Italian Sounds Good: Tempi Duri, Noàis, I Picari, di Oach, Odiens

Tempi Duri – Canzoni Segrete (Saifam, 2015)
La storia dei Tempi Duri prende vita agli inizi degli anni Ottanta durante le session di registrazione di “Una Storia Sbagliata” di Fabrizio De André e Massimo Bubola, fu in quella circostanza che quest’ultimo presentò un giovane artista veronese, Carlo Facchini, al cantautore genovese, il quale ebbe modo di fargli ascoltare alcune canzoni di sua composizione. Quei brani colpirono molto Faber il quale invitò Facchini a raggiungerlo nella sua casa in Sardegna, e fu lì che, insieme a Cristiano De André prese l’idea di dare vita ad una band, insieme ad altri due strumentisti veronesi  Carlo Pimazzoni (chitarra solista) e Marco Bisotto (batteria e percussioni). Dopo la pubblicazione del 45 giri con il brano omonimo, che nell’approccio stilistico rimandava ai Dire Straits di Sultan Of Swing, ed il lato B “In una notte così”, arrivò l’opportunità di partecipare anche al Festival di Sanremo, ma un cavillo del regolamento fece saltare tutto. Tra il 1981 e il 1982 Fabrizio De Andrè, che intanto aveva dato alle stampe con la sua etichetta il loro disco di debutto “Chiamali Tempi Duri”, li volle accanto a sé per il tre tour promozionali de “L’Indiano”, tuttavia mentre sembravano pronti al grande salto verso il successo e con il secondo disco praticamente finito, il gruppo si sciolse nel 1985. A trent’anni di distanza dalla fine della loro avventura, i Tempi Duri hanno di recente dato vita ad una reunion del gruppo, dando alle stampe un nuovo album “Canzoni Segrete”, pubblicato in parallelo con la ristampa del loro storico disco di debutto, disponibili anche in un unico cofanetto digitale. Composto da undici brani, il disco è una sorta di concept album che ruota intorno al tema dell’amore nelle sue diverse declinazioni, da quello impossibile (“Giulietta” e “La Sfida”) a alla sublimazione quasi dantesca dell’amore fisico (“Per Te”), da quello per i figli (“Illudendoci”) a quello primordiale (“L’Albero”) fino a toccare l’effimero (“Hong Kong”) e quello devastante (“Accendi un fuoco nel ghiaccio”). Nella seconda parte del disco, emergono i brani più intensi ovvero la toccante “Mattia”, la splendida “Con Le Nostre Mani” con la partecipazione di Cristiano De Andrè, e “Amici Sempre”, mentre il vertice del disco lo si raggiunge con la dolcissima ninna nanna “Babbu Meu”, dedicata ai figli di Andrea Parodi e all’amore per il loro papà che non c’è più. Chiude il disco una bonus track, la nuova versione di “Italia Parte 2”, originariamente pubblicata da Carlo Facchini e La Carboneria e divenuto inno dei ricercatori italiani. “Canzoni Segrete” è dunque l’occasione preziosa per riscoprire lo storico primo disco dei Tempi Duri, ma anche per lasciarsi sorprendere dalle nuove canzoni di Carlo Facchini, la cui ispirazione è sempre vivissima.

Salvatore Esposito

Noàis – Lanterne (Autoprodotto, 2014)
Il progetto Noàis nasce nel maggio 2012 da un idea del cantautore astigiano Jacopo Perosino (voce, chitarra acustica, piano, ukulele, penny whistle, tamburello), il quale insieme a Paolo Penna (chitarra elettrica, chitarra acustica), Luisa Avidano (violino), Simone Torchio Basso (scacciapensieri),  Michele Cocciardo (batteria, cajon),  Roberto Musso (percussioni, rumori, tamburelli, bodhran) e Maria Rita Lo Destro (voce), ha inteso proporre un originale precorso di ricerca, che partendo dalla canzone d’autore, si caratterizzasse per una contaminazione sonora che spazia dal blues a rock dalle musiche popolari del bacino del Mediterraneo e del nord Europa, alla tradizione klezmer. Dopo un intenso rodaggio sul palco e due anni di lavoro su materiali originali, i Noàis hanno dato alle stampe dello scorso anno il debutto “Lanterne”, disco che raccoglie sette brani di pregevole fattura in cui emerge un approccio compositivo per nulla scontato, ed una particolare cura per gli arrangiamenti. Ad aprire il disco è la famosa leggenda siciliana di Colapesce cantata in “Hanno Ucciso Colapesce”, a cui segue la preghiera laica dal tratto blues polverso “Nun t’arrabbià”. Se le evocative sonorità irish pervadono poi “Mary Jane”,  brano che racconta la tragica storia di Mary Jane Kelly ultima vittima di Jack Lo Squartatore e il suo amore smisurato per l'Irlanda, la successiva “Emmeraviglia (Light my room tonight)” è una solare ballata dai ritmi caraibici in levare e che suona come un invito ad innamorarsi della meraviglia. Completano il disco la confessionale “Che Bella Giornata”, la trascinante pizzica non pizzica “Colpa di Maria” e l’intensa “Sudato e Fragile”.  Insomma “Lanterne” è un ottima opera prima e siamo certi rappresenterà un punto di partenza importante per il percorso dei Noàis.

