Melingo, Aula Magna Università La Sapienza, Roma, 25 novembre 2017

Quattordici ore di volo, una mezzora di taxi e sicuramente qualche chilometro a piedi, ecco il tempo minimo necessario per un abitante di Roma che volesse assaporare l’atmosfera dei bassifondi di Buenos Aires. Fortuna vuole però che l'Aula Magna dell’Università La Sapienza abbia ospitato proprio in questi giorni, sabato 25 novembre, il quintetto del clarinettista e chansonnier argentino Melingo. Qualcuno obietterà che lo stress del traffico romano in certe giornate fa rimpiangere un comodo viaggio transoceanico, ma questa è un’altra storia! Dal Black Friday al “black” ambasciatore del tango. Entra sul palco Daniel Melingo, completo nero, cappotto lungo e cappello a falde larghe calato asimmetricamente sugli occhi come il Jigen del famoso manga e anime giapponese “Lupin III”. Passo bizzarro quasi sulle punte e andamento ciondolante alla Chaplin, atteggiamento scanzonato, voce carismatica e oscura. Melingo non è solo un clarinettista cantante, ma un vero istrione che con l’esibita gestualità corporea esplicita le immagini contenute nei suoi brani. Lontano anni luce dal tango elegante e sontuoso da esportazione, il suo è un tango impeccabile, dalla connotazione sobria e minimalista. 
La parola d’ordine è teatralizzazione: il tango è messo in scena, come nella splendida “Sin Luna” e nella sua geniale versione di “En un bosque de la China” (1947) capolavoro dell’argentino Roberto Ratti (1899-1981) - nel quale Melingo imita addirittura con la voce gli spari della pistola – brano piuttosto contestato in Argentina all’epoca del generale J. D. Péron. Se l’occhio mantiene il focus solo sulla persona di Melingo, o addirittura se si oscura la visuale affidandosi esclusivamente all’udito, può sembrare veramente di trovarsi seduti in uno di quei locali fumosi della Buenos Aires più viscerale e autentica, musica da strada, proveniente direttamente dai caffé argentini o di Parigi. Se invece si allarga l’inquadratura, l’austera Aula Magna con i suoi marmi, l’affresco lucente e le sedute allineate possono produrre una sensazione di stonatura. Sarà forse per questo che gli applausi ci mettono un po’ a scaldarsi. Le iniziali “Sol tropical” - con i suoi esibiti ammiccamenti alla platea - e “A lo megata” ricevono un timido applauso. Il pubblico appare perplesso, in realtà sta studiando l’artista prima di decidere in quale modo accoglierlo. Melingo prova ad essere più incisivo, a scuotere gli astanti e il Sironi appena restaurato battendo potentemente il ritmo con il piede nella graffiante “Espiral”. 
È il momento di sfoderare i due assi: esegue prima la sua versione spagnola e intensamente torbida di “Intoxicated Man” (1962) di Serge Gainsbourg (1928-1991) e poi la perla struggente Anda, title track del suo ultimo disco (brano della moglie Maria Celeste Torre). L’applauso diviene potente e convito, Melingo può finalmente esprimersi al meglio della sua personalità davanti al pubblico romana in una successione di brani, senza remore e anche senza una scarpa e un calzino (“Angurrienta”). Qualche purista avrà da ridire sull’artista, sul suo essere personaggio sul palcoscenico, ma in tutto questo non va dimenticata la musica. Quella fra i quattro musicisti che accompagnano Melingo, è perfetta sintonia. Il bandoneón di Facundo Torres sembra volersi atteggiare a protagonista (“Quiero ver/cómo se abre tu corazón/al latir/del viejo bandoneón”, si interroga in “Espiral”) ma sa bene che senza il sostegno del fenomenale contrabbasso di Romain Lecurier e della chitarra di Muhammad Habbibi Guerra risulterebbe depotenziato se non addirittura svuotato. Al pianoforte di Lalo Zanelli il compito di ricamare e abbellire l’abito sonoro. Il loro valore si palesa ancor di più nella cover di “Gnossienne” eseguita mentre restano soli sul palco. 
Non è sicuramente casuale la scelta di un brano del francese Erik Satie (1866-1925), personalità fra le più curiose e bizzarre del panorama musicale del XX secolo, verso il quale il clarinettista argentino avverte una qualche affinità artistica. Anche il bis è in assoluta armonia con il resto del concerto. Melingo rientra in scena fingendo che il microfono sia rotto, offeso getta il cappello in terra cantando poi con assoluta naturalezza senza amplificazione. Si tratta ovviamente soltanto di un simpatico siparietto quindi tutto ritorna regolare e Melingo può indicare uno ad uno i suoi musicisti con evidente stima e riconoscenza, mentre a turno si esibiscono in piccoli assoli di congedo. Pubblico conquistato, applauso convinto, l’illusionista del tango saluta con l’inchino e il cappello sul cuore. Adiós! 


Guido De Rosa

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