Elena Ledda – Làntias (S’ardmusic/JazzIn’Sardegna/Egea, 2018)

Foto di Pierluigi Dessì
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A parlare per Elena Ledda è il suo lungo percorso artistico, intrapreso sin da giovanissima e costellato da produzioni discografiche di grande pregio, numerose collaborazioni nazionali ed internazionali e una intensissima attività live che l’ha condotta ad esibirsi in tutto il mondo. Animata da un grande amore per la musica, la cultura e le tradizioni della sua Sardegna, ne ha cantato con il suo inconfondibile ed intenso timbro vocale le storie, la memoria e la poesia, ma soprattutto la sua formazione artistica le ha consentito di aprirsi a territori musicali più ampi, confrontandosi con musicisti di estrazione e provenienze differenti, diventando una delle cantanti del Mediterraneo più apprezzate. A sette anni di distanza dal suo ultimo album in studio, Elena Ledda torna con “Làntias”, pregevole album nel quale ha raccolto dodici brani, tra composizioni originali e riletture, caratterizzati dal respiro elegante degli arrangiamenti che avvolgono la splendida voce della cantante sarda. Dalla magnifica signora del canto isolano ci facciamo raccontare come è nato e si è sviluppato questo suo nuovo capitolo artistico.

Com’è nato “Làntias” il tuo nuovo album?
Nasce da un lavoro di insieme con il gruppo di musicisti e collaboratori che lavora con me da tanti anni. Chi più, chi meno, ma in ogni caso da almeno dieci anni, come l’ultimo arrivato in senso di tempo che è Marcello Peghin.  Da diversi anni Michele Palmas , fonico storico di quasi tutti i miei progetti e mio produttore, spingeva per “fotografare” l’ensemble e il nostro suono. 
Foto di Pierluigi Dessì
A questo si è unita l’esigenza di raccontare delle storie, di dire delle cose ma anche di mettere ordine a quello che stavamo già facendo. I testi sono stati curati da mia sorella Gabriela ed affrontano temi vari, divisi per settori ed ispirati alle vicende che caratterizzano questo momento storico. Insomma, le musiche si intrecciano con la contemporaneità. Abbiamo quindi messo insieme i brani e affidati alle sapienti cure di Silvano Lobina, bassista con me da quasi trent’anni, per gli arrangiamenti e dopo una breve pre-produzione ci siamo trovati in studio.

Un tuo disco in studio mancava da “Cantendi a Deus” del 2009 ed a fronte di una intensissima attività dal vivo, negli anni, non hai pubblicato molti dischi… 
In verità dopo “Cantendi a Deus” ho inciso anche “Undas” nel 2010 che è uscito solo in Sardegna, e in questi anni ho fatto anche altre cose come “Bella Ciao”. In generale mi piace molto lavorare in studio, ma del fare dischi non amo quello che c’è intorno come la promozione. Queste sono cose che se posso, cerco di evitare. Considera anche che ho una attività concertistica molto intensa, c’è il lavoro che facciamo da tanto tempo con “Mare e Miniere” e per fare un disco è necessario fermarsi, sedersi e pensare. Certamente non registro un disco per fare più concerti. Un album è un punto di arrivo che va fatto quando si ha qualcosa da dire. Mi è capitato anche di fare tre dischi in un anno come nel 1984 quando ho pubblicato “Is arrosas”, ma non avendo una casa discografica che mi obbliga a farli, agisco con grande libertà. Per anni ho fatto spettacoli nuovi senza avere un disco nuovo. Abbiamo realizzato uno spettacolo splendido come “La Via del Pepe” con musiche straordinarie, ma non lo abbiamo mai registrato. Forse, siamo un po’ pigri da questo punto di vista.  Nel caso di “Làntias” abbiamo bloccato un periodo da ottobre a dicembre per la produzione e ci siamo concentrati sul lavoro. Per fare questo tipo di discorso bisogna avere coraggio perché si può pubblicare anche un disco all’anno, ma la domanda è: frega ancora a qualcuno? 
Foto di Pierluigi Dessì
Prima un disco era un traguardo che si tagliava alla fine di un percorso, ora abbiamo una sovraesposizione di tutto. Se mangi aragosta tutti i giorni alla fine non ne hai più voglia. Se ad un giornale arrivano cento dischi a settimana, è praticamente certo che, anche volendo, non riescano nemmeno ad aprirli e magari là in mezzo ci sono anche dei capolavori. Insomma per me fare un disco è molto importante e richiede il suo tempo.

