Arturo Stàlteri – Low & Loud (Felmay Records, 2018)

Non poteva esserci un titolo più adatto di “Low & Loud” per il nuovo disco di Arturo Stàlteri, un raffinato concept album dedicato al pianoforte ed alle esplorazioni attraverso le diverse sfumature timbriche, melodiche e dinamiche del suo suono per esaltarne le potenzialità espressive. Composto da dodici brani, di cui otto originali e quattro riletture, il disco vede il musicista romano spaziare da personalissimi spaccati riflessivi a composizioni classiche di Pachelbel e Bach, per toccare il songbook dei Rolling Stones e quello di Rino Gaetano, senza dimenticare uno splendido viaggio sonoro attraverso la Terra di Mezzo di J.R.R. Tolkien. Abbiamo intervistato il pianista e conduttore radiofonico romano per farci raccontare la genesi e le ispirazioni alla base di questo album che verrà ricordato come uno dei più intensi e profondi della sua carriera.

"Low And Loud" arriva a breve distanza da quel gioiellino che era “Préludes”. Ci puoi raccontare come è nato questo nuovo lavoro?
Tra un disco e l’altro faccio solitamente passare almeno due o tre anni, perché in qualche modo è quello il mio tempo fisiologico. Questo nuovo disco è nato, però, improvvisamente. Mentre suonavo hanno preso vita queste nuove melodie e, nel giro di una settimana, avevo pronti i brani. Mi sono detto: perché aspettare? Così, sono entrato in studio e in un paio di giorni, o meglio in un pomeriggio, ho registrato quasi tutto e successivamente ho fatto un bel lavoro di postproduzione. Quello che volevo realizzare è un omaggio al pianoforte in tutte le sue sfaccettature, sia dal punto di vista classico con i due omaggi a Pachelbel e Bach, sia da quello personale le riletture di Rolling Stones e Rino Gaetano con il quale ho collaborato nei primi album.

In questo senso, assolutamente significativa è la scelta del titolo…
Inizialmente volevo chiamarlo semplicemente “Pianoforte” ma non mi piaceva molto, e del resto c’era già un disco con lo stesso titolo di Susan Chan. Reso in inglese il titolo avrebbe dovuto essere “Soft & Loud” ma il termine low riferito ad un suono rimanda al basso come frequenza e questa cosa mi piaceva di più. Il titolo “Low & Loud” funzionava meglio in quanto è un disco in cui ho sfruttato molto i suoni armonici e poi alcune composizioni presentano lunghe code. Il termine low richiama anche l’album omonimo di David Bowie che è tra i miei preferiti. 

Ci puoi raccontare il processo creativo alla base dei brani di “Low & Loud”?
Dal punto di vista compositivo, i vari brani sono nati di getto ed ho deciso di lavorarci poco nella fase di sviluppo, cosa successa già con “Préludes” che però era un disco più elaborato con ventidue brani, ognuno con una sua strada e con la presenza anche di altri strumenti. In questo caso le soluzioni melodiche ed armoniche sono molto più contenute, hanno un filo comune e addirittura ci sono alcuni ritornelli che ritornano come nel caso di “Christmas Day” e “Mon Jardin” che presentano gli stessi accordi, e questa è stata una cosa voluta. 

Hai fatto riferimento alla post produzione. Come si è indirizzato il tuo lavoro?
Ci sono solo due o tre brani in cui ho utilizzato anche un altro pianoforte in sottofondo, trattandolo, rovesciandolo e rallentandolo per usare tutte le frequenze. Ho utilizzato un pianoforte Fazioli tre quarti che ha un suono molto robusto e splendidi armonici ed è stato necessario fare in modo che entrassero ancora più in vibrazione. 
Ho chiesto a Pino Zingarelli che fa sempre il suono dei miei dischi, se si poteva fare in modo che certe frequenze e certe code uscissero più in rilievo. Attraverso una serie di plugin che ha nel computer ed agiscono su certe frequenze ha messo in evidenza solo alcune note ed è venuto un suono molto pieno, a limite della saturazione in alcuni momenti che poi è quello che volevo ovvero il pianoforte al certo per cento. L’unico brano in cui sono ricorso alle sovraincisioni è il “Canone in Re Maggiore” di J. Pachelbel. In origine, come noto, è una composizione per tre violini e un basso continuo e l’unica variazione apportata alle singole partiture è stato il cambiamento di qualche nota perché alcune di esse risuonavano. Ho registrato singolarmente le quattro parti in tracce separate e il risultato mi sembra molto buono. La melodia è talmente particolare ed ha una sua forza astratta come accade con Bach per cui ogni formazione riesce a rendere l'idea. 

Quali sono le differenze e le identità rispetto ai tuoi dischi precedenti?
Questo nuovo album è diverso da tutti quelli che ho fatto sin ora, ma ovviamente sono il meno adatto dirlo. Se dovessi individuare dei punti di contatto con il passato, citerei il secondo volume di “Flowers”. Questo disco, infatti, conteneva alcune riletture ed aveva un legame con la musica classica, ma dal punto di vista sonoro, invece, c’è una differenza sostanziale in quanto “Flowers” aveva un suono molto pulito e classico, anche se il pianoforte era registrato più da lontano. In “Low & Loud” c’è un pianoforte dal suono più robusto che suona come se lo avessi in faccia. Ogni nota è molto netta, scandita. 

