Chiara Civello – Eclipse (Sony Music, 2017)

Cantante dal timbro elegantissimo nonché autrice e strumentista di talento, Chiara Civello si è formata presso il prestigioso Berklee College of Music, e grazie all’incontro con il produttore Russ Titelman ha debuttato nel 2005 con “Last Quarter Moon”, pubblicato dalla Verve Records e nel quale spiccava la collaborazione con Burt Bacharach. Nel corso degli anni, il suo percorso artistico è stato costellato dagli incontri con artisti del calibro di Daniel Jobim, Ana Carolina, Mark Ribot, Jacques Morelenbaum, Pino Daniele, Gilberto Gil, ed Esperanza Splading, ma soprattutto da dischi di grande spessore come “The Space Between” del 2007 prodotto dal leggendario Steve Addabbo, “7752” inciso tra Rio de Janeiro, Roma e New York e il più recente “Canzoni” in cui ha reso omaggio alla canzone italiana. A distanza di tre anni da quest’ultimo, l’artista romana torna con “Eclipse”, nuovo album prodotto da Marc Collin dei Nouvelle Vague. L’abbiamo intervistata per farci raccontare la gestazione di questo nuovo lavoro, non senza soffermarci sugli incontri e le ispirazioni alla base dei nuovi brani.

Nel tuo precedente album “Canzoni” hai reso omaggio alla musica italiana rileggendone alcuni grandi classici in una elegante chiave jazz. Il tuo nuovo lavoro “Eclipse” rappresenta un po’ la prosecuzione di un cammino tracciato…
“Canzoni” è stato prodotto da Nicola Conte e il suo sound jazzy e soulful gli ha consentito di andare molto bene in Italia, tanto è vero che continua ad essere in classifica. Alla luce di questo successo è nata l’esigenza da parte mia di compiere un avvicinamento ulteriore e più intenso all’Italia, facendo un disco nel quale convivessero la mia voce da interprete e nel contempo alcuni brani miei composti con alcuni degli artisti che reputo essere un po’ i poeti di oggi. Si tratta di autori con una voce propria ed un messaggio originale e poetico che trascende quelli che sono i vincoli del mercato musicale italiano. Se non fosse per loro la nostra scena sarebbe molto povera e in crisi. Insomma, volevo scrivere cose nuove facendo sì che in questo disco ci fossero quante più collaborazioni italiane possibili.

Determinate per la realizzazione di “Eclipse” è stato l’incontro con Marc Collin, il produttore dei Nouvelle Vague…
Ci siamo conosciuti a Parigi a luglio del 2015 quando ho aperto il concerto di Gil e Caetano. Per fare in modo che queste serate parigine non fossero solo turistiche ma anche di esplorazione, da buona viaggiatrice da sempre alla ricerca di contatti, mi sono fatta dare il numero di Marc Collin. Ci siamo incontrati, siamo andati a pranzo insieme e in quell’occasione mi ha chiesto di fargli sentire qualcosa perché era molto curioso. Gli ho fatto ascoltare “Canzoni” e un paio di demo preparati con Garage Band sul mio computer, e subito mi ha detto che quei brani avevano il taglio dei classici essendo molto strutturati, tanto è vero che non riusciva a distinguere le cover dai brani originali. Così, mi ha proposto un approccio completamente diverso da quello che avevo fatto fino ad allora, ed in particolare la sua idea era quella di fare un disco dal sound moderno nel quale ci convivessero i synth e gli organi degli anni Settanta, le batterie elettroniche che rimandavano alla Grance Jones degli anni Ottanta e le atmosfere delle colonne sonore di Ennio Morricone, Luis Bacalov, Franco Micalizzi e Piero Piccioni. 
Non gliel'ho fatto ripetere due volte: sono partita per Parigi, ho preso una casa a Marais e ci siamo immersi nel mondo magico dei suoni di “Eclipse”. Il nostro incontro è stato anche quello di due persone con gli stessi idoli, infatti lui come me adora Julie London e questo si può percepire anche dai dischi dei Nouvelle Vague.

