che informano la Turchia contemporanea e di quanto sia un’illusione definire la musica in termini di nazionalità. Accanto ai due artisti, che con perizia incrociano corde, oboe popolare armeno e voce, si muove una cerchia di musicisti internazionali di differente estrazione musicale e provenienza culturale: Levent Yildrim (percussioni), Brice Soniano (contrabbasso), il quartetto Ananuri (voci e panduri), Sepideh Raissadat (voce e setār), Marat Jeremian (dhol), Gülçiçek Bakir (voce), Tristan Driessens (oud), Joris Vanvinckenroye (contrabbasso), Raphaël Feye (violoncello), Sanjay Khyapa (dubki), Malabika Brahma e Elian Gültekin (cori). Calamita da subito l’ascoltatore il primo avvolgente brano, che porta l’emblematico titolo di “Houcher” (“Memoria” in armeno), mentre il successivo “Kamancha”, dedicato alla viella ad arco a tre o quattro corde suonata in posizione verticale, diffusa in varie fogge nella regione, è una composizione del bardo di arte canora plurilingue Sayat Nova (XVIII secolo), cantata in armeno da Emre e dall’iraniano Raissadat. 
I passaggi più malinconici ed elegiaci si alternano agli episodi danzanti quali il ballo in circolo a tempo di 9/8 (“Hamchena Par”) o “Tamzara”, danza anatolica condivisa tra armeni, turchi e greci. “Vard Siretsi”, invece, è il racconto di un amore impossibile, eseguito in doppia versione, armena e turca. Di grande intensità è “Qalma Damtskevla”, un canto tradizionale georgiano, eseguito dal quartetto Ananuri, cui si aggiungono il più piccolo liuto della gamma dei saz e il duduk. In “Germir Bağlari” ricorre il topos popolare dell’amore impossibile tra lo “scemo del villaggio” e la figlia del nobile dignitario che si potrà coronare solo allo scioglimento delle nevi perenni del monte Erciyes; è una canzone tradizionale dagli inquietanti risvolti contemporanei, dal momento che il ghiacciaio del rilievo vulcanico nell’ultimo secolo si è ridotto notevolmente e rischia, addirittura, la scomparsa tra meno di settant’anni a causa del riscaldamento globale. Se la splendida title track, dall’andamento bluesy su un tempo in 6/8, e “Trapizoni Par”, anch’essa suonata e ballata sullo stesso ritmo, ci riportano ai tempi di antiche convivenze tra popolazioni, rinnovando la memoria delle ferite del passato ma elogiando al contempo la ricchezza degli incontri interculturali, “Mawda” è una brusca apertura all’attualità, commento ad un’orribile vicenda accaduta nel 2018, quando una piccola bimba curda di soli due anni venne uccisa dalla polizia belga, mentre era con i suoi genitori ed altri rifugiati che cercavano un futuro dignitoso nel Regno Unito. Composta dalla coppia Vardan e Emre, anche “Sivas’ Lament” è la cronaca musicale di un episodio luttuoso del presente, quando nel 1993 in Turchia, durante la celebrazione di Pir Sultan Abdal (figura importante nella cultura alevita), l’hotel Madimak fu dato alle fiamme dai fondamentalisti islamici causando la morte di 37 persone, quasi tutti aleviti. “Medet Erenler”, una poesia di tradizione Alevi e Bektashi, ricca di metafore, scritta da Ozan Kizilgül e musicata da Lütfü Gültekin, è il commiato di questo intenso lavoro che raggiunge punte di elevate qualità, suscitando profonde emozioni e riflessioni. 


Ciro De Rosa

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