Stefano Saletti & Banda Ikona – Soundcity (Finisterre/Felmay, 2016)

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I suoni dalle città di frontiera del Mare Nostrum. Intervista con Stefano Saletti

Mediterraneo come intersezione, luogo di antiche persistenze e di nuove contraddizioni, di migrazioni, fughe e diaspore, di ferite, di sangue e di lutti ormai quotidiani. Mare plurale (Matvejević), di transiti culturali, di musiche prossime per tratti comuni (di ieri e di oggi), di remote e ritrovate assonanze. Con le sue città così somiglianti, seppure attraversate da lingue diverse, che sanno ancora comunicare, nonostante tutto. Città, grandi e piccole, che «si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria, Palermo e…»: così Jean-Claude Izzo in “Marinai perduti”, ripreso in epigrafe da Stefano Saletti nel suo nuovo album “Soundcity”. Ascolto e visione trasposte dal compositore reatino, che ha catturato nelle strade suoni e frammenti, immagini e personaggi, impressioni e umori, desideri e fughe, che sono re-interpretati, ricomposti, trasfigurati per modulare una cartografia di questo specchio d’acqua, oggi dolente. Un Mediterraneo che non è una cartolina per un disco ancora una volta “politico”, seppure in forma diversa, ma altrettanto avvincente, come lo sono state le canzoni che profumavano di ‘primavera’ di “Folkpolitik”. Saletti ha scelto ancora una volta l’esperanto marinaresco e commerciale dei secoli passati, il sabir, la lingua dei porti che mischia con altri idiomi dei popoli, per comporre squarci di dialoghi possibili, di memorie, religiose e profane, di azioni resistenti, necessari in tempi bui di nuovi muri e di nuove nefaste “reconquiste”. Per costruire i suoi “Suoni dalle Città di frontiera”, il polistrumentista (ûd, bouzouki, saz, chitarra, pianoforte, percussioni, programming) ha radunato accanto a sé solide spalle, che da dieci anni fanno parte della Banda Ikona (non più Piccola): Barbara Eramo (voce), Gabriele Coen (fiati), Mario Rivera (basso), Carlo Cossu (violino). Con loro, ci sono amici che con lui condividono i dialoghi in musica: parliamo di Gabriella Aiello, Lucilla Galeazzi, Yasemin Sannino, Awa Ly e Emeka Ogubunka (voce), Nando Citarella (voce e tammorra), Riccardo Tesi e Alessandro D’Alessandro (organetto diatonico), Giuliana De Donno (arpa), Jamal Ouassini (violino), Pejman Tadayon (ney, daf),  Arnaldo Vacca (percussioni) e Giovanni Lo Cascio (batteria e percussioni). Abbiamo raggiunto Stefano Saletti nel suo studio romano, per farci portare lungo le traiettorie urbane di “Soundcity”. (C.D.R.)


Come nasce il nuovo album “Soundcity”?
Nasce dalla curiosità: mentre ero in giro per vari concerti nel Mediterraneo, mi fermavo ovunque ad ascoltare e registrare questi suoni, questi rumori delle città che affacciano sul Mare Nostrum. Da Tangeri ad Istanbul fino a Lisbona, ogni suono mi evocava delle sensazioni e quando ho cominciato a riascoltare, ho pensato: perché non partire da questi suoni per creare un sound del Mediterraneo? Ho ascoltato ore e ore di registrazioni e riprese video, trovando frammenti di voci, canti di strada, rumori, suoni delle radio e ritmi raccolti qua e là. Così, partendo da queste registrazioni, ho composto i brani di “Soundcity”. È stato poi naturale chiamarlo in questo modo e sottotitolarlo “suoni dalle città di frontiera”, perché tutte queste città hanno la caratteristica di essere città di confine. Sarajevo, Lampedusa, Ventotene, Istanbul: sono tutte città che da una parte dividono e dall’altra uniscono. 

Hai appena citato Lampedusa, città che apre e chiude questo disco dalla forma circolare… 
Lampedusa è un po’ il simbolo della nostra epoca. Quest’isola dovrebbe essere la porta d’Europa, ma, in effetti, è diventata una porta chiusa che si trasforma anche nella tomba d’Europa. Tante volte mi chiedo: è questa l’Europa che volevamo noi? L’Europa che non sa accogliere? L’Europa che mette nuove barriere, nuove frontiere? Credo che nel disegno di Altiero Spinelli, e dei grandi padri della Comunità Europea, ci fosse l’idea di un’Europa che fosse inclusiva, accogliente, capace di solidarietà e di confronto: perché ognuno ha le sue idee, il suo credo religioso, e le sue tradizioni. Proprio per questo dopo la guerra devastante settant’anni fa l’Europa ha cambiato la propria essenza, riuscendo a diventare un luogo di libertà e di cultura. Oggi vediamo quello che sta succedendo in Austria, nei Balcani. È semplicemente allucinante questa idea di respingere, di chiudere, di cacciare l’altro diverso da noi. Lampedusa in questo è emblematica, perché è un isola meravigliosa che ha accolto, in questi anni, migliaia di migranti con grande affetto, con grande fratellanza, e spesso restando sola. L’idea di aprire “Soundcity” con un padre nostro cantato in swahili nasce dall’esigenza di rappresentare la speranza per una vita migliore dei ragazzi dell’Africa. Sappiamo, però, che questa speranza viene frustrata ed è per questo che il disco si chiude con “Lampedusa Ritorno” con toni un po’ più cupi, più tristi. Come se forse questa speranza non ha poi generato quell’obiettivo di libertà che era alla base della spinta a partire lasciare tutto, ed andare in un altro continente. 

