Flo – La Mentirosa (Soundfly/Self 2018)

#BF-CHOICE

Piuttosto che il famigerato “difficile terzo album”, “La Mentirosa” rappresenta per Flo un ulteriore e cosciente progresso nella scrittura poetica e musicale, che spiazza ancora una vota i cliché dei generi. Impostasi all’attenzione del pubblico e della critica con il suo esordio “D’amore e di altre cose irreversibili” (2014) ma, soprattutto, con l’ottimo “Il mese del rosario” (2016), entrambi pubblicati da Agualoca Records, la cantautrice e attrice napoletana (all’anagrafe Floriana Cangiano) è personalità poliedrica nel panorama musicale italiano; ha alle spalle titoli in canto conseguiti al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, ruoli musicali e teatrali, fino a collaborazioni e condivisioni di palco con Claudio Mattone, Daniele Sepe, Enrico Rava, Stefano Bollani, Elena Ledda, Paolo Fresu e altri ancora. Proprio sotto la guida del geniale sassofonista e cesellatore di note Daniele Sepe, orchestratore e produttore del disco, che ha convogliato ben trenta musicisti per la stesura de “La Mentirosa”, accanto al nucleo base che accompagna Flo dal vivo (Marcello Giannini alle chitarre e Michele Maione alle percussioni, cui si aggiunge Davide Costagliola al basso), la cantautrice non fa venire meno né la leggerezza né il piglio malandrino e irriverente che la caratterizzano. Flo è una tipa a cui non manca il coraggio di esporsi, possiede la profondità di chi si osserva e si guarda intorno, ascolta e immagina, costruendo pentagrammi di storie e liriche. Naturalmente, su tutto si eleva la sua voce, credibile negli attraversamenti linguistici, intensa nei cambi di registro espressivo e di umori, che sa essere intimo e delicato ma pure corposo, tagliente e sofisticato. 
Gli inediti materiali plurilingue de “La mentirosa”, a parte la rilettura di “Ponta de areia” dell’immenso Milton Nascimento, rimandano a differenti tradizioni musicali, creando un’affascinante illusione: la “mentira” – bugia in castigliano –, diviene la metafora della consapevole proiezione a inventare e inventarsi, ad assumere sembianze mutevoli e a smarrirsi nell’alterità sonora e letteraria, pur non smarrendo la propria bussola artistica. Nelle note di presentazione del disco, Flo scrive: «Mi piace generare questo felice smarrimento nelle orecchie e nell’animo di chi mi ascolta. […] È importante invece lasciarsi attraversare dalla melodia e viaggiare con essa. È importante sentire che, almeno nella musica, non c'è filo spinato e non c’è il proibito». Con queste premesse e con tali esiti sonori, un lavoro come “La Mentirosa” non poteva che essere un disco del mese di “Blogfoolk”. A chi le domanda che genere di musica faccia, Flo vorrebbe rispondere: «Il mio genere sono io! Chi di noi non ha sognato almeno una volta di poter dire una cosa così?». Poi, liberando il sorriso e mettendo a freno quel pizzico di vanità, che traspare anche nella schietta intervista raccolta in una mattina di luglio in una tranquilla Piazza Bellini, nel centro antico di Napoli, chiosa: «le mie, sono canzoni». Eccole raccontate per “Blogfoolk”, direttamente da Flo.

In una precedente intervista, mi raccontavi che un disco come “Il mese del Rosario” nasceva anche dal contesto abitativo nel quale vivevi, da questa angolazione “La Mentirosa” che prospettiva assume, come risente di chi e di cosa ti sta intorno?
Moltissimo, ma più del dove vivo, che è sempre importante visto che dalla Sanità mi sono spostata nella zona di Piazza Dante, il nuovo disco risente del fatto che, da quando abbiamo cominciato a fare i tour, abbiamo passato tantissimo tempo insieme come gruppo. Inoltre, con l’avvento di un chitarrista più elettrico come Marcello Giannini, il suono ha iniziato a prendere una dimensione più grossa, più ricca, che già cercavo da tempo. Quindi, il disco ha risentito dell’apporto dei musicisti. Scrivo il pezzo con la semplice melodia, ma una volta portatolo in sala, è con loro che prende forma. I testi sono nati lontano da casa, in solitudine, immaginando per loro una forma musicale piena e aperta, a tratti pomposa e divertente ma pure intima e delicata.