Il brano che apre il disco “Nora”, è uno splendido ritratto di donna…
“Cantu Luxis”, De Arrùbiu” e “Arenas”, il primi brani che abbiamo inciso per il disco affrontavano delle tematiche molto forti e per questo motivo abbiamo deciso di mettere in apertura una luce che rischiarasse il buio da cui vogliamo uscire. “Sa làntia” in sardo vuol dire lume, quello che si metteva davanti alle carrozze per illuminare la strada o quello che si posizionava davanti alle porte, o ancora le lampade votive dei morti. Sono tutte “lantias” quelle che devono in qualche modo illuminare un passaggio. “Nora” racconta di questa donna che “aberendi est is fenestas/amirendi est is banderas” apre le finestre, ammira le bandiere e vede la gente in strada che va alla festa, ha voglia di ballare, di divertirsi, di sentirsi libera. Ci sembrava anche giusto che ad aprire il disco fosse un personaggio femminile sia perché era più giusto per questa storia, sia perché io sono una donna.

Uno dei brani più toccanti è la versione in sardo di “Ninna Nanna in Re” di Bianca d’Aponte, che tu avevi già interpretato in italiano…
Avevo già cantato questo brano quando sono stata madrina dell’edizione 2010 del Premio Bianca d’Aponte. Gaetano e Giovanna, i genitori di Bianca mi chiesero di interpretare un brano del suo repertorio e come fanno tutte le madrine, ho ascoltato tutti i brani che lei aveva scritto. Seppur giovanissima, lei era veramente un grande talento perché scriveva testi incredibilmente maturi. 
Foto di Pierluigi Dessì
Non essendo una cantante pop, la mia scelta cadde su “Ninna Nanna in Re” e in quell’occasione Gaetano mi disse che non si sarebbe mai aspettato questa mia scelta perché era diverso dalle cose che aveva scritto Bianca. Mi raccontò che quella canzone era nata durante la registrazione del disco che poi non è mai riuscita a finire e che quando l’aveva ascoltata per la prima volta aveva chiesto alla figlia come mai fosse così diversa dalle altre e lei aveva risposto di non averla composta per il disco ma per sé stessa. Ho sempre amato questa canzone e già all’epoca avevo promesso a Gaetano che ne avrei fatto una traduzione in sardo per inserirla nel mio repertorio. L’ho cantata volentieri anche nella versione originale, ma cantare in italiano mi mette sempre un po’ di difficoltà e comunque volevo farla più mia. Gabriela che ha curato la versione in sardo si è attenuta strettamente al testo originale, facendo praticamente una traduzione letterale.

In “De Arrùbiu” spicca la partecipazione di Enzo Avitabile con il quale hai inciso un brano per il suo ultimo disco “Lotto Infinito”…
L’incontro con Enzo risale a molti anni fa, forse venti o anche di più. Lavorando negli stessi ambiti ci siamo incontrati spesso per varie produzioni sia in Sardegna che fuori. Il suo ultimo album “Lotto Infinito” è un disco di incontri e durante le registrazioni mi ha chiesto di intervenire in un suo brano. Quando sono andata ad incidere la mia parte, gli ho detto che stavo lavorando anche io ad un disco e gli ho chiesto di restituirmi il favore e così è stato. Gli ho proposto due brani e lui ha scelto “De Arrùbiu” che sentiva a lui più vicina ed ha aggiunto la parte finale del testo. E’ una delle canzoni più forti del disco perché “arrùbiu” vuol dire rosso e rimanda al sangue, quello che ricopre le strade. E’ stata scritta ,sulla musica di Mauro Palmas (autore di buona parte delle musiche di Lantias), pensando ai morti che c’erano in Iraq, ma potrebbe rimandare anche alla situazione attuale della Siria o ad una delle capitali europee come Parigi o Londra. 
“De arrùbiu pintada est sa ‘ia”, “La strada è dipinta di rosso” è un’immagine drammatica ed Enzo alla fine ha aggiunto “a su male su remediu”, “c’è un rimedio per ogni male”, che è un segno di speranza…