Come si è indirizzato il vostro lavoro dal punto di vista sonoro?
Questo incontro invece di allontanarmi dalla musica italiana, mi ha avvicinato ancor di più ad essa, ma in quella sua dimensione musicalmente ricca e non omologata al mercato pop. Se si ascoltano le colonne sonore di grandi artisti come Morricone si trova il jazz, il free jazz, il funk e la bossa nova che loro riuscivano a legare perfettamente alle immagini. Il sound del disco è, dunque, molto moderno ma strizza l’occhio a quel sincretismo musicale che ha reso indimenticabili le grandi colonne sonore dei compositori italiani. Durante le registrazioni mi sono resa conto che lui ha una traccia visuale delle canzoni, perché in ognuna di esse crea una vera e propria storia. Si vedono le luci, le ombre, e persino il drink che è sul tavolo dell’hotel di cui si canta in una canzone. In questo senso è significativa “New York City Boy”, una canzone da Calvados, da stanza di albergo in penombra con le luci soffuse e due che si incontrano per arginare le proprie angosce in un inverno brutto e gelido di New York, quella scritta con Bianconi. 

Quanto ti ha arricchito musicalmente questo incontro?
Mi ha proprio rivoluzionato l’anima nel senso che Marc Collin è riuscito a tirare fuori da me la narratrice e non solo la cantante che fa i dischi. Mi sono trovata in una situazione in cui non vedevo l’ora di cantare queste canzoni perché non stavo raccontando la mia versione dell’abbandono nell’amore ma una piccola favola in cui c’era un inizio, una fine, una luce, un gesto. 
Quando il vento soffia a favore tu lo senti perché le cose sembrano facilissime. Infatti, durante le registrazioni tra Brasile, Francia e Italia, mi sentivo leggera nel volare da una parte all’altra come in un teletrasporto. 

Come si è evoluto il tuo approccio vocale in questo disco?
Tony Bennett dice: “canta come parla”, e questa cosa credo sia molto importante. E’ sempre un po’ strano sentire una grande differenza tra la voce parlata e quella cantata e tutto ciò in questo disco non si avverte. Quando lo ascolto non mi chiedo mai il perché ho cantato un brano in un modo o non l’ho fatto in un altro. E’ come se avessi raggiunto ed annullato il confine tra l’anima e quello che canto, mi sono completamente immersa nell’infinito che è il cantare. E’ come se non esistesse più un pensiero. Lasciare andare le cose in modo naturale, sentirsi liberi di osare ed abbracciare scelte moderne, credo sia un aspetto della maturità. Nei testi c’è poi questo continuo mistero di cose dette e non dette, che ti lascia solo intravedere la canzone in sé. Le canzoni se sono troppo narrative perdono la loro potenza. Nelle grandi canzoni di Modugno c’è sempre qualcosa che veniva omesso di proposito…

Il disco è tutto giocato sui chiaroscuri…
Il titolo del disco rimanda a questo gioco di luci ed adombramenti. L’eclissi è l’incontro tra sole e l’una, tra ombra e luce, tra due emisferi opposti, proprio come il respirare. Non si può respirare ed inspirare nello stesso momento. Tuttavia c’è un punto di incontro tra le due cose ed è lì che risiede l’anima, è il punto di apnea prima del canto. Allo stesso modo la nostra vita è fatta di vuoti e di pieni, di momenti di gioia e di periodi bui, di interiorità ed esteriorità. In una stessa composizione coesistono queste due parti, ma non possono essere osservate contemporaneamente se non in momenti eccezionali. In “Eclipse” c’è qualcosa di più dark, di più oscuro rispetto ai dischi precedenti, qualcosa di meno definibile. 

Affinità e divergenze con i tuoi precedenti lavori…
Trovo che ci siano molte affinità con “Canzoni” soprattutto a livello sonoro. Questo sound avvolgente, profondo credo sia una sua diretta evoluzione. Cerco di non restare mai sulle stesse posizioni e per questo ho scelto un produttore distante dal mio approccio. Le divergenze più nette ci sono rispetto al disco pop che ho pubblicato per Sanremo. Quello fu un lavoro fatto velocemente, mentre qui ho ripreso la mia anima autorale, e l’ho arricchita con le conquiste fatte nel disco precedente. Mi sono lasciata andare alle scelte del produttore anche nell’approccio. Nei dischi del passato c’era Chiara con il quartetto o il quintetto in studio a lavorare su vari brani. In “Eclispe” si è aperta la mia parte più visionaria. Ogni volta che pubblico un disco vorrei che fosse speciale e rispecchiasse la mia evoluzione musicale, perciò c’è sempre una linea di demarcazione tra i vari album. Bisogna assumersi questa responsabilità nel bene e nel male. Del resto la vita non è fatta solo di successi ma anche di ombre.

