Ivan Pili – Keltaloth (Autoprodotto, 2016)
Organettista e compositore sardo, Ivan Pili vanta un lungo percorso artistico e formativo intrapreso sin dall’età di tredici anni con il gruppo folk del suo paese Assemini, e proseguito prima con le collaborazioni con il rumeno Gheorghe Zamfir ed il tedesco Helmut Zacharias e successivamente in diversi progetti musicali nell’ambito della tradizione sarda e nella world music. In particolare, negli ultimi anni, l’organettista sardo si è dedicato ad un intenso lavoro di ricerca sulle tradizioni musicali e le tecniche esecutive dell’area celtica, dando vita all’ambizioso progetto “Keltaloth” (che nella lingua elfica di Tolkien vuol dire “Fiore Celtico”), a lungo rodato dal vivo con strumentisti di grande esperienza. Questa importante esperienza è stata cristallizzata nel disco omonimo, nel quale Ivan Pili ha raccolto undici brani autografi incisi con un ensemble a geometrie variabili composto da: Marco Castro (violino), Giovanni Cappai (chitarra), Marco Caffiero (pianoforte e tastiere), Mattia Melis (basso), Edoardo Vittori (batteria), Alessio Carta (flauto), Ilaria Zuddas (flauto), Claudio Kalb (bodhràn), Marie Mcmillian (thin whistle), Marco Caredda (batteria), Fabio Talani (basso), e Silvano Lobina (basso). L’ascolto rivela un lavoro di puro folk progressivo, nelle cui trame si intrecciano ispirazione differenti che spaziano dalla musica irlandese a quella bretone, dalla tradizione asturiana e quella scozzese, il tutto caratterizzato da un approccio, senza dubbio, originale agli arrangiamenti. In questo senso vale la pena citare il medley iniziale che si dipana tra l’evocativa “Morning’s voices”, il trascinante “Reel a few fast” e “Merry-go-round” o ancora nella successiva “Niflheim” in cui l’organetto di Ivan Pili dialoga con il pianoforte di Caffiero e la chitarra di Cappai. Entrando nel vivo dell’ascolto piacciono i medley “My home/My homies/A kyndly farewell”, “The alight fireplace in winter/Birthday’s cake” e “Ninian’s reel/The kid and the devil/Words of a journey” nelle quali si apprezza a pieno non solo l’ottima tecnica esecutiva dell’organettista sardo ma anche la sua interessante ricerca musicale negli arrangiamenti. Se “Emmaus” e “Daughters” sono caratterizzate da un incedere elegante ed avvolgente, i due medley successivi “Free bird hornpipe/Cynbel’s raven/The drunken sailors” e “Intro/Exodus jig/Glory jig” sono un invito alla danza prima del finale con in cui brilla la romantica ballad “Spring kiss” e la volteggiante “Cellar’s concerto/McDaid’s heights/Switchback” in cui spicca il basso suonato da Silvano Lobina.
Marco Fabbri – Crossroads (Autoprodotto, 2016)
Violinista romano, ben noto per la sua attività di docente presso la Scuola di Musica Popolare del Testaccio, Marco Fabbri è un musicista di grande esperienza avendo alle spalle una lunga carriera, ma soprattutto un profondo conoscitore della Irish music per averla assimilata e fatta proprio nel corso della sua lunga frequentazione dell’Isola Verde. Il suo nuovo album “Crossroads” rappresenta in modo eccellente la sintesi di tutto il suo articolato percorso musicale, fatto appunto di incroci, incontri ed attraversamenti sonori attraverso le musiche del mondo, partendo proprio dall’amata Irlanda. Ascoltando attentamente i quattordici brani presenti nell’album si ha la sensazione di sfogliare una sorta di diario di viaggio in musica, nel quale si mescolano suoni, tradizioni ed ispirazioni differenti. Ad aprire le danze è l’appassionante reel che mescola “Sharmrock Hill” di Sean Ryan, “Ronnie Cooper” di Josephine Keegan e “Bubbling Wine” di Paddy O’Brien, eseguito in duo da Fabbi al violino e Eogan O’Brien alla chitarra. Si resta ancora in Irlanda con la bella giga “Kevin Ryan’s Weekend/Young Tom Ennis” e “The Brit In The Liffey” nel quale il violinista romano è affiancato da John McSherry (low whistle e uillean pipes) e Paul MCSherry alla chitarra. Se l’elegante “Valzer in re minore” di