Filippo Daccò, alla Musica è indispensabile dedicare la vita

A distanza di circa quattro decenni, il ricordo è toccante. Ampliando il seminato dei miei studi etnomusicologici e di musica “glocale”, lontano dai luoghi comuni e dalla scarna biografia ufficiale, a dieci anni dalla scomparsa, desidero rendere personale omaggio a Filippo Daccò, Maestro che riuscì a formare una schiera di chitarristi, molti dei quali operano tuttora come turnisti o concertisti nell’ambito della musica jazz e pop.  Avendo avuto l’onore di essere stato suo allievo, mi è gradito lasciare qualche traccia scritta della sua “humanitas”, come uomo e artista, auspicando che presto vengano organizzati degni eventi e pubblicazioni in sua memoria. 

Un Maestro che non si dimentica
Quando lo conobbi, aveva di recente pubblicato il libro “Patterns armonici e melodici per il chitarrista moderno”, nel quale impiegava una metodologia poco nota in Italia, ma tipica delle scuole musicali jazz americane. “Pattern” è un modello, un’indicazione riferita alla costruzione armonica degli accordi, correlati all’area di sviluppo della melodia, indispensabile per “garantire all’esecutore un sicuro punto di riferimento quando si trova a improvvisare sull’accordo”.  Nella sua accezione più ampia, il concetto d’improvvisazione (e non solo nella musica jazz) è vasto, per sviscerare la complessità sono necessarie competenze di armonia funzionale e di composizione, le cui basi Filippo Daccò insegnava agli allievi nell’arco di circa tre anni. Tempi brevi se rapportati a quelli dei conservatori e tenendo conto dei risultati soddisfacenti che riusciva a ottenere. Seppi dei suoi insegnamenti dal chitarrista Pino Santapaga, conosciuto durante una vacanza estiva nel Gargano. Mi parlò del suo maestro, propugnatore di un metodo d’insegnamento unico in Italia. Nello stesso periodo conobbi il produttore Sergio Bardotti, che me ne parlò con toni entusiastici. Già da alcuni anni, Daccò era docente a Parma ma, proprio quell’anno, istituì un corso di chitarra jazz presso il CDM di Milano, grazie al benemerito direttore, Maestro Giovanni Verga. Quando mi misi in contatto con la Scuola di musica, il corso era iniziato da alcune settimane.  Il Direttore suggerì di sottopormi a un test d’ingresso e fissò un appuntamento mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, che duravano (minimo) dalle otto alle undici di sera. Daccò mi accolse tiepidamente.  
Mi consigliò di proseguire gli studi sulla chitarra classica e di “non stare a spendere soldi inutilmente”, visto che il corso era piuttosto oneroso ed era previsto l’apprendimento di una diversa tecnica esecutiva (quella a plettro).  Spiegai che era mio obiettivo allargare le conoscenze in ambito chitarristico. A bruciapelo m’interrogò sulle note di un particolare accordo di settima. Poi mi pose domande sui rivolti degli accordi di nona e di tredicesima, mi chiese di caratterizzare in termini di gradi e note un accordo semidiminuito.  Comprese la mia preparazione e, tranchant, disse: «Abbiamo iniziato il corso da alcune settimane. Prova a seguire due lezioni gratuitamente, poi ti risentirò e vedremo che cosa fare». Daccò era considerato un “burbero benefico”(citazione da Goldoni). Dietro alle apparenze, ai modi talvolta bruschi, al linguaggio diretto, nascondeva un gran cuore, tipico di chi ha imparato ad amare la musica in profondità, dedicandole l’intera esistenza, insegnando con passione e generosità i segreti del mestiere agli allievi. Era uomo di elevata onestà intellettuale. In ambito chitarristico era considerato il numero uno. Come docente era rigoroso ed esigente. Non sopportava i perditempo, gli sbruffoni, gli aristocratici senza arte e soprattutto (quelli che nel privato definiva) i “parac…”, che cercavano visibilità senza avere meriti.  Le sue lezioni erano un concentrato di sapere teorico e tecnico, ma sapeva spezzare i momenti di studio intenso con efficaci battute (a volte salaci). Durante le spiegazioni, il cervello si surriscaldava, ma il tempo passava sempre velocemente, perché il Maestro era calamitico, riusciva a coinvolgere nell’ascolto, richiedendo continue applicazioni pratiche dei concetti teorici acquisiti. L’aula del CDM era stata ricavata nello scantinato di un palazzo di via Muratori. Al centro la cattedra, davanti pochi banchi. La lavagna era costituita da un grande blocco cartaceo, sopra al quale il Maestro scriveva gli esempi musicali usando pennarelli di vario colore. Spesso si sedeva al piano, per far ascoltare i passaggi armonici spiegati.  