Auli and Tautumeitas – Lai Māsina Rotāiās (CPL Music, 2018)

La coralità distingue senza dubbio “Lai Māsina Rotāiās”, album denso quanto straniante in cui confluiscono due importanti band di Riga. Da un lato l’ensemble vocale femminile Tautumeitas e dall’altro Auli, band pregna di ritmo e suoni forti, composta da percussionisti e suonatori di bagpipes. Se questi sono stati fin dal loro esordio attratti dalla prospettiva della contaminazione - nel quadro della quale, a partire dal 2005, hanno prodotto un significativo numero di album e, negli anni, un suono riconoscibilissimo - gli altri, anzi le altre sono caparbiamente strette intorno alle espressioni tradizionali lettoni. Che riportano attraverso una polivocalità sempre di impatto, insieme a una visione melodica che definirei “femminile” (permettendomi una semplificazione), cioè forte, spesso prodotta in unisono e raramente accompagnata dagli strumenti. Non c’è dubbio quindi che siamo in quadro che fa riferimento al folk e alla world music. Due contenitori, cioè, che racchiudono elementi complicati da rappresentare in poche righe, ma che hanno in comune alcune prerogative che possiamo invece riconoscere anche a primo acchito: lo studio storico e musicale (si legge nelle note a proposito delle Tautumeitas: “la maggior parte dei membri della band ha condotti studi in etnomusicologia”), un insieme di idee di revival (qui ce ne sono almeno due), una riflessione sulle questioni riconducibili alla rappresentazione delle espressioni tradizionali (il testo, cioè i contenuti, e il contesto, cioè i fattori che inquadrano la produzione, sia originale, cioè orale, che autoriale), una conoscenza tecnica di alcuni linguaggi musicali contemporanei. Insomma dare un senso compiuto a questo insieme di elementi richiede coerenza e studio, bravura nelle esecuzioni e nella selezione. E queste due band dimostrano di avere tutti i requisiti necessari. Lo dimostra la compostezza (nonostante l’impatto forte) di ogni brano, che sembra essere distillato fino alla fine per escludere anche la minima possibilità di ridondanza, di straboccare lì dove potrebbe addirittura costruirsi (come qualcuno ha fatto negli ultimi anni) una specie di cifra stilistica: spendibile addirittura commercialmente a livello internazionale. Invece i musicisti in questione hanno le idee chiare: innanzitutto si lavora sulla struttura, che deve essere chiara e ordinata, poi si qualifica con dettaglio ogni aspetto esecutivo (la voce, le voci, i fiati, le percussioni, le poche corde che emergono qua e là), riconducendo tutto a uno o più temi che (come in un concept) sono stati scelti tra i riferimenti principali: le musiche legate al corteggiamento e ai matrimoni. Per questo si ha la sensazione di ascoltare una stratificazione di rappresentazioni, un insieme ordinato in cui ogni dato ha un posto definito e ogni musicista approda a un livello altissimo di narrazione e partecipazione. La bravura di questi diciassette musicisti (praticamente un’orchestra) sta proprio nella calibratura delle esecuzioni. Difatti se togliessero queste attenzioni (che per qualcuno potrebbero costituire degli intralci a una passione più estemporanea) l’album risulterebbe forse più diretto, ma senza dubbio meno convincente: a causa del caos e di una sovrapposizione troppo enfatica e a tratti nevralgica. Molti dei tredici brani in scaletta dimostrano questo particolare approccio. Scegliamo il primo e l’ultimo come paradigmi. “Manā loppa laidarā” lascia spazio alle migliori caratteristiche dell’ensemble: prima fra tutte quella del ritmo, che è sorretto allo stesso modo dalle percussioni e dalle voci, riproducendo lo stesso beat dall’inizio alla fine. Le bagpipes intervengono in alternanza alle voci con una frase melodica lunga e sinuosa, e solo in prossimità del finale accelerano in un crescendo di intensità, per spegnersi in una chiosa a cappella delle sei cantanti. “Aulejas klezmers” introduce un ritmo più sincopato, sopra al quale le voci si stendono quasi in unisono, ad eccezione di una sottile armonizzazione, che colora l’andamento del brano con delle note più alte. Le quali sembrano avere la precisa intenzione di introdurre il pattern dei fiati, che questa volta concludono il brano (e l’album) intrecciandosi con il violino. 


Daniele Cestellini

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