(a cura di) Piergabriele Mancuso, Musiche della tradizione ebraica a Venezia. Le registrazioni di Leo Levi (1954-1959), SquiLibri, 2018, pp. 144, Euro 22,00 Libro con CD

Con affettuosa ironia Roberto Leydi definì Leo Levi «l’ultimo emozionante e provocante ebreo errante». Personalità di rilievo della cultura italiana novecentesca, il piemontese Levi (1912 –1982) dedicò la sua vita di studioso a una sistematica quanto ingente documentazione di materiali sonori delle comunità ebraiche italiane (e non solo), avviata dopo l’incontro con Giorgio Nataletti, direttore dell’allora CNSMP-Centro Nazionale Studi Musica Popolare, che in sinergia con la RAI, lo mise in condizione di svolgere la ricerca, utilizzando gli studi di registrazione dell’ente e il suo personale tecnico di elevata professionalità. A partire dalla metà degli anni Cinquanta del ‘900, lo studioso monferrino, mosso in primo luogo dalle istanze dell’antropologia d’urgenza, intendeva fissare forme rituali, canti e musiche che inesorabilmente stavano andando perdute, procedendo con una imponente opera di registrazione. Un secondo motivo di interesse era l’avvertire che il patrimonio, ancora ricco e variegato, di melodie e canti degli ebrei italiani era stato del tutto trascurato dagli studi di musicologia ebraica. Non da ultimo, il salvataggio di materiali delle comunità israelite della Penisola era un imperativo, al fine di favorire un più ambizioso progetto di trascrizione, analisi e confronto. Considerando il rito ebraico-italiano molto antico, Levi si prefiggeva di comparare e incrociare i dati raccolti e investigare le liturgie delle chiese cristiano-orientali, della tradizione bizantina o di quella patriarchina, come a riannodare le fila del tempo, per comprendere le intersezioni tra origini del canto ebraico e di quello cristiano. Incessantemente, dunque, tra il 1954 e il 1959, Levi raccolse a Venezia il repertorio del più antico ghetto ebraico del mondo (1519), concepito dal governo della Serenissima come luogo di integrazione e di residenza coatta per le comunità degli ebrei ashkenaziti e di rito italiano. In seguito, con l’arrivo di sefarditi spagnoli e di levantini del Mediterraneo orientale, il ghetto si mutò in un composito melting pot, dove si incontravano le diverse culture della Diaspora e, a dispetto delle interdizioni della legge, da luogo di marginalizzazione a punto di incontro tra gli ebrei e la maggioranza cristiana. Dopo la monografia curata da Segre, dedicata alle registrazioni di Levi in Piemonte, il progetto editoriale prosegue con questo importante secondo volume della collana aEM, accompagnato da due CD contenenti registrazioni inedite, pubblicato da SquiLibri d’intesa con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e con la collaborazione della comunità ebraica di Venezia. Un ulteriore tassello nella valorizzazione del corpus documentario realizzato da Leo Levi che restituisce alle comunità documenti sonori di assoluto prestigio. Curatore del volume è il musicista e ricercatore Piergabriele Mancuso, direttore del “Eugene Grant Research Program on Jewish History and Culture in Early Modern Europe” al Medici Archive Project. Aperto dalla prefazione di Michele dall’Ongaro (Presidente-Sovrintendente di Santa Cecilia), e dai brevi interventi di Annalisa Bini – direttrice delle attività culturali della Bibliomediateca e Museo dell’Accademia di Santa Cecilia – sulle registrazioni di musica tradizionale liturgica negli Archivi di Santa Cecilia, e di Paolo Gnignati, Presidente della Comunità ebraica di Venezia, , sul ghetto della città lagunare come paradigma della diaspora, si entra nel pieno dello studio con il saggio di Mancuso, il quale ci conduce nel tempo della creazione del ghetto nel suo saggio “La Repubblica Serenissima, il ghetto: vicissitudini storiche e tradizioni musicali dell’ebraismo veneziano”. Lo studioso ricostruisce