E’ la stessa speranza di cui è intrisa la traccia che da il titolo al disco “Làntias”, una invocazione a Santi Efisio, Giocondo e Isidoro…
Sono santi legati fortemente alla Sardegna ed in particolare Sant’Isidoro è il patrono della campagna e dei contadini e rimanda ad una festa molto importante. “Lantìas” come “Nora” rimanda a questa atmosfera di festa, ma è una preghiera laica, come lo è “Torrandi”, il brano che chiude il disco ed è una richiesta di perdono ai nostri padri per quello che stiamo facendo alla Terra, intesa sia come mondo che come umanità. 

“Cantendi a Deus” rivolgeva la sua attenzione al repertorio religioso. Quanto è importante per te questo contatto e questa dicotomia tra preghiera laica e l’aspetto liturgico, spirituale?
Non ero e non sono in crisi mistica, né sono una praticante, ma assolutamente rispettosa di tutte le religioni.  Amo moltissimo la musica sacra perché è musicalmente ricchissima e perché ritengo che in questo momento ci sia una grande necessità di spiritualità tra noi.  Stiamo vivendo momenti di odio e di violenza fortissima in qualsiasi campo, i social network istigano all’intolleranza e non riusciamo a fare niente per tornare indietro. Sento l’esigenza di dare qualcosa in più al pubblico. La musica popolare è molto affascinante e bella, e se ti fa pensare lo è ancor di più. Mi fa molto piacere quando, al termine di un concerto sacro, la gente mi ringrazia e mi rivela di essersi commossa. Non c’è bisogno di essere credenti per avere una spiritualità.

In “Làntias” compare anche il maestro Luigi Lai alle launeddas…
E’ stata una delle tante magie di questo disco. Inizialmente non era prevista la sua presenza, poi ad un certo punto in studio parlando con Michele ci siamo detti che questo era il brano perfetto per Luigi Lai. Lui, l’ho dichiarato mille volte, è un monumento non solo della musica sarda ma di quella mondiale, perché ha lasciato un segno profondo e quel brano necessitava delle sue launeddas. 
Quando è arrivato in studio ha ascoltato un paio di volte la traccia, si è messo le cuffie e ha inciso la sua parte una prima volta e alla seconda take, il brano era completo. Io ho quasi piano per la meraviglia. Era giusto che in un disco così importante ci fosse anche lui. Io e Luigi lavoriamo insieme da quarant’ani e tra gli anni Settanta e Ottanta ci siamo incontrati sui palchi della Sardegna centinaia di volte, così come in tutto il mondo dall’Argentina agli Stati Uniti, dall’Australia all’Europa, ma non avevamo mai registrato insieme e questo mi è sembrato il momento opportuno per farlo.

Tra i brani più intensi del disco c’è “Cantu Luxis”…
In un’opera lirica, c’è l’interrogativo se nasca prima la musica o le parole. In quasi tutti i nostri brani viene prima la musica e poi Gabriela lavora sui testi. In questo caso la musica è firmata da Marcello Peghin. Ci abbiamo lavorato e io ho fatto le mie variazioni. Il brano è anche per me uno dei più belli, ma non voglio fare graduatorie perché i figli sono tutti uguali. Gabriela poi si è espressa in modo incredibile nel testo. Noi dovremmo vergognarci per quello che succede nel nostro mare. In Italia come in Sardegna o in Sicilia continuano gli sbarchi e noi ci facciamo il bagno senza sapere cosa sta galleggiano sotto di noi. Quando guardiamo queste persone che arrivano da noi, lo facciamo come se tutto questo succedesse sulla luna e non ci riguardasse più di tante. Poi senti, leggi e vedi le polemiche della gente, l’intolleranza. Io non dico che quello che sta accadendo non crei dei problemi, ma al contrario capisco come il mondo spinga da sotto, proprio come spingevamo noi quando siamo emigrati negli Stati Uniti o in Germania. La gente va dove pensa di stare un po’ meglio e noi guardiamo come spettatori. Ci siamo seduti e guardiamo. Recentemente facevo una riflessione su come negli anni Ottanta e Novanta ci fossero moltissimi festival che avevano nel loro nome la parola Mediterraneo. 
C’era sempre di mezzo questa parola, era come se fosse di moda ma rimandava in qualche modo alla festa e pensavi alla musica maghrebina, al flamenco, al rebetiko. Oggi, questa parola è scomparsa dai festival e quando dici Mediterraneo e pensi ai morti che galleggiano. E’ un’immagine molto forte ma è come se questa parola facesse paura, come se la volessimo cancellare. In “Cantu Luxis” c’è tutto questo. Noi vogliamo far finta di non vedere, di non sentire, perché lì dentro tutto si confonde con le onde.