C’è più istinto o più studio nell’incontrare ritmi e melopee appartenenti a diverse tradizioni musicali?
Più istinto, perché la cosa è più deduttiva. Io porto il pezzo e, per come lo canto e  spiego ciò che ho in mente, visto che alcuni strumenti non li suono io, si riconosce che può essere accostato a certe forme musicali. Quando scrivo non penso al tipo di, per così dire, “etnia” che può essere associata a un pezzo. Certo, quando in un disco di dieci brani ci si rende conto che, dopo otto pezzi, ha iniziato a prendere forma una collocazione geografica, si finisce per continuare su quella strada. Allora, finisce che magari dei pezzi li scrivo ad hoc, per completare quella traccia geografica già avviata spontaneamente. 

Pensando al tuo percorso di autrice e cantante, quanto ti risulta facile mescolare le lingue? 
In questo disco c’è “Chavela”, che è stato abbastanza facile cantare, perché ho vissuto in Spagna dove ho ascoltato tanta musica spagnola, andalusa, latino-americana. Mi è molto facile produrmi nella scrittura in spagnolo. Certo, quando ascolti i cantanti di flamenco, non ti avvicini proprio a quel genere, perché è un tipo di emissione e di vocalità troppo difficile, come può esserlo il canto ‘a fronne o i canti distesa del sud Italia. Poi, c’è “Ponta de areia” di Milton Nascimento, dove da una parte tu ascolti, in un certo senso, quindi, ripeti qualcosa che ascolti, ma dall’altra parte può essere complicato cimentarsi con una cover, perché devi sempre essere all’altezza, come è stato in passato anche per le interpretazioni di canzoni di Rosa Balistreri. Quanto al napoletano, è la mia lingua: noi siamo bilingue… 
il napoletano è anche la lingua per incazzarsi e per stare, come nel caso di “Babel”, più up-time. Questo disco, tuttavia, dal punto di vista linguistico ha meno lingue ma più suoni internazionali.

C’è una lingua in cui ti piacerebbe cantare?
Mi piacciono tutte le lingue, ma mi piacerebbe moltissimo affrontare il repertorio bulgaro popolare o di quelle aree di cui si è occupato Bartòk, però da interprete non scrivendolo, perché non saprei da dove cominciare: penso che in futuro potrebbe succedere. Con la lingua tedesca, invece, mi sono tolta lo sfizio in Conservatorio con tutta la liederistica che ho studiato ed eseguito.

Quale il ruolo di Marcello Giannini nello sviluppo di un suono diverso dalla ricerca dei precedenti dischi? 
È stato un cambio naturale, Ernesto Nobili, che è stato chitarrista e anche produttore dei dischi precedenti, a un certo punto ha lasciato questo progetto ed è arrivato Marcello Giannini. Nel mio progetto i musicisti sono fondamentali: il nostro è un lavoro artigianale che nasce dalle prove e dai concerti. Mi fa piacere che sia così perché diventiamo una forza. È un progetto mio in cui, però, tutti si possono ritrovare anche come solisti. Ho dato a Marcello questo spazio, dicendogli: «Non mi serve uno che sostituisca, ma uno che è!». Da tempo cercavo una dimensione meno acustica, meno piccola; ci siamo trovati in contesti concertistici anche grandi, dove mi sono resa conto che potevo spingere di più, che mancava qualcosa al suono. Il progetto acustico dà soddisfazione a un cantante, perché con la sua voce può riempire più spazi, perché ci sono più vuoti. Ma un progetto nasce e si sviluppa anche pensando ai luoghi. Se inizi a suonare su palchi grandi, per dirla in maniera molto banale, la mancanza del basso la senti, capisci che puoi andare oltre ma ti manca un po’ di motore. Il suono ha iniziato a prendere una direzione che già intendevo sviluppare, è stato il pretesto per dirmi: «Ora posso sperimentare con un suono più pieno, giocoso e meno serioso», più vicino a ciò che sono io e a ciò che è Daniele. Va bene la complessità, ma trasferirla con ironia e leggerezza. A trent’anni non mi sento già una cantante anziana, ho ancora voglia di giocare sul palco. 