Nel mezzo ci sono brani dedicati alle proteste di Gezi Park, a quelle degli ebrei ortodossi di Jaffa. Come mai hai scelto proprio questi episodi?
Sono partito dai suoni che ho registrato. Per esempio, ad Istanbul fu una cosa particolare, perché eravamo nella vita principale, quella degli strumenti musicali (Galip Dede Caddesi, ndr), e c’era una donna che cantava questa bellissima canzone tradizionale dell’interno della Turchia. Mentre iniziavo a registrare la sua voce, passarono dei turisti americani e uno di questi, in inglese, ha detto che ci sarebbe stato del caos il primo di maggio. 
Io nemmeno ci avevo fatto caso a questa cosa. Quando sono rientrato ed ho ascoltato questa registrazione, mi sono accorto di questa frase. Appena questo turista dice quella cosa, la donna smette di cantare. È certamente una casualità, ma era il 29 aprile il giorno in cui feci la registrazione e il primo maggio ci furono realmente degli scontri, nel corso dei quali morì, Berkin Elvan, un ragazzo di quattordici anni e ci furono centinaia di feriti. Era solo l’inizio della contestazione anti Erdogan, a cui sono seguiti altri episodi simili, ma sono rimasti solamente una protesta, pur avendo segnato uno spartiacque per la Turchia. Il canto di quella donna era molto bello, ma in quel contesto aveva un significato molto forte. A Jaffa fu buffo, perché ci andammo con la 7 Sóis Orkestra e c’era questo gruppo di rabbini ortodossi che protestava contro la costruzione di un centro commerciale. Ho notato subito questo contrasto con loro che avevano le barbe ed erano arrabbiatissimi e la musicalità delle loro voci, e così ho pensato di partire da lì per scrivere un testo in cui si parlasse da un lato della chiusura verso la modernità, e dall’altro dei migranti che cercano la libertà. Il brano si chiama “Sbendout” che in sabir vuol dire bandito, perché molto spesso i migranti vengono visti in questo modo. Tutto questo è nato appunto dall’ispirazione che ho trovato nel canto di protesta arrabbiato dei rabbini.

Tutti i brani del disco sono composti in sabir. Come riesci a comporre questa lingua e quali sono i riferimenti che hai avuto per scrivere in questo linguaggio?
Conobbi il sabir ai tempi dei Novalia, e tra il 1988 e il 1989 facemmo addirittura un disco che si chiamava appunto “Sabir”. È un’era geologica fa… Allora era solo un concetto, l’idea dell’incontro nel Mediterraneo. Poi ho iniziato a cercare testi e libri in sabir perché mi affascinava l’idea che esistesse una lingua che univa i popoli del Mediterraneo. Era la lingua del mare, la lingua del dialogo, e tracce si trovano dappertutto, in Molière così come in tante altre opere in cui, ad un certo punto, salta fuori questa lingua. 
Ho trovato poi un dizionario franco-sabir del 1830 di Guido Cifoletti, che ha fatto uno studio su quella che è chiamata lingua franco-barbaresca, oggi nota come sabir. Parto da questo dizionario oppure utilizzo testi già esistenti o ancora scrivo io stesso dei testi, delle storie in cui racconto quello che avviene nel Mediterraneo e lo traduco dall’italiano al francese, e dal francese al sabir. Reinvento una lingua, e laddove non c’è una parola corrispondente, perché il dizionario nonostante sia molto accurato non è esaustivo, immagino quale parola avrebbero potuto utilizzare o quella che suona meglio per cui ci può star bene l’italiano, il francese, lo spagnolo, oppure l’arabo. Il sabir è un po’ come l’inglese parlato dai non inglesi oggi: quando incontri un musicista russo, parli questo inglese che ha dentro tantissimi termini o tantissime pronunce che per un inglese sono un po’ particolari. Il sabir aveva questa funzione di lingua del dialogo, la lingua dei porti, la lingua che parlavano i marinai, la lingua che parlavano i commercianti quando si incontravano a Genova, a Tangeri, ad Algeri o a Venezia oppure nei porti dei Balcani. Anche perché il mondo mussulmano rifiutava di sottomettersi culturalmente alla lingua dei franchi e agli idiomi europei e quindi non voleva parlare il francese o l’italiano ma accettava di parlare in sabir perché era una lingua non codificata che nasceva dall’incontro.

