Renato Vecchio – Medwind (Effemme Records 2016)

Salentino di nascita, trapiantato a Roma da molto giovane, il fiatista Renato Vecchio (duduk, sax soprano e tenore, ciaramella, punji, flauti, mancusedda, chalumeau) si propone in un album dai colori caldi e comunicativi. Parliamo di un musicista di formazione classica (diplomato in sassofono al conservatorio Morlacchi di Perugia) e di lunga frequentazione jazz, pop, contemporanea e world (dalle Big band a Battista Lena, da Gianni  Coscia a Enrico Rava, da Mannarino a Franco Califano, solo per segnare alcune delle sue collaborazioni), che ha contribuito a comporre colonne sonore e sonorizzazioni per cinema, TV e teatro, mentre nel mondo folk e world ha partecipato a progetti discografici con Autura, Sidh, Ensemble Ethnique, Rumba de Mar e Ammaraciccappa. «Ciò che è vecchio muore, ciò che è antico si nutre del nuovo» dice Vecchio per raccontare un disco che considera, una sfida per la sua determinazione a far suonare strumenti come la ciaramella o il punji o ancora lo chalumeau in contesti diversi dall’usualità. Con “Medwind” Vecchio, se da un lato si affranca dal fraseggio jazz più classico, dall’altro non abbandona l’idea di un jazz che sia espressione dell’improvvisazione. Mi dice: «In questo disco ci sono lunghi momenti di improvvisazione: a parte l’esposizione tematica iniziale, lo sviluppo della ciaramella all’interno di ogni brano è di tipo improvvisativo, perché mi piace l’estemporaneità. Nel mio percorso jazz c’è lo studio e ci sono i molteplici ascolti, passando per il jazz alla Parker o alla Coltrane, passando per Weather Report, Oregon o Garbarek: ma questo disco non l’ho fatto pensando al jazz bensì ritenendo che ognuno dovesse studiare se stesso. Nel registrare delle cose, tutto ciò che mi passava per la testa non era rivolto al jazz. Perciò ho iniziato a pensare che dovevo capire di più me stesso e che tipo di mondo naturale veniva fuori. Le infarinature e le esperienze che ho fatto nel jazz, nella musica leggera e in nella musica popolare e quella nord-africana, mi hanno portato a tirare fuori questo sound, sfruttando questi mondi che mi sono rimasti dentro con la passione, con l’ascolto»
La combinazione timbrica traduce anche il linguaggio cinematico ed evocativo di Vecchio, aduso non solo al commento di immagini, ma a portare la sua musica dal vivo nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, saggiando le sollecitazioni, le reazioni e le fascinazioni dei ragazzini sia al mix di immagini pensate per un dato brano sia suoni di strumenti antichi o riconducibili a culture altre, che con ogni probabilità non erano mai entrati nel loro immaginario. Ma ciò che più conta non è solo il fattore di conoscenza e di didattica interculturale, perché il fine dell’intervento era far capire come strumenti inusuali, antichi o popolari, possono essere proposti in composizioni contemporanee. Tornando al disco “Medwind”, l’iniziale “Ghatam” dichiara la cifra compositiva di Vecchio, con la sua melodia diretta dagli echi garbarekiani, ma anche contorta, per la presenza di ritmi irregolari: il tema iniziale portato dal duduk armeno su una nota di bordone, poi l’esposizione tematica del soprano sulla darbuka (Adolfo Valeri), l’improvvisazione tematica della ciaramella sull’incedere di batteria e percussioni (Dario Giuffrida), il tema ripreso dalle tastiere (Michele Simoncini) con il sostegno del basso (Marco Siniscalco) e del violoncello (Giuseppe Tortora), le digressioni del sax soprano. Le origini salentine si esprimono in “Carcara” (è la callara dove cuocevano la calce): qui Vecchio ha dato contorno sonoro a una poesia in griko su un amore bruciante, proveniente da un’antologia pasoliana di liriche popolari, e tradotta in arabo da Ahmed Benbali, il quale duetta con Nora Tigges sul bel tappeto percussivo di tabla (Sanjay Kansa Banik) e sull’incalzante batteria (Kicco Careddu). Aperto dal suono acuto del punji indiano (doppio clarinetto ad ancia semplice incapsulata costituito da due canne, una melodica e un bordone, inserite in una zucca a bottiglia), “Il Sogno” parte con ritmo di tammurriata per poi allargarsi in mare aperto verso il Mediterraneo. 
Le note della mancusedda, la terza canna, melodica, delle launeddas, aprono la via a “Isole”, il brano più lungo, «pensato come un percorso che attraversa luoghi fino ad arrivare al Salento»; si tratta ancora di una composizione dal forte tratto narrativo, costruita per sax, ciaramella, tastiere, basso e batteria, che nel finale, dove si passa da sequenze rilassanti ad altre più frenetiche, si alimenta ritmicamente al tamburello di Upapadia, percosso a tempo di pizzica. È delicato il procedere di “Lullaby”, brano per duduk, tastiere e violino (Ayu Sakurai), che Renato Vecchio, tra sensazione di memorie e ricordi, ha dedicato a suo padre. Il testo è costruito su metafore: «Su ciò che sappiamo e ciò che conosciamo realmente e per esperienza diretta», chiosa Vecchio, che ha scritto il testo pensando proprio alla vocalità di Benbali. “Arcano” è ancora un brano dall’andamento lirico dove si incrociano sax, flauto indiano e chalumeau. Differente l’immagine, che si traduce in una sorta di racconto, della successiva “Il ballo dell’Albero”; tutto proviene dalla sacralità del strumento armeno che nasce dal legno di albicocco; Vecchio immagina «il canto dell’albero e come una banda di rullanti faccia le prove e provi il passo verso l’albero, che chiama a sé i tamburi, che marciano verso il canto dell’albero; i vocalizzi e i melismi rappresentano le foglie dell’albero». Dolce e malinconica è la melodia di “Libellule”, che evolve nell’inquietudine accresciuta da un presagio, portato da una voce in lontananza. Un assolo di tabla apre “Giochi armeni”, che si snoda su tema esposto dal duduk e intrecci di flauto, il basso che spinge alla grande, tastiere, batteria e percussioni. La composizione si muove su scale che rimandano a quelle terre di passaggio euroasiatiche. Su quanto sia l’ispirazione a contare e non la marca dello strumento, ascoltiamo ancora Vecchio: «Uso un duduk da battaglia comprato in Turchia, con un suono poco definito e, a dire il vero, anche poco bello a mio parere... siccome il mio suono sul duduk è diverso, nelle note del disco ho preferito non scrivere che suono il duduk ma, wood flutes». Che poi il vero flauto di legno arriva nella parte improvvisata: «Suono un flauto di costruzione italiana comprato alla bancarella in un mercatino: provato, mi piaceva il suono, era abbastanza intonato, ho dato cinque euro e l'ho preso». La conclusiva “Litari” ci porta di nuovo in Salento (tra Nardò e Gallipoli), presso una roccia-grotta, che produce notevoli inflessioni soniche degli strumenti, poi in parte accomodate in studio, dove Vecchio ha registrato una lunga e articolata improvvisazione solista per sax tenore di quasi quaranta minuti, ridotte a poco più di tre minuti più lirici nel disco. Una prova che merita attenzione. 


Ciro De Rosa

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