A distanza di circa quarant’anni, conservo con cura il quaderno degli esercizi musicali, zeppo di scale, accordi, sostituzioni, temi musicali, esercizi vari di armonia. Al termine delle lezioni, era solito schematizzare con specchietti riassuntivi gli argomenti affrontati.  Insisteva molto sul concetto di memorizzazione (fotografia mentale) degli accordi sulla tastiera nelle diverse posizioni. «Queste posizioni non solo dovete memorizzarle - ci diceva - ma dovete imparare a usarle anche nella struttura incompleta, poiché vi torneranno molto utili quando dovrete suonare in gruppo, ad esempio, con bassista e pianista. Dove possibile è bene evitare i raddoppi e per far questo bisogna studiare e capire (…), molti suonano perché leggono, altri perché ripetono meccanicamente i patterns, ma voi dovete sforzarvi di salire nei gradini superiori, dove è necessario capire i nessi delle concatenazioni armoniche»
Possedeva un metodo didattico infallibile, spesso ci invitava a riflettere sulle analogie tra le armonie chitarristiche e quelle delle “brass section” nelle orchestrazioni. Le citazioni ai grandi del jazz erano numerose. Con entusiasmo ci invitava a porgere attenzione alla raffinatezza compositiva dei musicisti “cool” o dei pianisti come Bill Evans. Avendo avuto una prolungata esperienza come esecutore, spesso riferiva delle proprie avventure professionali e delle numerose “jam session” con amici e conoscenti dell’ambiente jazzistico nazionale e internazionale. Come docente chiedeva di essere seguito con fiducia, applicando con rigore gli insegnamenti ricevuti, ma non era sua intenzione formare allievi “seriali”. Sollecitava a essere personali e a ricercare un proprio stile: «Io fornisco i “mezzi” - diceva - poi la creatività e la fantasia dovete tirarla fuori voi. Studiando con metodo s’impara, ma ricordate che la ricerca è infinità (…). Il metodo aiuta, ma a certi livelli professionali le scorciatoie non esistono (…), alla Musica è indispensabile dedicare la vita».  

Cenni biografici e l’opera didattica
Daccò conosceva bene la preparazione musicale impartita nei conservatori. Come docente, sapeva di essere avanti con i tempi, ma non gli venne garantita neppure una cattedra di “chitarra jazz” presso istituzioni pubbliche, allora completamente riservate ai musicisti specializzati nel repertorio “classico”. In merito, elogiava l’esperienza dell’amico Giorgio Gaslini, che era riuscito a far entrare la musica afro-americana all’interno del Conservatorio di Milano.  Tornando indietro negli anni, è bene ricordare che, da giovane, Filippo Daccò si diplomò a pieni voti in trombone, poi ebbe delle complicazioni respiratorie che lo obbligarono ad abbandonare lo strumento. Studiò armonia, composizione e direzione di banda. Fu allievo di Bruno Maderna. Conosceva in modo approfondito il manuale di armonia di Arnold Schönberg, gli piaceva analizzare le partiture dei compositori classici. Aveva un’idea unitaria della musica, ma le maggiori attenzioni erano rivolte al jazz, al quale si era avvicinato come musicista anche per esigenze di lavoro. Dopo aver abbandonato il trombone, passò a studiare il pianoforte (per usi compositivi) e la chitarra. Di bravi pianisti ce n’erano tanti, mentre i bravi chitarristi a plettro, in quegli anni, erano perle rare, assai richiesti per l’esecuzione della musica leggera. 
Progressivamente approfondì gli studi della scuola jazzistica americana e comprese l’importanza dell’armonia funzionale in ambito didattico.  A differenza di quei musicisti che si accontentavano della routine professionale, Daccò continuò ad analizzare l’interconnessione tra la pratica strumentale e la composizione, in funzione dell’arrangiamento e dell’improvvisazione. Di recente, ho parlato con il Maestro Silvano Palma (fisarmonicista), il quale ci ha riferito: «Felice era un genio, aveva capacità uniche che sono tipiche delle menti musicali superiori, le quali mentre stanno eseguendo o componendo qualcosa hanno già in mente una nuova idea su che cosa suonare o comporre. Era un uomo con una preparazione solidissima, sempre proiettato in avanti ed era musicalmente molto apprezzato da tutti gli orchestrali (...)»