Veniamo proprio a Daniele Sepe, in qualità di orchestratore e produttore, ma anche coautore di molti brani…
Portati i pezzi nuovi che avevo scritto, avevo molto chiaro che volevo un disco ironico, sfrontato, che facesse riferimento anche ad altre tradizioni musicali, in maniera diretta e non pesante, come fa anche Vinicio Capossela. Ho cercato un produttore che potesse valorizzarmi come cantante e valorizzare il mio discorso musicale. La soluzione ce l’avevo sotto al naso, ma ci ho pensato alla fine… Daniele Sepe è uno che sa maneggiare questa roba, magari sa prendere una canzone che sembra un pezzo greco ma non lo è, sa rendere tutto in maniera ironica ma con conoscenza e profondità. Ho incontrato altri produttori che maneggiavano  un po’  la musica etnica – passami il termine –in forma presepiale, magari volevano mettere il vestito etnico senza averne conoscenza. C’è molto della mano di Daniele nel suono, si sente che l’ha prodotto lui. In effetti, volevo un disco di carattere ed è quello che è successo. 

Le tue canzoni sono spesso racconti… che canzoni sono quelle de “La Mentirosa”. In cosa sono diverse dal passato?
C’è meno il fatto. Per esempio, ne “Il mese del Rosario” ci sono molti personaggi raccontati, fatti espressi in maniera più minuziosa. Invece, “La Mentirosa” è un disco più aperto ai significati, è uno sguardo più tratteggiato, più sfumato, sono pezzi più aperti alle interpretazioni di chi li ascolta, più poesie che racconti, ma è stato un caso. Uscito questo disco, già ho scritto altri pezzi: per me scrivere è un esercizio spirituale (ride, ndr). 

Domanda necessaria: il titolo del disco?
La ragione è nel carattere sonoro, nel suono della parola “mentirosa” che mi piace, che evoca anche qualcosa di esotico, sembra quasi una spezia, come ho detto già in altre interviste. In realtà ho capito che il titolo, che in spagnolo significa “La Bugiarda”, fa riferimento a canzoni inedite, tranne una, che hanno qualcosa che le avvicina a canzoni popolari tradizionali. È una grande bugia, nel senso di una grande illusione, un gioco: si usano materiali appartenenti ad altre tradizioni per appoggiarli a delle cose inedite. 
Mi sembrava il titolo giusto per esaltare il modo bugiardesco e giocoso con cui abbiamo usato ritmiche e suoni tradizionali. Tra l’altro, mi sono accorta, solo dopo, che la parola bugia appare in molti brani.

Si ascoltano molti strumenti e molti musicisti, hanno suonato almeno trenta diverse personalità… Come avete gestito queste presenze e questa ricchezza timbrica? 
Troppi! (ride, ndr). Io ero disperata, visto che, insieme a Bruno Savino di Soundfly, sono anche produttrice del disco. È stato difficile da gestire. Invece, Daniele riesce a far tornare tutto, senza avere il minimo controllo dal punto di vista organizzativo. Quando ha le persone in sala, riesce a far fare delle cose bellissime a ogni musicista, arrivando anche a farli sorprendere dei risultati, non è così sul piano organizzativo… Invece, io, essendo molto precisa, ho cercato di gestire la logistica insieme a Bruno. Alla fine, abbiamo realizzato un disco in due settimane, ma ne sarebbero servite almeno altre due per gestire gente che entrava e usciva dallo studio. Ci stavamo facendo prendere la mano, pensando ad altri inserimenti musicali, ma poi ci siamo fermati...