Come definiresti “Low & Loud”?
E’ un disco un po’ cupo, e questo non solo nel suono che, secondo me è abbastanza ovattato, ma anche perché riflette le mie paure e le mie nostalgie più di altri dischi. Se pensi all’iniziale “Tristes Vagues” sono onde tristi ed è come se pensassi ad un mare grigio ed oscuro. “La Vertigine del Tempo” racconta della mia ossessione per il tempo. Quando sei bambino questo tempo sembra regalarti chissà quali promesse, qualcuna la mantiene, ma poi ti prende in questo vortice dal quale non riesci a sfuggire e vedi solo questa sorte di buco nero che ti aspetta. “The Quiet Road To Sea” sembra una ninnananna dalle atmosfere irlandesi, ma è permeata da una atmosfera malinconica, la stessa che ritroviamo in “Christmas day” nella quale quale c’è il mio amore per il Natale ma anche quel senso di nostalgia per la mia infanzia. Un altro pezzo secondo me molto cupo è “Another Land” che nel titolo nasconde un omaggio ai Rolling Stones di “In Another Land” di Bill Wyman, contenuta in “Their Satanic Majesties Request”. E’ un brano tutto sul sol minore e il mi bemolle con il pianoforte trattato e rovesciato ad evocare l’oscurità di questo pianeta cupo che ho immaginato. Nell ultime note c’è la citazione di “In The Court of King Crimson” che avevo ripreso già “Flowers Vol.2”. Sul finale anche “Mon Jardin” non è poi così rassicurante con quella sua melodia un po’ ossessiva. Sai, però, sono io a vederla così ma magari a chi ascolta questi brani potrebbero comunicare tutt’altro.

A stemperare la tensione del disco ci sono anche composizioni più leggere?
Ci sono brani più allegri come “Un Viaggio Inaspettato” nella quale ritorna la mia passione per J. R. R. Tolkien ed in particolare per “Lo Hobbit” che è non è un romanzo cupo come “Il Signore degli Anelli. C’è poi “Dioniso si diverte” che è un divertissement ispirato al dio dell’ebbrezza. 

Avevi citato prima l’omaggio ai Rolling Stones di cui sei notoriamente un grande estimatore…
I Rolling Stone li avevo omaggiati solo una volta con una versione elettronica di “Ruby Tuesday” ma non avevo mai inciso nulla dal loro repertorio in versione pianistica e per questo ho deciso di rileggere “Lady Jane” anche per rendere omaggio a Brian Jones. E’ uno dei brani più romantici dei Rolling Stones e sembra che Jones si sia ispirato ad una composizione del Seicento del grande Jon Dowland. Nella versione originaria c’era il clavicembralo suonato da Nick Hopkins, una chitarra acustica e addirittura una celesta. Era in buona sostanza un brano perfetto da rifare al pianoforte.

La scelta di ricordare Rino Gaetano è, invece, strettamente legata alla tua collaborazione con lui…
Quello di Rino Gaetano è il pezzo sul quale ho riflettuto di più. All’epoca partecipai alle registrazioni dei suoi primi dischi “Il cielo è sempre più blu”, “Mio fratello è figlio unico” e “Aida”, quindi sono tanti i brani a cui ho lavorato direttamente. Non avevo però lavorato nel disco di debutto “Ingresso Libero” dal quale è tratta “Agapito Malteni, Il Ferroviere”. Quando conobbi Rino, ai tempi de “Il cielo è sempre più blu” facemmo alcuni concerti prima di entrare in sala di registrazione 
e suonavamo proprio i brani del primo album, tra questi “Agapito Malteni” era un po’ il nostro cavallo di battaglia perché lo suonavamo con pianoforte, chitarra e voce. Io facevo questa cavalcata un po’ russa che ho ripreso in un omaggio a Rino che si tenne alcuni anni fa a Parma e nel corso del quale suonai una piccola suite con i temi di alcuni suoi brani. Ho pensato, dunque, che poteva essere il momento giusto per celebrare i quarant’anni dal suo terzo posto a Sanremo. Per dimostrare, poi, che non esistono barriere ho inserito all’interno del brano uno studio Op.10 n.9 di Chopin.

Sul versante della musica classica nel disco spicca “Fantasia su un Tema di J.S. Bach…
J.S. Bach per me è il gigante dei giganti, colui che ha scritto tutto prima di tutti. Nella sua musica c'è tutto il mondo che è venuto dopo. Da bambino avevo il 45 giri di “Happy Flowers” dei Mistici, un quartetto pianoforte, organo, basso e batteria, che rileggeva questa corale del compositore tedesco in una versione pop che sentivo continuamente. Prendendo come riferimento la partitura originale ne è nato uno studio che sfocia poi in un brano mio. 

