L'intimismo cosmopolita di Lula Pena: intervista alla troubadour portoghese

Poco più di un’ora di musica ininterrotta, se non a metà concerto, quando Lula Pena, rivolta al pubblico, quasi si scusa di non aver annunciato all’inizio che il set si sviluppa in un continuum. La cornice è di quelle uniche: siamo nel Duomo di San Michele, a Casertavecchia, borgo medievale di origine longobarda, oggi votato all’intrattenimento di massa, che, tuttavia, conserva scenari unici e tesori architettonici come la chiesa madre che ha ospitato alcuni concerti della consolidata rassegna “Settembre al Borgo” (46esima edizione), quest’anno affidata alla direzione artistica di Enzo Avitabile e del suo entourage manageriale. Da Capossela ad Avion Travel, dal maestro pakistano del sitar Ashraf Sharif Khan al tenore Pino De Vittorio, che spazia dal barocco al popolare, dalle piéce teatrali a Babel Mix, il nuovo progetto dello stesso Avitabile, quello casertano è stato un cartellone variegato in termini di gusto e fasce di pubblico a cui si rivolge. La serata del 7 settembre era iniziata con la combinazione di corde e canto della magnifica coppia Petra Magoni e Ferruccio Spinetti; è stata poi la volta, verso le 23.00, dell’originale artista portoghese. L’incontro dal vivo con Lula Pena, cantante-poetessa, chitarrista e compositrice, è di quelli che catturano lo spettatore per l’intensità performativa, quasi una trance acustica, generata da voce sola e chitarra, strumenti che si compenetrano, per lo stile esecutivo che prevede l’uso di accordature aperte, per la voce inquieta, scura e profonda della quarantaquattrenne artista lisboeta, musicista esistenzialista come si definisce lei stessa. 
Quando ci incontriamo nel pre-concerto, procedendo nell’intervista che oscilla tra l’inglese e l’italiano che Lula parla con buona proprietà, trovo un’artista affabile, pronta a raccontarsi e a raccontare la sua concezione aperta del songwriting; le chiedo subito se l’etichetta di fadista, che certi promoter si ostinano a richiamare, la infastidisca. Lei di tutto punto, dice: «È colpa mia che all’inizio della carriera, per il mio approccio, ho messo in collegamento Portogallo, Brasile e Capo Verde. Ho chiamato il primo disco “Phados”, con “ph”, scritta tra parentesi come si usa nella grafia fonetica. Il riferimento è al PH, che in chimica misura l’acidità o la basicità. Sono stata presentata come fadista, ma non era mia intenzione, anche nel secondo disco c’era ancora un po’ di riferimento al fado, ma non mi piaceva essere etichettata in questo modo. Poi, ho deciso di non dire più niente e lasciare che la musica parli di per sé… Sono interessata ad altre espressioni tradizionali, le uso, come le forme antiche della Provenza, ma cerco di scrivere musica senza tempo». Per la sua seconda data italiana, Lula Pena arriva direttamente dalla Sardegna, dove a Seneghe si è esibita al Cabudanne De Sos Poetas. Dopo l’esordio discografico del 1998, ha inciso “Troubadour” nel 2010, il disco che la porta oltre i confini nazionali agli show case delle fiere world music del Womex e di Babel Med; arriva in Italia al Premio Tenco e in Scozia miete consensi al festival Celtic Connections. Il terzo album “Archivo Pittoresco” (Crammed Disc/Materiali Sonori, 2017), 
ispirato al processo creativo di un movimento di pittori del XIX esploratori di paesaggi, consolida la sua posizione di artista al di fuori di schemi preconcetti. Quanto è importante proprio il paesaggio nell’ispirazione di Lula Pena? «La mia è una riflessione sull’essere stata nomade per molti anni. Dopo i 18 anni ho lascito il Portogallo, iniziando il mio “esilio”, la mia ricerca, il mio percorso, che è come un labirinto. Per me era necessario muovermi, andando oltre la stagnazione delle abitudini e della famiglia, per cercare me stessa altrove. Ora è la musica che mi permette di mantenermi in movimento, viaggiando, facendo esperienza di altre lingue, cambiando il modo di pensare. La musica è esperienza: ascolto sempre il contesto in cui vivo che diventa parte della musica. Mi piace definirlo: “pensiero dell’orecchio”. Mi relaziono agli altri e al luogo in cui mi trovo, per dare un senso a ciò che faccio. Ascolto i suoni del mondo, traducendoli in composizioni». È lo scorrere di esperienze, che dal vivo assumono i contorni di un rituale, una condivisione che intende coinvolge nell’intimità lei e il pubblico. In apertura definisce il suo concerto «viaggio, esperimento, esperienza senza frontiere e preclusioni». Così non ci potrebbe essere un inizio di set più appropriato che con “Come Wander with me”, cantata in inglese, ripresa dalla serie “The Twilight Zone”, un invito a vagare tra i mondi evocati e cantati, cui seguono gli echi flamenco e sefarditi di “Ojos, si quereis vivir”, canzone che risale ad almeno quattro secoli di storia. 