Hai già accennato a due nomi con cui ti sei rapportata: Chavela Vargas, che omaggi con un tuo brano inedito, e Milton Nascimento, di cui interpreti “Ponta de Areia”? Come mai queste scelte?
Chavela, perché la sua voce come quella di Rosa Balistreri la considero una voce guerriere. Sono voci che da quando le ho scoperte, è cambiato il mio modo di cantare e di scrivere. Per me, c’è un prima e un dopo. Provenendo dallo studio del canto lirico, ho ascoltato per anni, emozionandomi, un certo tipo di voci, di colori vocali, di fraseggi, che ancora oggi mi piacciono: adoro la lirica. Poi, ho scoperto un altro mondo, un’altra emotività, come se alcuni sentimenti non si potessero veramente esprimere se non con quella vocalità, con quella vita alle spalle. La voce si lega alla vita, alle esperienze. Mi sono appassionata e ho scritto questo pezzo per Chavela, per la sua vocalità, per la sua vita: mi sembra sia stata un personaggio anche misterioso, prima poverissima, poi famosa, poi scomparsa del tutto, infine ricomparsa. 
Milton è un mito, è quello che vorrei fare io. Se ascolti i suoi dischi, vedi che c’è di tutto: jazz, rock, musica popolare brasiliana e anche pop, ma con una sua musicalità inequivocabile. Di lui amo non solo la scrittura melodica, i testi, la voce, ma soprattutto la capacita di mescolare, è un’idea di musica totale a cui ambisco.

C’è una canzone più bella nel disco? 
Dal punto di vista del testo, direi “Della caverna il cielo”, che racconta di quando nella vita per qualche breve momento qualcuno è in grado di farci perdere noi stessi. Dal punto divista della canzone di cui sono più orgogliosa è “La Mentirosa”. 

Ne “La Mentirosa” tocchi il tema della morte su un ritmo di danza…
Con questo disco, sentivo di dovermi togliere una catena, dopo il primo album e quello in quartetto, volevo un disco che, ascoltato tra dieci anni, sentirò vecchio ma non ingenuo. Volevo sentire una complessità armonica: un disco vero. “La Mentirosa” è il brano che più rappresenta il senso del lavoro perché c’è una componente popolare, ci sono i tamburi a cornice, c’è un rimo di pizzica ma c’è il sitar, i sintetizzatori, le chitarre elettriche che danno un’apertura internazionale. Il testo è ispirato ad una bellissima poesia di Fernando Di Leo, “Il contratto del poeta”, una specie di testamento, che parla del ritorno alla terra da cui è venuto, dopo la morte. Scrive: «Di questa vita non ha fatto che un’inchiesta senza conclusioni», lasciando tutto aperto a diversi significati. Sono andata a vedere un documentario su Di Leo, un maestro del cinema noir italiano ma che pochi sanno, fu un profondo poeta. Mi sono appassionata al personaggio e mi sono ispirata a lui. Parla di morte ma in maniera molto messicana. «La muerte es una mentira...», in fondo cosa ci aspetta dopo la morte, che sia meglio o peggio di ciò che abbiamo immaginato, nessuno lo sa. La canzone, come per la poesia di Di Leo, è un testamento che dichiara la volontà di tornare alla natura, alla libertà, alla semplicità, alla terra.