Rispetto alla carriera professionale (che meriterebbe specifica trattazione), pare doveroso citare qualche pillola della biografia ufficiale, ripresa da quanto brevemente sintetizzato in un testo didattico dalla figlia Roberta. Tra gli anni Sessanta e Ottanta, Daccò lavorò con importanti orchestre di musica leggera e jazz (Mantelle, Kramer, Serio, Cameroni), parallelamente incidendo musiche e assoli per dischi di Quincy Jones, Astor Piazzola, Gerry Mulligan, Mina, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Barbara Streisand, Sarah Vaughan e di tanti altri musicisti. Partecipò per oltre quindici anni al Festival di Sanremo, suonando anche nelle Orchestre del Cant’Europa, Cantagiro, del Festival di Venezia e di Castrocaro, dirigendo, inoltre, diverse big band (Basso, Cerri, Donadio, Boneschi, Valdambrini, Pezzotta). Davanti agli studenti, ogni tanto Daccò scherzava sulla sua salute. Qualche anno prima aveva avuto seri problemi, che lo obbligarono a modificare i precedenti stili di vita e ad abbandonare l’attività concertistica, che richiedeva continui spostamenti da una città all’altra. Ricordo anche di una complicazione “tendinea” a una mano. Per questa ragione, quando lo conobbi, preferiva suonare il piano, lasciando l’esecuzione della chitarra agli allievi. Una volta confidò che scrisse la base del libro dei “Patterns” durante la degenza ospedaliera, non avendo con sé alcuno strumento musicale. Possedeva l’orecchio assoluto e un orecchio “interiore” armonico straordinario: «Una volta fuori pericolo -  raccontò - i medici mi dissero che dovevo stare sotto osservazione. Volevo andarmene (…), era una noia dipendere dai ritmi ospedalieri, tra misurazioni varie, pastiglie e cibi insipidi da mangiare (…), per il resto passavi ore senza far niente. Mi dicevano che dovevo riposare, ma con le mani ferme non riuscivo a stare, per cui presi dei fogli pentagrammati e scrissi gli esercizi». Il libro venne suddiviso in più sezioni: Brevi nozioni di teoria e armonia indispensabili per la realizzazione degli esercizi; esercizi con patterns da comporre; realizzazioni (a più parti); esercizi di lettura per lo studio separato delle posizioni; quattro brani di studio. 
Nel jazz, sin dalle prime lezioni, la teoria viene applicata alla pratica e lo studente viene subito invitato a “comporre” in modo estemporaneo. Naturalmente durante l’improvvisazione non si suona a casaccio, per capire come muoversi melodicamente è indispensabile l’approfondimento degli elementi armonici e compositivi dei singoli brani. Daccò seguiva questo metodo d’insegnamento, parallelamente sviluppando anche la tecnica della mano destra, con il plettro, grazie alla quale, con adeguato esercizio, si riescono a raggiungere virtuosismi spettacolari. All’uscita dalle lezioni serali, gentilmente, il Maestro mi offriva un passaggio in macchina fino alla metropolitana. Quei venti minuti di tragitto in sua compagnia dentro la Fiat “126”, li ricorderò sempre come un prolungamento delle ore di lezione. C’era sempre da imparare anche sul piano umano. Daccò era un milanese di altri tempi che, al bisogno, usava nella comunicazione termini dialettali. Parlava con toni familiari. Per chi sapeva superare le apparenze, non era difficile comprendere quanto fossero concrete la sua bontà d’animo e la generosità. Per gli studenti era come un padre, amava parlare con franchezza, non usava mezzi termini o giri di parole. Era concreto, andava subito al punto. Inoltre, era curioso, gli piaceva aggiornarsi. Domandava e voleva sapere dei gusti musicali dei giovani, talvolta commentandoli in modo sprezzante.  Si appassionava a numerosi argomenti. Lo ricordo come un “beethoveniano”, tempestoso di carattere. In pochi attimi era capace di passare da atteggiamenti controllati ad altri esplosivi.  Non gli piaceva il ruolo del maestro da piedistallo (stile conservatori e accademie di una volta) e apprezzava il confronto diretto. Diversi allievi, benché molto più giovani, gli davano del tu. Qualcuno lo chiamava Felice, che era una sorta di soprannome usato dai conoscenti più stretti.  