“Beni” racconta la storia di una donna che cerca la figlia scomparsa…
“Beni” è ispirata al canto delle donne che lavoravano il torrone a Tonara, e che viene eseguito in una fase precisa della lavorazione perché ha un ritmo particolare. In verità, avremmo voluto scrivere questa cosa anche nel booklet ma quando ci abbiamo pensato, il disco era già in stampa. Con Simonetta Soro, fantastica cantante e grande amica presente in tutto l’album, l’abbiamo ripreso e magari in questa versione non gli somiglia nemmeno più esattamente, ma rimanda a quel canto ben preciso. Il brano è un crescendo incredibile di ritmi e vibrazioni grazie al bellissimo arrangiamento ritmico e ai suoni di Andrea Ruggeri. Avevo chiesto a Gabriela di scrivere un testo sul tema del femminicidio e lei ha immaginato di questa mamma che perde la ragione perché il suo dolore è molto forte per la perdita della figlia, il cui unico problema era la sua bellezza. Il brano si sviluppa da due punti di vista narrativi. Il primo è quello della mamma che aspetta che sua figlia rientri e ferma tutte le ragazze che, in qualche modo le somiglino, per raccontare loro la storia della sua grande perdita. 
Poi si chiede il perché Dio non distribuisca equamente sia la malvagità che la bontà. L’altro punto di vista è quello della figlia stessa che va in sogno alla madre e le dice di prepararsi perché sta tornando. Il finale è bello perché la madre le dice: chissà quante risate ci faremo insieme, quando ci incontreremo. La tragedia è doppia in questa canzone, perché il brano parla di un femminicidio, anche se noi non lo dichiariamo apertamente.  Noi vogliamo raccontare il presente e non ci vogliamo arrendere mai, perché una speranza c’è sempre. Anche la copertina vuole dare quel senso. Le luci che seguiamo sono solo di speranza. Noi siamo convinti che alla fine del cammino c’è un’apertura, noi dobbiamo assolutamente crederci.

Di abbandono si parla in “Ojos azules”…
E’ un brano tradizionale andino che hanno cantato un po’ tutti, e a me piaceva molto l’arrangiamento che abbiamo realizzato per uno spettacolo sull’emigrazione che facemmo per Italiani in Sudamerica, così abbiamo deciso di inserirla nel disco. Stesse sensazioni per “Serenada”, un brano meraviglioso di Antonio Placer, grande compositore galiziano e mio caro amico, che ho cantato sempre con enorme piacere.

“Ses Andau” nasce da una musica firmata da Silvano Lobina…
“Ses Andau” riprende il tema della guerra. E’ la storia di un amore che muore nel senso letterale del termine perché i protagonisti del brano: due giovani, restano vittime di un attentato. C’è la ragazza che dice “sesa andau/ e ita arrogu est abarrau a mei/de cuddu mundu chi fias/imoi a mei”, “sei andato e ora quale pezzo rimane di quel mondo che eri?”. 
E’ stato uno dei brani più difficili per me da cantare perché il tema era veramente pesante e non avevo intenzione di andare sopra le righe per renderlo più drammatico di quanto non fosse. Spero di esserci riuscita anche per rendere giustizia al testo ed alla musica.

“Ca sa terra est tunda” è una filastrocca…
Ha un ritmo zoppo, un tempo dispari trascinante. Anche questo brano è di Mauro Palmas, lui una ne pensa e cento ne fa. Gabriela ha scritto il testo che sembra una filastrocca per bambini ma che racchiude una riflessione profonda sulla consapevolezza del passaggio dell’uomo sulla terra. E’ bellissimo quando dice “ca sa terra est tunda no tenit nexit”, “la terra è tonda e non ha colpa”.