In questo nuovo viaggio con Banda Ikona hanno preso parte diversi amici, diversi musicisti che hai incontrato in questi anni e con cui suoni abitualmente. Ce li puoi presentare?
L’anno scorso ho curato la direzione artistica di una rassegna, il “Festival Popolare Italiano”, che si teneva, tra l’altro, al Baobab che era un centro di accoglienza per migranti, ed è stata un po’ l’occasione per creare una sorta di comunità della musica popolare. In questo percorso di creazione di “Soundcity” che è durato due anni, mi è venuto naturale coinvolgere piano piano questi amici che erano venuti a suonare al festival, proponendogli di partecipare alla costruzione di questo suono, di questo affresco mediterraneo. Nel disco sono un po’ tutti. Riccardo Tesi con il suo organetto che ha suonato in quattro brani, Lucilla Galeazzi che ha cantato il padre nostro in sabir. È stato bellissimo prendere la voce della musica popolare italiana e farle cantare questo canto. 
Il mio amico Nando Citarella, con cui abbiamo creato il progetto Cafè Loti, che ha cantato “Madonna delle Grazie” di risposta al padre nostro di Lucilla in sabir. Poi c’è Alessandro D’Alessandro, uno dei migliori organettisti della nuova generazione, nel disco c’è stata anche una sorta passaggio di testimone tra la classe e la maestria pura di Riccardo Tesi e la nuova linfa di Alessandro. Ancora, Pejman Tadayon, anche lui come Nando nel progetto Cafè Loti, che ha suonato il ney e il daf, strumenti perfetti per due brani uno sulla Turchia e l’altro su Sarajevo. Venendo alle voci, abbiamo Yasmine Sannino cantante italo-turca quando che ho voluto per raccontare Sarajevo, città di cui era originaria la nonna, e Istanbul perché era importante avere la sua voce che cantasse in sabir e alcune parti in turco. Awa Ly cantante franco-senegalese, che apre il disco insieme alla voce di Emeka Ogubunka, cantante nigeriano, con il quale interpreta il Padre Nostro in swahili, per evocare la speranza di arrivare in Europa. Gabriella Aiello, che ha cantato con Barbara a due voci “Balkan Trip” e insieme hanno fatto questo splendido lavoro sulle armonizzazioni delle voci. 
Ho voluto anche l’arpa di Giuliana De Donno su “Gaza Beach”, perché è una canzone anche questa molto importante: ho stampata in mente l’immagine di quel bambino che mentre giocava a pallone sulla spiaggia di Gaza viene centrato da un missile. Ho cercato di raccontare il dolore del padre usando uno strumento che ha poco a che fare con la cultura araba, ma che però evoca bene il sentimento, il dolore. Abbiamo poi il violino di Jamal El Ouassini per raccontare “Tangeri”, che nasce dai rumori che ho registrato sul porto di Tangeri, dove verso la fine di agosto migliaia di macchine erano in fila per ritornare in Europa le macchine con sopra di tutto, materassi, giocattoli. Per dare l’idea del ritorno o dell’andare via, ho preso un testo di una canzone araba, che recita: “Ma tu che parti ma dove vai, tanto vedrai che tornerai”. Questa è stata la grande orchestra Ikona, e perciò ho pensato di cambiare il nome da Piccola Banda Ikona in Banda Ikona perché l’aggettivo piccola ci stava ormai stretto.

Come saranno i concerti di “Soundcity”. In che modo riuscirai a riprodurre sul palco questo sound corale?
Nella presentazione all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stato bello avere tutti quanti sul palco. Dal vivo andremo con la formazione a sei che comprende Barbara Eramo alla voce, Gabriele Coen ai fiati, Carlo Cossu al violino, Mario Rivera al basso acustico, e poi anche Giovanni Locascio, con cui sono tornato a collaborare dopo il periodo con i Novalia, perché avevo bisogno di un sound percussivo e lui utilizza magistralmente questo set misto, a differenza di Leonardo Cesari che ha collaborato con noi per dieci anni ed ha un sound più batteristica. Ancora, Arnaldo Vacca che è un funambolo delle percussioni, ed un musicista creativo e di grandissimo gusto. Gireremo tra questi sei-sette musicisti. Quando è possibile, ci raggiungerà anche qualcuno degli ospiti, compatibilmente con gli impegni, perché è chiaro che Riccardo Tesi, Lucilla Galeazzi, gli altri possono essere impegnati il quel periodo. In ogni caso cerchiamo di rendere quella ricchezza di suoni anche con questi musicisti con cui collaboro da dieci anni e che fanno parte di Banda Ikona. 