Io gli diedi sempre, rigorosamente, del lei, e penso apprezzasse questo approccio rispettoso nei suoi confronti. Un giorno, in auto, mi fece la richiesta di studiare con la chitarra classica un suo brano. La settimana dopo glielo suonai. Mi chiese di ripetere più volte uno stesso passaggio, perché gli piaceva la timbrica dello strumento e apprezzava l’esecuzione nella quale i bassi, in contrappunto, venivano tenuti secondo corretta durata, come da lui scritto sulla carta, cosa che spesso non avveniva nelle esecuzioni frettolose eseguite con il plettro. Gli piacevano i giri armonici della musica barocca, intorno ai quali commentava: «… aggiungete le settime, le none e le tredicesime e troverete dei tipici giri armonici del jazz, e ricordate che questi “marziani” del passato (così definiva i vari Bach, Mozart, Beethoven) avevano sperimentato già quasi tutto (…), per questa ragione vanno studiati con molta attenzione»
Era un abile osservatore e un instancabile ricercatore. Un giorno gli portai un testo introvabile in Italia: Patricio Galindo, “Tratado de Armonia adaptado a la guitarra”.  Con gratitudine, avrei voluto regalarglielo, ma non volle, perché a lui piaceva soprattutto donare agli altri. I mesi di lezione passarono velocemente e mi resi conto che, grazie ai suoi insegnamenti, i progressi erano copiosi. Ero riconoscente, tuttavia rimasi di stucco quando una sera, in auto, disse (sintetizzo) che mi sarei dovuto iscrivere in università e laurearmi in fretta, per ottenere un titolo di studio che, nella vita, mi sarebbe potuto servire. Inoltre, mi consigliò di seguire gli studi di direzione di coro con Bernardino Streito e Mino Bordignon, che stimava professionalmente avendolo conosciuto come direttore, quando lavorava in ambito discografico per la “La Voce del Padrone”. Seguii i suoi suggerimenti, peraltro in sintonia con quelli di mio padre Giuseppe, il quale premeva affinché trovassi del tempo da dedicare alle musiche popolari correlate alle sue ricerche linguistiche.  Oltre agli studi universitari, riuscii a seguire l’Accademia del Piccolo Teatro, in una sezione coordinata da Sandra Mantovani, moglie di Roberto Leydi. In pochi anni, mi ritrovai a lavorare a Roma, per conto del Ministero dei Beni Culturali. Dalla capitale, il 14 marzo, regolarmente chiamai il Maestro per gli auguri di buon compleanno. I suoi toni erano euforici, perché nel frattempo erano aumentati gli allievi dei corsi didattici, ormai seguiti non più solo dai chitarristi. In seguito, andai a lavorare in televisione e, progressivamente, i rapporti con il Maestro si affievolirono. La prima pubblicazione degli “Studi didattici per chitarra jazz” è del 1986. Nel 2010, a cura dell’allievo Manuel Consigli, vennero ripubblicati in versione “riveduta e ampliata su progetto dell’Autore”. Si tratta di un testo che contiene sconfinata saggezza musicale (soprattutto armonica), che va saputo “leggere” e analizzare con idonea applicazione. L’opera testimonia il valore dell’uomo e lo spessore musicale del docente e dell’artista. Venni a sapere del suo decesso (dicembre 2007) con spaventoso ritardo. Sentite furono le parole scritte in sua memoria dagli allievi Gianni Cameroni, Manuel Consigli, Andrea Molena e Donato Begotti. 

In memoriam
Filippo caro, a distanza di circa quattro decenni, il ricordo è toccante. Conservando rispetto e gratitudine, è mio desiderio ringraziarti umanamente per gli insegnamenti (“magnum opus”)  che sapesti sapientemente offrire a una schiera di musicisti di varia estrazione. Nel ricordo, resterai sempre uomo dal cuore grande e  musicista che merita “memoria maxima”. Della chitarra jazz, sei stato “Magister Magistrorum”: sulle tue “spalle da gigante”, con grande beneficio, potranno poggiare anche le future generazioni. Per la tua valorizzazione molto è ancora da fare, da cui l’auspicio che le Istituzioni musicali e i tuoi allievi operino per darti adeguato rilievo, in riconoscenza per l’indelebile segno che hai saputo donare alla Musica: chapeau! 


Paolo Mercurio

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