Nel disco spicca la partecipazione di Gabriele Mirabassi con il quale hai lavorato spesso…
Gabriele suona in “Làntias”, “Serenata” e “Cantus Luxis”, dove ha fatto uno dei soli più strazianti di tutto il disco nel quale lavora per sottrazione. Io e Gabriele ci conosciamo da molto tempo e insieme ci siamo ritrovati spesso sullo stesso palco oltre ad incidere “A volte ritornano” di Mauro Palmas. Quando capita l’occasione di esibirci insieme è uno dei piaceri più grandi che ho. Lui insieme a Luigi Lai è uno dei miei musicisti preferiti in assoluto. Non sempre si chiama una persona a suonare in un disco perché è un amico, ma quando si pensa che è il momento giusto. 

Hai già avuto modo di suonare dal vivo i brani di “Làntias”?
Il disco è quasi totalmente inedito dal vivo, perché l’unico brano che abbiamo già suonato è “Torrandi” che chiude il disco. 
All’inizio i brani dell’album erano quindici ma tre li abbiamo eliminati per strada, non perché non ci convincessero ma perché ci sembrava giusto così. Mi sembra che il disco così scorra meglio. Li faremo forse dal vivo oppure andranno in qualche altro progetto, ma vedremo in seguito. Sono contenta che le persone che hanno ascoltato il disco abbiano lo abbiano apprezzato perché tratta temi non semplici ma che abbiamo cercato di rendere lievi, senza esasperare la loro drammaticità. 

Guardando in retrospettiva, quali sono le identità e le differenze tra “Làntias” e i dischi precedenti?
Nella mia carriera artistica ho fatto un percorso e non ho mai pensato di cambiare, né ho avuto l’esigenza di registrare un disco per cambiare il mio punto di vista musicale. Quando ho pubblicato “Cantendi a Deus” avrei potuto fare già allora “Làntias”. In quel momento avevo materiale per incidere tre dischi diversi e ho scelto di fare quello sacro perché erano passati trent’anni dal mio primo disco e volevo mettere un punto sul quel repertorio, registrando almeno una parte dei brani. Probabilmente la differenza tra “Incanti” e questo è che il mondo è cambiato. Sono passati venticinque anni da allora e non potrei registrarlo allo stesso modo. Negli anni Novanta eravamo diversi, era un altro mondo e avevo venticinque anni di meno. La realtà oggi è cambiata. Gli argomenti tra “Amargura” e questo non sono poi così differenti, quello che cambia è il modo in cui è stato realizzato. Tutte le cose, ma gli argomenti dieci anni fa già si somigliavano.

Concludendo, come si è evoluto il tuo approccio alla voce in questi anni…
Non lo so perché quando canto mi metto a disposizione di quel testo di quella musica. Ho certamente la mia personalità e il mio modo di cantare. Mi auguro che in ogni disco la mia voce sia migliore. “Amargura” è un disco cantato bene ma se lo incidessi oggi lo farei in modo differente, perché alcune cose le ho cantate già molte volte dal vivo. Nel mondo della musica succede il contrario fai prima il disco e poi lo spettacolo, quando dovrebbe essere esattamente il contrario. In verità il disco bisognerebbe farlo quando le canzoni sono state cantate già dal vivo, perché si trovano altre cose, perché vivono una loro vita. Solo in pochi casi c’è la magia della prima volta, ma con le canzoni è come per il vino, è meglio lasciarle decantare.