Antonio Lentini, eseguita in duo con Maurizio Geri alla chitarra, arriva dal repertorio delle barberie siciliane, il successivo reel “Ar Mhuin na Muice/ Master Seamus/Lochlann’s” ci riporta in Irlanda ed ancora al songbook di Sean Ryan. Uno dei vertici del disco arriva con la splendida versione di “Perigordino” di Niccolò Paganini nel quale Fabbri dialoga al violino con l’accordion di Christy Leahy e la mandola di Felice Zaccheo. Il tradizionale bretone “Suite Fisel” funge da perfetto apripista per il ritorno in Sicilia con “Tarantella della Bellona/’A Missinisa” proposta in trio con Felice Zaccheo (mandola, mandoloncello e chitarra) e Francesco Salvadore (percussioni, jew’s harp e quartara). Seguono altre due piccole perle dell’Isola Verde ovvero il reel “The Setting Sun/Jimmy McNelis's/Joe Bane's” con l’accordion della Leahy e la chitarra di McSherry, e “Hornpipe & Clog: A Tankard Of Ale/Shrips Clog” in trio con Maurizio Di Giacompo alla chitarra e Lorenzo Coletta al bodhràn, mentre dalla tradizione della dorsale Appenninica arriva l’invito al ballo di “Bergamasco Reel” in cui Fabbri al violino è accompagnato da Davy Maguire al flauto e ancora da Paul McSherry alla chitarra. Lo slide “Johnny The Tailor's Fancy/Scartaglen Slide” e il reel “Launching The Boat/The Mohill” ci conducono verso il finale nel quale spicca la Tarantella Nicodemo ancora dal repertorio delle barberie siciliane e la travolgente giga conclusiva “Amanda Lynn/Nothing Can Sadden/Return Home”, eseguita in formazione allargata con Gabriele Caporuscio (mandolino, banjo e bouzuki”, Christy Leahy (accordion), Maruzio Di Gicomo (chitarra) e Lorenzo Coletta (bodhràn). “Crossroads” è, insomma, un disco prezioso, da ascoltare con grande attenzione.
Dirty Old Band – Birth (Autoprodotto, 2015)
La Dirty Old Band nasce nel 2007 sulle colline del Mugello dall’incontro tra Simone Barbagallo (voce, bodhran, percussioni), Thomas Barnes (voce e fiddle), Francesco Giura (chitarra, basso elettrico, cori), Saverio Vaiani (fiddle, cori), e Raffale Vitale (traverso, low, tin whistle), cinque strumentisti provenienti da esperienze musicali diverse, i quali hanno unito le forze per seguire la comune passione per la musica tradizionale irlandese ed il desiderio di riproporla in una chiave originale. La grande esperienza maturata sul palco, per strada, nei pub e nelle piazze, è stata cristallizzata nel loro disco di debutto “Birth”, pubblicato alla fine dello scorso anno, dopo una lunga gestazione. Registrato presso l’Officina Psicoacustica di Galliano (FI) sotto l’esperta supervisione tecnica di Riccardo Innocenti, l’album raccoglie dodici tra i brani più rappresentativi del proprio repertorio musicale che spaziano dalle struggenti ballate irlandesi, alle gighe indiavolate, dai canti scozzesi dei soldati e dei marinai e alle ballate narrative condite dalle storie di mitici personaggi, il tutto ovviamente condito da brani narrativi. L’ascolto svela tutta la passione della band toscana nell’approcciare la tradizione musicale dell’isola verde e lo si nota in dalla prima traccia “Bodhràn and Windbroke” nella quale spicca l’accattivante intreccio tra violino, chitarra e tin whistle, nella bella rilettura del traditional scozzese “The Cruel Sister” o ancora nell’evocativa suite “Farewell to Killavil”. Allo stesso modo molto riuscite ci sembrano anche le belle versioni della ballata tradizionale scozzese “Lowlands Away” della suite “Drowsy Maggie and 3 Jigs”, e dei classici “Drunken Sailor” o “Dirty Old Town” di Ewan McColl, ma il vertice del disco arriva con “Highlander Pipers and Jonny Cope” nella quale si apprezzano a pieno tutte le potenzialità della Dirty Old Band tanto dal punto di vista strumentale quando da quello vocale. I tradizionali irlandesi “Mist On Brenda” e “King Of The Fairies” chiudono un ottima opera prima per un gruppo da tenere d’occhio negli anni a venire.
Salvatore Esposito
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