Una lunga introduzione chitarristico-percussiva porta a “Deus è grande”, proveniente da una collezione di poesie portoghesi contemporanee. Il pubblico applaude con discrezione, sintonizzato con il canto essenziale e disadorno di Lula. Per lei le parole sono importanti quanto la musica, quanto le pause, i silenzi. Voce che declama, che canta, che sussurra; la sua è una voce strumento che comunica prendendosi cura di te. Lula Pena suona la chitarra arpeggiando, imprimendo poche frasi melodiche o percuotendo lo strumento. Inutile cercare appigli canori ed estetici (Waits, Cohen, Drake al femminile?): è il vituperato vizio mediatico di ridurre la complessità, di collocare nel già sentito, per dare al pubblico (o a se stessi) punti di ancoraggio, che poco hanno a che fare con chi fa del vagare poetico e musicale la sua cifra emotiva e artistica. In realtà, siamo dir fronte a una sorta di percorso meditativo, nel quale la cantante improvvisa non seguendo un tracciato o un repertorio fissato, ma muovendosi nel libero flusso creativo, che la porta a mischiare brani noti che si fondono con composizioni nuove. Così, inattesa arriva, quasi sussurrata, in italiano, “La strada nel bosco”. Sfiora la chanson francese con “Poema/Poemé” del surrealista belga Louis Scutenaire; “O Negro quen seu” è, invece, una lirica del poeta afro-brasiliano Ronald Augusto. “Las Penas” è un tradizionale ancora tratto dal suo magistrale album del 2017. Sul suo rapporto con la chitarra acustica, Pena dice: «Ho iniziato con le accordature standard; nel primo disco la chitarra era minimale, c’era più spazio alla voce. 
Nel secondo le parti chitarristiche erano un po’ più complesse ma ancora di tipo standard. In seguito, ho deciso di esplorare di più, di trovare un’altra sonorità, che fosse più stimolante: non era certo il caso di studiare musica in senso accademico, per me che sono autodidatta; intendo mantenere un senso intuitivo, organico. Non avevo mai provato le accordature aperte: ne ho preso una per provare e mi sono lasciata andare, come in una spirale, in questo nuova esperienza che significa uso di un nuovo linguaggio, di nuova coreografia: perché devi fare danza con le dita; ho iniziato anche ad ascoltare di più. Mi piace quest’idea del “pensiero dell’orecchio”. Ho ascoltato molto, che è come mettersi ad osservare le cose al microscopio. Nel mio suonare ci sono anche errori, è un’avventura fatta anche di improvvisazione, di sottigliezze. La chitarra è diventata più viva, ci si sposta tra maggiore e minore in tempo reale, un suonare che diventa un’esperienza trascendente». Appassionata delle lingue, anche stasera Lula Pena canta in idiomi diversi. Si è detto del francese, dello spagnolo, dell’inglese e del portoghese, ora c’è il greco di “Pes Mou Mia Leksi” di Manos Hadijdakis e il sardo di “La Diosa” (più conosciuta come “No Potho Reposare”). Dice: «Canto in greco ma non parlo greco. La prima volta che sono stata in Sardegna ho sentito “No Potho Reposare” da Gesuino Deiana, che una sera l’ha suonata alla chitarra. L’ho trovata molto bella. Dopo 15 anni ho ripreso la frase principale, che era un ricordo fantasmagorico che mi ritornava in mente»
Se dovesse pensare a una lingua in cui le piacerebbe cantare? Risponde «l’arabo, perché è come aprire di più lo spettro di avvicinamento, non solo ai suoni ma anche ai messaggi da portare, a un altro territorio. oppure il giapponese. È come pensare fisicamente al viaggiare, io lo faccio semanticamente oppure il mio è un viaggio puramente fonetico, sonoro. Cerco di fare un po’ di alchimia semantica, il mio è un massaggio sonoro che stimola la percezione del linguaggio a un livello più denso. Non voglio dare una cosa chiusa al pubblico, intendo creare una sorta di dialogo, un rituale dell’esperienza sonora, con le lingue, con i rumori che faccio con la chitarre; questo è il senso anche nel modo in cui suono la chitarra che sembra una piccola orchestra». Nel suo suono ci sono sfumature blues, strutture che riprendono certe armonizzazioni fadiste, ma anche fisionomie afro-lusitane e sudamericane. Un’artista che tende l’orecchio per ascoltare le rivelazioni profonde che un testo, una musica possono suscitare. Il suo comporre è ricerca di correlazioni tra cose già esistenti, tra lingue ed espressioni musicali: «la ricerca di un centro che non è mai stabile, la musica non è un fine, ma ogni volta una ricerca su cosa significa fare musica (per sé e per gli altri)». Ecco, dunque, la ripresa di testi di altri poeti, musicisti o saggisti, che Pena trova metaforicamente o simbolicamente importanti o riattualizzare cose di più antiche che tuttavia hanno ancora senso, che possono riprendere vita, come avviene nella forma medievale della cantiga (“Cantiga de amigo”). 
Il concerto ci porta e emozioni morbide e liriche di “O ouro e a madeira”, il canto appassionato di “Ausencia” della cilena Violeta Parra e “Breviário”, una creazione scaturita da uno scritto della saggista brasiliana Jerusa Pires Ferreira. L’approdo provvisorio e aperto arriva con “Rose”, firmata da Ederaldo Gentil, compositore brasiliano scomparso qualche anno fa. La canzone sottolinea il coraggio di agire, ma cogliendo i significati molteplici insiti nella parola “Rose”, ancora una volta sollecita ad aprirsi, a lasciarsi ossedere dalle diverse interpretazioni. Autrice dallo charme unico nel panorama musicale lusitano, Lula Pena ha emozionato con la sua balsamica terapia sonora. 


Ciro De Rosa

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