E “Vergine di fine agosto” con il suo tratto sognante?
Quando l’ho raccontata e spiegata a Daniele, ho detto che desideravo un’atmosfera felliniana, come se guardassi un film con quelle atmosfere: una specie di serenata-tango, però, tra due donne: una canzone d’amore per la donna dei miei sogni. Ho immaginato cosa volesse sentirsi dire da me e cosa mi direbbe. Poi, Daniele ha infiorettato tutto in maniera che fosse proprio così con la tromba solista di Gianfranco Campagnoli a rendere l’atmosfera circense e passionale.

Il tema dell’amore ritorna in “Fosse capace”, di cui dici che è «una dichiarazione d’amore incosciente».
Partiamo dal fatto che è un pezzo che avevo scritto, come tanti altri, prima di incominciare a pensare al disco. Non avevo pensato che potesse diventare uno dei pezzi più apprezzati: pensa che è il pezzo più scaricato e più comprato sulle piattaforme digitali. Questo mi ha imposto anche delle domande sul mio sesto senso commerciale della musica, che è completamente assente. È una canzone d’amore scritta due anni fa quando ho recitato il ruolo di Miranda ne “La Tempesta” di Shakespeare, tradotta da Eduardo. C’era un verso che diceva: «… cchiù nfunno de quanto arriva nu scandaglio», in un momento bellissimo dello spettacolo. Il verso mi aveva colpito e avevo usato la parola “scandaglio”, che penso non si trovi in nessuna canzone... Nel farla ascoltare a Daniele, paradossalmente, lui che non ama la tenerezza, è rimasto colpito dal fatto che il testo poteva essere assimilato a una canzone popolare, per via della ripetizione dell’incipit, della dolcezza. Ha voluto che fosse un pezzo semplice e pulito, alla James Taylor, che arriva direttamente come una serenata. È diventato anche uno dei pezzi più cantati nei miei concerti. 

All’inizio parlavamo di palcoscenici su cui ti esibisci, che spesso significano mondi e pubblici anche molto differenti. Come ti rapporti con questi diversi contesti? Cosa ti spaventa? Cosa ti affascina? Cosa ti fa sentire più “guerriera”?
Spaventa una parte di me che si chiede se sto facendo bene a stare così in mezzo alle cose. D’altra parte, è l’unico modo: scrivo e faccio musica così, non saprei farlo in altro modo. Penso che un’artista abbia sempre un po’ paura, vorrebbe sapere se sta facendo bene, sapere se alla fine il bilancio sarà positivo. Da quando ho cominciato, vedo che siamo cresciuti, andiamo più avanti, che ho fatto un passo in più. Quando vedo artisti che sono degli esempi da seguire, come Milton o Vinicio, mi rendo conto che li trovi nei festival jazz o in una rassegna di classica con l’orchestra, sviluppare una personalità è il mio sogno, magari un’utopia, ma la gente viene a sentire me. 

Mi hai detto prima che stai già scrivendo altre cose. In un certo senso hai inciso tre dischi molto diversi tra loro, che mostrano i tuoi cambiamenti, la tua volontà di esporti. Sei già proiettata oltre? O continuerai con questa gioiosa esplorazione del mondo?
Scrivo perché mi piace scrivere, non perché penso già a un nuovo disco Ho capito che la dimensione che mi piace di più è questa, suonata molto ricca, molto spinta molto rock’n’roll, piuttosto che vicina al fado o alla canzone popolare con voce  e chitarra. Per il futuro non so, ma una cosa di cui ora sento molto l’esigenza è quella di incontri nuovi; è come se a Napoli non avessi più stimoli: ho lavorato con quelli che stimo di più. Mi piacerebbe fare un disco, tra un paio di anni, da un’altra parte, magari sempre con i miei musicisti ma incontrando altri autori, scambiando delle idee nella fase di scrittura e nella fase di produzione. L’idea verrà…