Elena Ledda – Làntias (S’ardmusic/JazzIn’Sardegna/Egea, 2018)
Il mondo della discografia moderna sembra aver dimenticato che un album è un’opera d’arte piuttosto che un prodotto commerciale studiato a tavolino in base alle tendenze delle mode e del marketing. Fortunatamente, però, esistono artisti che interpretano il registrare un disco come un atto d’amore, frutto di una profonda ispirazione, un atto creativo che necessita cura e dedizione. Un esempio ne è certamente Elena Ledda la quale, a fronte di una intensa attività concertistica, ha calibrato e meditato con cura ogni suo album, seguendo nella sua carriera un percorso rigoroso ed improntato ad allargare sempre di più il raggio delle sue ricerche sonore. Come ci ha riferito nell’intervista, ogni disco per lei rappresenta “un punto di arrivo” e così, “Làntias” che esce a sette anni di distanza da “Undas” nel 2010, ha preso vita a coronamento di una ulteriore tappa del suo mirabile cammino artistico che dalla tradizione sarda si è via via aperto alle musiche del mondo. Prodotto da Michele Palmas per S’Ardmusic e Egea, l’album raccoglie dodici brani, in larga parte originali le cui musiche sono state firmate da Mauro Palmas (liuto cantabile, mandola e mandolocello), Marcello Peghin (chitarra classica 10 corde, chitarra baritona e chitarra elettrica) e Silvano Lobina (basso e arrangiamenti), i quali con Andrea Ruggeri (batteria e percussioni) e Simonetta Soro (voce), compongono quello straordinario ensemble di musicisti che negli anni si è andato componendo al fianco di Elena Ledda accompagnandola tanto in studio quando sui palchi di tutto il mondo. Il risultato è un lavoro che cristallizza il suono di un gruppo nel quale gli eleganti arrangiamenti curati da Silvano Lobina danno vita ad una perfetta alchimia sonora con il meraviglioso timbro vocale di Elena Ledda. Ad impreziosire il tutto alcuni ospiti d’eccezione: Gabriele Mirabassi (clarinetto), Luigi Lai (launeddas), Enzo Avitabile (voce), Gigi Biolcati (kalimba) e Gianluca Pischedda (violoncello), e i testi in lingua sarda di Maria Gabriela Ledda  che affrontano con la forza evocativa della poesia tematiche di grande attualità come la tragedia dei migranti che attraversano il Mare Nostrum alla ricerca di un futuro migliore, le vittime innocenti della guerra come degli attentati terroristici, e la violenza sulle donne. Storie forti, insomma, che Elena Ledda interpreta con la partecipazione emotiva dell’urgenza del racconto e della necessità di donare all’ascoltatore piccoli lumi (“lentias”) di speranza. Ad aprire il disco è il solare incanto acustico di “Nora”, un ritratto di donna che traspare tra i suoni e i colori della festa, evocati dalla trama sonora intessuta dalle corde di Mauro Palmas e Marcello Peghin nella quale si inserisce il canto di Elena Ledda. Si prosegue con la rilettura in sardo di “Ninna Nanna In Re” di Bianca d’Aponte che colpisce tanto per l’intensità dell’interpretazione, quanto per l’arrangiamento in crescendo in cui spicca la partecipazione di Gigi Biolcati. Il toccante duetto con Enzo Avitabile in “De Arrùbiu”, firmata da Palma, apre uno spaccato sul tema della guerra, ma il vertice del disco arriva con la title-track, un canto devozionale laico, introdotto da un superbo solo di launeddas di Luigi Lai al quale si aggiunge il clarinetto di Mirabassi a dar vita ad un dialogo inatteso quanto affascinante. Ritroviamo il clarinetto del musicista perugino nella sofferta “Cantu Luxis” con la voce di Elena Ledda che ci regala uno degli episodi più commoventi di tutto l’album. “Béni”, cantata a due voci con Simonetta Soro, è ispirata nella ritmica al canto delle donne che lavoravano il torrone a Tonara e racconta la tragica storia di un feminicidio. L’appassionata rilettura del tradizionale andino “Ojos Azules” funge da perfetta introduzione alla struggente “Ses Andau” composta da Silvano Lobina e nella quale il violoncello di Gianluca Pischedda accompagna il racconto di due giovani rimasti vittime di un attentato. L’atmosfera gioiosa della trascinante filastrocca “Ca sa terra est tunda” ci guida verso il finale con quel gioiello di pura poesia che è “Arenas” e il canto d’amore “Serenada” dal repertorio del galiziano Antonio Placer. La conclusiva “Torrandi” è una accorata richiesta di perdono ai padri per aver tolto “onore, pace e dignità” alla terra e suggella uno dei dischi più poetici e toccanti di tutta la discografia di Elena Ledda. 



Salvatore Esposito

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