anche il microcosmo diasporico veneziano in “’Minhag Venezia’. Vita religiosa e tradizioni culturali dell’ebraismo veneziano”. In tal senso, va detto che il termine “minhag”, usato spesso nel suo significato di tradizione liturgica fissa e immodificabile, in realtà serba in sé, nella sua radice etimologica, l’idea di movimento, di relazione dialettica tra passato e presente. Difatti, nella storia culturale della comunità israelita si assiste non solo ad interazioni musicali con gli apporti delle diverse genti ebraiche che nel tempo si insediano nel ghetto, ma si vivono scambi musicali con i cristiani, che sono alla base della differenziazione delle tradizioni ebraiche locali, ed inoltre determinano la creazione di prodotti musicali che di queste confluenze sono il portato: su tutte le composizioni settecentesche di Benedetto Marcello. Tocca, poi, a Donatella Calabi mettere al centro la peculiarità lagunare in “Il ghetto: diverse comunità, più sinagoghe, scambi culturali”. Diversamente da quanto è accaduto in altre città, il ghetto di Venezia è giunto ai giorni nostri conservando in larga parte la sua antica fisionomia. A farci visualizzare il panorama sonoro è Francesco Spagnolo con “Il suono del ‘melting pot’. I canti sinagogali di Venezia e le registrazioni di Leo Levi (1954-1959)”, saggio nel quale, oltre all’analisi storico-musicologica, sono presentati i due protagonisti delle registrazioni “in vitro” – per usare il termine con cui Diego Carpitella definiva le esecuzioni effettuate fuori dall’occasione reale – , il rabbino Bruno Ghereshon Polacco, scampato alla Shoah, registrato da Levi nella sede Rai di Venezia e poi a Ferrara, dove si era trasferito come rabbino della comunità, in relazione ai materiali veneziani, e Guido Heller, discendente di cantori ashkenaziti, registrato a Roma, come interprete di ciò che restava delle tradizioni degli ebrei tedeschi del ghetto veneziano. In un altro saggio (“Le registrazioni del ghetto di Venezia nel contesto dell’opera di Leo Levi”), Walter Brunetto si occupa di ricostruire il contesto operativo in cui Levi agisce, di tematizzare i più vasti filoni di indagine messi in campo dallo studioso piemontese e di problematizzare l’attendibilità etnografica delle sue ricerche, realizzate in una fase storica in cui il tessuto sociale delle comunità era fortemente compromesso. Come sempre nelle proposte dell’editore romano, il repertorio iconografico (20 foto in b/n) arricchisce i contenuti scritti dell’opera. Venendo ai due CD, va detto che sul piano fonico gli interventi di editing sulle tracce originali sono stati ridotti, poiché i canti risultavano già fruibili nonostante il deterioramento del supporto analogico. Mancuso fornisce il dovuto approfondimento, integrando le informazioni fornite da Levi, commenta e trascrive i documenti sonori contenuti nei due CD, tutti di notevole rilevanza sia musicologica che storico-antroplogica: valgano tra tutti la preghiera “Kol Nidre” e il poema liturgico “Shofet kol ha-aretz”, composto nella Spagna medievale e cantato nella tradizione ashkenazita. Il primo disco (un’ora di durata) contiene materiali del rito sefardita, il secondo (28 minuti) di quello ashkenazita già all’epoca della ricerca di Levi il rito sinagogale veneziano era ridotto, per lo più, alla sola componente sefardita, sia ponentina che levantina, mentre il rito ashkenazita oggi è del tutto sparito. “Musiche della tradizione ebraica a Venezia” porta fuori dalla cerchia degli studiosi l’enorme lavoro di documentazione di Levi, sarà una scoperta per tanti e magari sarà anche ispirazione per artisti che si muovono nell’ambito della musicalità ebraica italiana. In ogni caso è un intenso, irrinunciabile viaggio nella memoria della civiltà musicale ebraica d’Italia, parte integrante della storia del nostro Paese. 

Ciro De Rosa

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