Parlando della post produzione hai fatto riferimento al “Canone in Re Minore” di J. Pachelbel che chiude il disco. Come mai hai scelto di rileggere proprio questo brano?
Partendo dal tema popolarissimo del “Canone in Re Minore” di J. Pachelbel ho voluto fare questo esperimento sostituendo il pianoforte, che è uno strumento percussivo, agli archi dell’originale, il tutto senza modificare praticamente nulla delle partiture originali. 
Non sono stato convinto di inserirla nel disco fino a quando mi sono accorto che funzionava ascoltando la versione finale. Il mixaggio è molto efficace perché ha impresso ai pianoforti un suono molto pieno, quasi orchestrale e mi sembrava bello chiudere il disco con questo classico del 1680 che, poi, è il brano più antico che ho ripreso.

Come proporrai questo disco dal vivo?
C’è un solo brano che crea problemi nell’essere riproposto dal vivo ed è proprio il “Canone in Re Minore” di Pachelbel. In concerto suonerò il disco seguendo lo stesso ordine e poi inserirò una piccola coda con tre preludi dal disco precedente e che ritengo vicini alle atmosfere di questo nuovo lavoro: “Come La Neve” che si avvicina a “Christmas Day”, “Lascio le spine alle rose” che si può accostare ad “Agapito Malteni” e “Gaiser” il mio omaggio all’Islanda che amo moltissimo. 


Salvatore Esposito

Arturo Stàlteri – Low & Loud  (Felmay Records, 2018)
A pochi mesi dalla ristampa dello storico secondo album “...e il pavone parlò alla luna”, pubblicato in vinile da Soave, esce per Felmay Records “Low & Loud”, il nuovo album del pianista, compositore, sessionman e conduttore radiofonico romano Arturo Stàlteri, che riprende il discorso interrotto nel 2016 con il precedente“Prèludes”.  Il pianoforte torna nuovamente a essere il cuore dell’intero progetto. Le dodici tracce, otto delle quali composte interamente dallo stesso Stàlteri, sono strettamente legate a interessi, passioni ed esperienze del musicista. L’apertura “Tristes Vagues” con un bel tema melodico ben introduce l’atmosfera di un album ricco di omaggi e rimandi agli inossidabili pilastri che hanno influenzato la sua crescita artistica e umana. A tal proposito,  non possono naturalmente mancare gli amati Rolling Stones con una personale interpretazione pianistica della celebre “Lady Jane” estratta dallo storico “Aftermath” del 1966. Lasciando da parte i Rolling Stones, il pianista passa poi con disinvoltura a Bach, con una fantasia sullo splendido tema di “Wachet Auf, Ruft Uns Die Stimme” con tanto di ripresa del “primo preludio dal Clavicembalo Ben Temperato” sul finale. Nel disco c’è anche spazio  per una rilettura ( con intarsio Chopiniano) di “Agapito Malteni il ferroviere”, tratta dall’esordio di Rino Gaetano, cantautore e compagno di avventure musicali particolarmente caro a Stàlteri; ricordiamo le esperienze formative come pianista nel singolo “Ma il cielo è sempre più Blu nel 1975, come tastierista in “Mio Fratello è figlio unico” nel 1976 e  in “Aida” nel 1977. Non solo Stones, Bach, Gaetano e Chopin quindi, ma anche evocazioni sonore di interessi Tolkeniani nelle articolate figure ritmiche di “Un viaggio Inaspettato” e riflessioni universali nelle “solenni reiterazioni” de “La vertigine del Tempo”. Il titolo “Low & Loud”, ha una possibile traduzione in “Piano e Forte”, come spiega il musicista. In senso strettamente  musicale “Low & Loud” si riferiscono nello specifico alle frequenze e ai volumi del suono del pianoforte, a cui Stàlteri ha riservato cura e attenzione del tutto peculiari. Una nota particolare per la bella rivisitazione in chiusura del “Canone di Pachelbel”, dove il pianoforte sostituisce l’originale organico di tre violini e del basso continuo favorendo una percezione particolarmente accurata dell’avvicendarsi delle varie voci con un effetto molto interessante. Stàlteri ha già dato prova in passato di una grande abilità di arrangiamento, in questo senso, si consiglia anche l’ascolto di “Circles”, album del 1998 in cui esegue e arrangia al pianoforte alcuni brani di Philip Glass con altrettanta cura; ripenso per esempio in particolare al trittico: “Etoille Polaire (North Star)”, “Victor’s Lament”, “River Run” e “Ave”, che riesce a trasporre sullo strumento il brulicante “muro di suono” tipico di “North Star”, splendido album di Glass del 1977 che è bene ricordare. Tornando al presente,“Low & Loud” è lavoro appassionato in cui il musicista si abbandona allo strumento lasciando che esperienze, ricordi e spunti sonori annidati nella sua memoria escano liberamente per prendere una forma nuova.  Ecco quindi stabilirsi un sottile e divertente gioco tra compositore e ascoltatore, in cui rimandi, citazioni ed evocazioni diventano spunto per il nuovo, confermando un’altra volta la grande abilità di Stàlteri allo strumento.


Marco Calloni

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