
Un Maestro che non si dimentica
Quando lo conobbi, aveva di recente pubblicato il libro “Patterns armonici e melodici per il chitarrista moderno”, nel quale impiegava una metodologia poco nota in Italia, ma tipica delle scuole musicali jazz americane. “Pattern” è un modello, un’indicazione riferita alla costruzione armonica degli accordi, correlati all’area di sviluppo della melodia, indispensabile per “garantire all’esecutore un sicuro punto di riferimento quando si trova a improvvisare sull’accordo”. Nella sua accezione più ampia, il concetto d’improvvisazione (e non solo nella musica jazz) è vasto, per sviscerare la complessità sono necessarie competenze di armonia funzionale e di composizione, le cui basi Filippo Daccò insegnava agli allievi nell’arco di circa tre anni. Tempi brevi se rapportati a quelli dei conservatori e tenendo conto dei risultati soddisfacenti che riusciva a ottenere. Seppi dei suoi insegnamenti dal chitarrista Pino Santapaga, conosciuto durante una vacanza estiva nel Gargano. Mi parlò del suo maestro, propugnatore di un metodo d’insegnamento unico in Italia. Nello stesso periodo conobbi il produttore Sergio Bardotti, che me ne parlò con toni entusiastici. Già da alcuni anni, Daccò era docente a Parma ma, proprio quell’anno, istituì un corso di chitarra jazz presso il CDM di Milano, grazie al benemerito direttore, Maestro Giovanni Verga. Quando mi misi in contatto con la Scuola di musica, il corso era iniziato da alcune settimane. Il Direttore suggerì di sottopormi a un test d’ingresso e fissò un appuntamento mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, che duravano (minimo) dalle otto alle undici di sera. Daccò mi accolse tiepidamente.


Cenni biografici e l’opera didattica
Daccò conosceva bene la preparazione musicale impartita nei conservatori. Come docente, sapeva di essere avanti con i tempi, ma non gli venne garantita neppure una cattedra di “chitarra jazz” presso istituzioni pubbliche, allora completamente riservate ai musicisti specializzati nel repertorio “classico”. In merito, elogiava l’esperienza dell’amico Giorgio Gaslini, che era riuscito a far entrare la musica afro-americana all’interno del Conservatorio di Milano. Tornando indietro negli anni, è bene ricordare che, da giovane, Filippo Daccò si diplomò a pieni voti in trombone, poi ebbe delle complicazioni respiratorie che lo obbligarono ad abbandonare lo strumento. Studiò armonia, composizione e direzione di banda. Fu allievo di Bruno Maderna. Conosceva in modo approfondito il manuale di armonia di Arnold Schönberg, gli piaceva analizzare le partiture dei compositori classici. Aveva un’idea unitaria della musica, ma le maggiori attenzioni erano rivolte al jazz, al quale si era avvicinato come musicista anche per esigenze di lavoro. Dopo aver abbandonato il trombone, passò a studiare il pianoforte (per usi compositivi) e la chitarra. Di bravi pianisti ce n’erano tanti, mentre i bravi chitarristi a plettro, in quegli anni, erano perle rare, assai richiesti per l’esecuzione della musica leggera.

Rispetto alla carriera professionale (che meriterebbe specifica trattazione), pare doveroso citare qualche pillola della biografia ufficiale, ripresa da quanto brevemente sintetizzato in un testo didattico dalla figlia Roberta. Tra gli anni Sessanta e Ottanta, Daccò lavorò con importanti orchestre di musica leggera e jazz (Mantelle, Kramer, Serio, Cameroni), parallelamente incidendo musiche e assoli per dischi di Quincy Jones, Astor Piazzola, Gerry Mulligan, Mina, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Barbara Streisand, Sarah Vaughan e di tanti altri musicisti. Partecipò per oltre quindici anni al Festival di Sanremo, suonando anche nelle Orchestre del Cant’Europa, Cantagiro, del Festival di Venezia e di Castrocaro, dirigendo, inoltre, diverse big band (Basso, Cerri, Donadio, Boneschi, Valdambrini, Pezzotta). Davanti agli studenti, ogni tanto Daccò scherzava sulla sua salute. Qualche anno prima aveva avuto seri problemi, che lo obbligarono a modificare i precedenti stili di vita e ad abbandonare l’attività concertistica, che richiedeva continui spostamenti da una città all’altra. Ricordo anche di una complicazione “tendinea” a una mano. Per questa ragione, quando lo conobbi, preferiva suonare il piano, lasciando l’esecuzione della chitarra agli allievi. Una volta confidò che scrisse la base del libro dei “Patterns” durante la degenza ospedaliera, non avendo con sé alcuno strumento musicale. Possedeva l’orecchio assoluto e un orecchio “interiore” armonico straordinario: «Una volta fuori pericolo - raccontò - i medici mi dissero che dovevo stare sotto osservazione. Volevo andarmene (…), era una noia dipendere dai ritmi ospedalieri, tra misurazioni varie, pastiglie e cibi insipidi da mangiare (…), per il resto passavi ore senza far niente. Mi dicevano che dovevo riposare, ma con le mani ferme non riuscivo a stare, per cui presi dei fogli pentagrammati e scrissi gli esercizi». Il libro venne suddiviso in più sezioni: Brevi nozioni di teoria e armonia indispensabili per la realizzazione degli esercizi; esercizi con patterns da comporre; realizzazioni (a più parti); esercizi di lettura per lo studio separato delle posizioni; quattro brani di studio.


In memoriam
Filippo caro, a distanza di circa quattro decenni, il ricordo è toccante. Conservando rispetto e gratitudine, è mio desiderio ringraziarti umanamente per gli insegnamenti (“magnum opus”) che sapesti sapientemente offrire a una schiera di musicisti di varia estrazione. Nel ricordo, resterai sempre uomo dal cuore grande e musicista che merita “memoria maxima”. Della chitarra jazz, sei stato “Magister Magistrorum”: sulle tue “spalle da gigante”, con grande beneficio, potranno poggiare anche le future generazioni. Per la tua valorizzazione molto è ancora da fare, da cui l’auspicio che le Istituzioni musicali e i tuoi allievi operino per darti adeguato rilievo, in riconoscenza per l’indelebile segno che hai saputo donare alla Musica: chapeau!
Paolo Mercurio