Salvatore Esposito



Stefano Saletti & Banda Ikona – Soundcity (Finisterre/Felmay, 2016)
Mediterraneo di intersezioni antiche e contemporanee, luogo fascinosamente immaginifico e drammaticamente reale con le sue ferite e i suoi cimiteri aquatici dell’attraversamento: “mare nostrum che si trasmuta in mare monstrum” (Iain Chambers),  specchio di transiti culturali, di musiche prossime per tratti comuni, di ieri e di oggi, spazio di remote e re-inventate assonanze. “Soundcity”, il concept album acustico con innesti elettronici dall’amabile pronuncia rock, pop, folk e world di Stefano Saletti e della flessuosa Banda Ikona, non poteva che iniziare da “Lampedusa andata”, un principio di viaggio, che non ha bisogno di spiegazioni: è una preghiera in swahili, una delle lingue di peso dell’Africa orientale, che è desiderio di nuova esistenza, di una vita affidata alla benevolenza del mare. Le voci di Awa Ly, Emeka Ogubunka, Barbara Eramo e dello stesso Saletti disegnano una melodia diretta e tenera, il tema è esposto dall’ûd prima e dal sax (sempre in libero movimento) poi, l’ingresso degli altri strumenti apre le porte ad uno spessore sonoro più denso, che infine cede il passo alle sole voci oranti, che si fondono con il moto delle onde. Dopo l’introduzione del bouzouki e delle voci raccolte sul campo a Istanbul, sulla variazione di un tema tradizionale armeno, il canto in sabir e turco di Yasemin Sannino si snoda su tempi lenti, quasi dilatati, tra intrecci di corde, organetto e ney (“Berkin ‘E Bak”). Si danza leggeri in “Balar Tzigana”, dove lascia il segno l’organetto di D’Alessandro,  prima di addentrarsi nelle vie di Lisbona, condotti dal lirismo di “Azinhaga”, cucita con chitarra acustica, bouzouki, piano, basso acustico e percussioni che esaltano la luminosa voce di Barbara Eramo. Di seguito, una tammurriata alle stelle intonata nell’isola di Ventotene (“Padri di noi”) con il tamburo a cornice di ‘o masto cantore Nando Citarella, che invoca la “Madonna delle Grazie” rispondendo così all’orazione rivolta al Padre in sabir dal canto robusto di Lucilla Galeazzi, tutto tra gli intarsi di clarinetto di Gabriele Coen. Nuova tappa nei Balcani, “Sarajevo Mon Amour” – alla Bosnia Saletti aveva, in un certo senso, dedicato il suo primo album di Piccola Banda Ikona “Stari Most” – è aperta dal calore del ney di Pejman Tadayon e dal respiro sonante e metallico delle corde saz; l’organetto di Tesi si interpone ricamando una trama malinconica, mentre il canto di Yasemin Sannino (in sabir e turco) si libra su un ritmo piantato su tempi dispari. Con la splendida “Gaza Beach” (cantata in sabir e arabo) siamo nella martoriata terra di Palestina, lo strazio per l’ennesimo innocente colpito a morte trova pregnanza nelle carezze dell’arpa di Giuliana De Donno, che incontra il legno sonoro arabo per eccellenza e la firma del mantice vitale di Tesi. In “Sbendout”, bandito nella lingua franca marinaresca del passato, canzone plurilingue (sabir, francese e spagnolo), che mette in rotta di collisione le voci della protesta di rabbini ortodossi registrati a Jaffa con quelle di migranti che s’innalzano nella richiesta di dignità nell’Europa che chiude le sue frontiere;  ritmo e melodia incrociano rotte sfiorando diverse latitudini, con un clarinetto svettante che apporta preziosa sostanza klezmer. “Balkan Trip” fotografa antiche e nuove paure sulla rotta che passa per Turchia e Macedonia, con un allestimento sonoro in cui brillano le armonizzazioni delle vocalist, Barbara Eramo e Gabriella Aiello e ancora i preziosismi del clarinetto di Coen (coautore del brano con Saletti). Il violino di Jamal El Ouassini e il sax si alternano nel flusso incantatore che guida il racconto di “Tangeri”, una composizione sviluppata su un ritmo urbano marocchino che avvolge un testo tradizionale ed ispirata dall’immagine dei migranti in attesa di imbarcarsi per ritornare a casa, in Spagna. Il cerchio si chiude con un nuovo approdo, un nostos o un nuovo transito a “Lampedusa ritorno”, evocati dal tratteggio fosco e inquieto di corde e sax.



Ciro De Rosa

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