I brani sono nati dall’incontro con vari artisti. Ce ne puoi parlare?
Credo che nelle collaborazioni sia necessario sempre incontrarsi con grande flessibilità. Nel momento in cui si contra qualcuno dal punto di vista artistico, l’ultima cosa da fare è restare ancorata ai propri ormeggi. Io cerco sempre di essere aperta e disponibile sin dal primo incontro, e questo perché di natura sono molto curiosa e mi appassiona molto sapere cosa propongono gli altri e come intendono partire. Sono stati tutti incontri molto speciali, a partire da quello con Diego Mancino con cui ho scritto “Come vanno le cose” e “Qualcuno come te”. In generale, devo dire che con ognuno di loro ho sentito una comunanza se non di scelte artistiche, ma quanto meno di intenti. Abbiamo trovato dei punti di incontro che sono diventati occasione di crescita reciproca. L’idea di sparigliare le carte trova sempre un messaggio che funzioni tanto nell’indie rock quanto nel jazz e nel pop. Insomma si è trattato di incontri che spostano più avanti il senso della musica.

Uno dei brani più intensi del disco, “New York City Boy” è nata dalla collaborazione con Francesco Bianconi…
Non ci conoscevamo, ci siamo incontrati a Milano e dopo un pranzo insieme, siamo andati nel suo studio. Gli ho raccontato che immaginavo di scrivere con lui una canzone notturna avvolta in questo mondo rarefatto dal punto di vista sonoro, un po’ oscuro e un po’ di velluto. Ci siamo detti quello che ci piaceva e ovviamente ci siamo ritrovati nella comune passione per le colonne sonore di Morricone. Per quello che mi riguarda io vado lì nel mondo della musica da cinema perché se noti la quantità di musiche che producevano per i fotogrammi ti rendi conto che è una miniera d’oro immensa. Io tendo sempre a partire dalla musica perché se funziona quella da sola il brano sta in piedi, se la melodia ti commuove e muove qualcosa vuol dire che la canzone ha ingranato. Anche in questo caso siamo partiti dalla musica e ha preso vita “New York City Boy”, poi con Kaballà abbiamo finalizzato il testo. Questo brano è un esempio di come la parola e la melodia possono essere due elementi di comunicazione, non uno solo che è la somma di due. 

“Cuore in tasca” è stata scritta a quattro mani con Dimartino…
Lavorare con lui è stato piacevolissimo perché è di una dolcezza e di un candore unico. E’ una persona incredibile. Io sono arrivata a casa sua e mi ha chiesto se avessi fame, così mi ha preparato un piatto di fusilli con zucchine e noci. Mentre aspettavamo di scolare la pasta, io ero seduta alla tastiera e abbiamo trovato la melodia. Poi ce ne siamo andati a passeggio in giro per la città ed è nato il testo. E’ stato davvero bellissimo.

Una genesi particolare l’ha avuta “To be wild” che hai scritto con Cristina Donà…
Diversamente dagli altri brani, “To be wild” è nata in modo speciale perché è il frutto di un lavoro totalmente epistolare. Nel senso che io e Cristina non ci siamo mai incontrate, abbiamo lavorato per telefono e via e.mail. Siamo partite da una sua idea di strofa e di testo e poi abbiamo sviluppato il contenuto di questa canzone. Mi piace molto la sua atmosfera jazzy e il testo che riflette un’idea molto moderna del concetto di non dipendenza. Io non voglio appartenere a niente ed a nessuno, voglio essere mia, voglio essere selvaggia. 

Ovviamente nel disco non poteva mancare il Brasile con “Sambarilove” e “Um Dia”
Sambarilove è l’ho scritta con Rubinho Jacobina che è un sambista incredibile nonché fondatore e membro dell’Orquestra Imperial. Lui vive a Parigi e l’ho chiamato per fare qualcosa di diverso insieme perché volevo un brano ritmato. Non è un samba e nemmeno una bossa nova ma una cosa un po’ strana ed ironica che riprende dal Brasile quello che amo di più ovvero questo ritmo contagioso e danzereccio. “Um Dia”, invece, è nata dalla collaborazione con Pedro Sa, anche lui membro dell’Orquestra Imperial. Il brano è già entrato in rotazione a Radio Montecarlo e il testo è molto divertente perché ruota intorno al mondo dei Gemelli in cui tutti sono ambivalenti. E’ una sorta di omaggio postmoderno a Sergio Mendes che Marc Collin ha arrangiato in modo tutto particolare. 