Flo – La Mentirosa (Soundfly/Self 2018)
Per il suo terzo album, Flo ha scelto come produttore-orchestratore e co-autore un musicista dallo spettro compositivo quanto mai ampio, avvezzo a perlustrare i suoni del mondo, a sfuggire, come ama la cantante partenopea, alle categorie musicali o alle etichette di vidimazione scelte da certa stampa. Daniele Sepe, nocchiero di questo intenso tragitto poetico e musicale, ci mette tutto il suo estro, convocando insieme alla cantante una trentina di musicisti dallo strumentario composito (chitarre, basso, contrabbasso, violoncello, charango, bouzouki, mandolino, oud, sitar, batteria, percussioni, sassofoni, tromba, trombone, flicorno, corno, clarinetto e bassotuba, flauti, pianoforte, tastiere, elettronica, fisarmonica, campane tubolari, quartetto d’archi, arpa, cori maschili  e femminili).  A Flo non manca il coraggio di esporsi, artista eclettica, costruisce pentagrammi di racconti e poesia, scrutando in sé e intorno a lei, immaginando, ricercando e proiettandosi oltre se stessa. Il suo canto è intenso nei cambi di registro espressivo, ora  intimo ora sofisticato, ora delicato ora tagliente. La partenza è di quelle che prendono subito, “Babel” unisce orecchiabilità e propulsione conferita dalle percussioni afro-brasiliane della Bateria PegaOnda, dalle chitarre sferzanti dello Slivovitz, Marcello Giannini e dai fiati. Dal trasognante tratto indotto dalla tromba solista nella visione saffica della serenata-tango “Vergine di fine agosto” si passa ai contrasti tra flauti e chitarre elettriche nella notevole “Della caverna il cielo”, una delle canzoni centrali dell’album, co-firmata con Marcello Maione, mutevole nel passaggio dall’intima passionalità del tema portante al refrain, in cui la voce di Flo si impenna e l’oud di Peppe Frana fende la melodia. Il calore delle corde e delle trombe di “Chavela” ci trasporta direttamente nell’arsura di un pueblo messicano, mentre in “Ponta de Araia”, tributo al capolavoro di Milton Nascimento, ci delizia il solo del sax di Capitan Sepe. Sorprende “Fosse capace”, incantevole canzone d’amore in napoletano: trama piana di stampo Seventies con inattese sfumature armoniche popolari garganiche. La fastosa canzone guida, che sdrammatizza il tema della morte trasponendo una poesia di Ferdinando Di Leo, e che porta una dedica ad Antonio Infantino, parte con un attacco di fiati dal sapore antico per poi svilupparsi su un ritmo di pizzica, attraversato da innesti di elettronica, chitarre e sitar, che rivelano inattesi umori psichedelici di matrice beatlesiana. Tocca agli archi degli Ondanueve String Quartet conferire a “Lunar” un respiro vitale. Oltre, procede a  tempo di 2/4 “Quando verrai”, un hasapiko dal malinconico incedere, che mette poeticamente alla berlina la vana attesa e lo struggimento d’amore, tanto da fare immaginare la breaking news di una Penelope che non potendone più, completa l’orlo della tela e se ne esce con uno dei proci. Però Ulisse, una volta tornato, la perdona. Ancora un tuffo nell’epica, con Flo che incarna la profetessa “Cassandra”, i cui vaticini inascoltati si producono tra effetti dissonanti e spigolose irregolarità. La carezza di una ninna nanna (“A braccia aperte - Brother’s lullaby”), segnata dalle corde pizzicate dell’arpa di Gianluca Rovinello, elogia il legame fraterno. Infine nel magnifico commiato, intitolato “Il segno che non volevi”, sull’ossatura di una tarantella, con l’oud ricama ambientazioni mediorientali, le liriche si interrogano sul “segno” che resta nel cuore di una persona amata dopo la fine di una relazione.  “La Mentirosa” è disco che dovrebbe finire dritto nelle playlist dell’anno. 



Ciro De Rosa

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