Come saranno i concerti in cui presenterai “Eclipse”?
Sto cominciando le prove per il live. Sarà un concerto molto speciale. Nel disco abbiamo usato pochi strumenti e questo ha fato sì che avessero una forte risonanza, come si faceva un tempo in analogico. Meno strumenti hai più il disco suona grande. Ho capito che tutto questo è importante anche nel live e non voglio sovraffollare il palco di musicisti, perché sono convinta che in tre abbiamo la possibilità di fare un grande concerto. 



Chiara Civello – Eclipse (Sony Music, 2017)
Le colonne sonore di Ennio Morricone come quelle di Piero Piccioni, Luis Bacalov e Franco Micalizzi hanno rappresentato la più alta e compiuta espressione di come la musica possa sposare indissolubilmente le immagini, amplificandone le suggestioni e la potenza evocativa. Chiara Civello nel suo nuovo disco “Eclipse” ha ripercorso i sentieri tracciati da questi straordinari compositori, e grazie alla complicità del produttore Marc Collin dei Nouvelle Vague, ha intrapreso un nuovo cammino di ricerca, volto a (ri)cercare una nuova dimensione sonora alla melodia in rapporto al testo. Laddove, infatti, una colonna sonora rappresenta un pilastro fondamentale della pellicola, allo stesso modo, in questo disco, il sound imprime ad ogni brano una dimensione visiva e cinematografica densa di lirismo. In questo senso determinante è stata la scelta del produttore di caratterizzare gli arrangiamenti in modo assolutamente originale, mescolando sonorità che spaziano dal jazz alla musica brasiliana fino a toccare la canzone italiana, il tutto dosando saggiamente strumenti moderni e vintage, analogico e digitale, ad avvolgere il timbro intenso della voce della cantante romana. Composto da dodici brani per lo più originali nati dalla collaborazione con alcuni amici ed ospiti d’eccezione, il disco è stato registrato tra Parigi, New York, Rio e Bari, e vede la partecipazione di uno straordinario cast di strumentisti composto da: Kevin Seddiki (chitarre), Cyrus Hordè (organi e tastiere), Mauro Refosco (percussioni), Gael Rakotondrabe (piano e wurlitzer), Laurent Vernerey (basso), Regis Ceccarelli (batteria), Domenico Lancellotti (batteria), Alfonso Deidda (flauto sassofono, organo e pianoforte), Thibaut Barbillon (chitarre), Alberto Continentino (basso, Moog), e Pedro Sà (chitarre). Ad aprire il disco è “Come vanno le cose”, una sinuosa bossa nova composta con Diego Mancino, ed impreziosita dal dialogo tra la chitarra di Seddiki e le percussioni di Refosco. Se la rilettura di “Eclisse Twist” di Michelangelo Antonioni e Giovanni Fusco si caratterizza per il suo brillante arrangiamento e la straordinaria prova vocale di Chiara Civello, la successiva “Cuore in tasca” arriva dritta dalla collaborazione con Dimartino regalandoci una delle pagine più belle del disco. La melodia in crescendo di “Qualcuno Come Te” ci introduce al solare sambalanço scritto insieme a Rubinho Jacobina e poi alla bella versione di “Parole Parole” ispirata all’interpretazione di Dalida. Dal film “Un italiano in america” arriva poi la versione per chitarra e voce di “Amore Amore Amore” di Piero Piccioni ed Alberto Sordi, mentre “La giusta distanza” è il risultato del lavoro a quattro mani con Diana Tejera. Si torna in Brasile con il ballabile “Um dia” co-firmata da Pedro Sa, ma è già tempo di volare nella grande Mela che nel freddo del suo inverno ci regala il vertice del disco con la notturna “New York City Boy” scritta con Francesco Bianconi e Kaballà. Completano l’album il jazz di “To Be Wild” nata dalla collaborazione con Cristina Donà e quel gioiello che è “Quello che conta” scritta da Ennio Morricone e Luciano Salce per il film “La Cuccagna” ed in origine interpretata da Luigi Tenco. “Eclipse” è, dunque, un disco senza tempo, un lavoro che si inserisce nella schiera dei classici non solo per il pregio musicale ed interpretativo, ma anche per la sua vitalissima verve ispirativa.



Salvatore Esposito

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