Salvatore Esposito

I Picari – Radiosi saluti da Fukushima (Autoprodotto, 2014)
I Picari sono una formazione umbra che ha recentemente pubblicato, in autoproduzione, il primo album “Radiosi saluti da Fukushima”. Si tratta di un disco che sorprende sotto più punti di vista: l’attenzione riposta nella definizione di una musica vivace (“Agenzia delle Entrate”), un arrangiamento equilibrato, linee melodiche piacevoli, determinate soprattutto dall’organizzazione delle voci (“Buoni propositi”), testi intelligenti e sufficientemente irriverenti (“Centerbe”). Tutti questi elementi sono inquadrati in una costruzione narrativa ironica e non retorica (“E l’impasto che ho in bocca al momento/ non si addice di certo al chiaror della tua pelle”), che individua temi interessanti raccontati in modo semplice, dialogico, naturale e diretto (“Don Bastiano”). Alcuni brani si configurano – in modo più netto rispetto all’insieme – come delle narrative folk. In questi casi si possono riconoscere echi, probabilmente non volontari, di una tradizione abbastanza riconoscibile, alla quale si ispirano molte band italiane, dai Modena City Ramblers alla Bandabardò (“Linda”). Ma I Picari riescono a riprodurne gli elementi più rappresentativi in modo non passivo, affidandosi soprattutto alla loro (non comune) capacità di puntellare la narrazione con vivacità e soluzioni inaspettate (l’uso dei fiati, ad esempio, o del violoncello). A fare da contrappunto a questa costruzione vi è un flusso ritmico sostenuto da batteria e chitarra, arricchito da citazioni chiare e alcuni strumenti più caratterizzanti. “Radiosi saluti da Fukushima”, ad esempio, rappresenta bene questo schema: interviene una fisarmonica fin dal prologo, che orienta, in alternanza alla voce, la linea melodica di un brano compatto sul piano ritmico, grazie soprattutto alla batteria, sintetizzata in un saltello di rullante che marcia fino alla fine.

Daniele Cestellini

di Oach – di Oach (Autoprodotto, 2015)
Il disco omonimo della band vicentina di Oach è un ottimo debutto. Le tante notizie che si possono leggere su questo lavoro, composto di nove tracce suonate in acustico dai quattro componenti della band, convergono su alcuni elementi generalmente condivisibili. Si tratta di una musica ben suonata, delicata e raffinata, costruita sostanzialmente sulla capacità di mantenere un andamento low e di arricchirne – proseguendo con equilibrio e senza eccedere negli intrecci degli arpeggi – le linee melodiche principali. Colpisce innanzitutto la chitarra acustica, utilizzata come un bordone, come un segno, come un solco dove si accomodano gli altri strumenti (“Vespers”). Nonostante rappresenti il nucleo fondamentale del linguaggio della band, non stanca e non è mai usata con ridondanza. Al contrario, propone un racconto lineare e coerente, al quale si aggiungono basso acustico, glockenspiel, percussioni, grancassa e sintetizzatori. E le voci dei due cantanti, a orientare una spinta che diffonde una sorta di mistica, l’dea di contemplazione, di incanto (in alcuni casi emergono rumori d’ambiente, come l’acqua che scorre o il fuoco che crepita). Con le voci si completa il cerchio. Soprattutto perché – sia la maschile che la femminile – riescono, spesso insieme, a interpretare la profondità delle atmosfere (“Every early morning”), contribuendo a sfumare i contorni di ogni brano. E completando la trasfigurazione di ballate, che richiamano suggestioni irish e folk, in riflessioni armonizzate, in canti quasi sussurrati (“Who won, who lost”).  

Daniele Cestellini

Odiens – Prima incisione (Autoprodotto/ MArteLabel, 2015)
“Prima incisione” è l’album d’esordio degli Odiens. La band (che ha già prodotto Ep di cinque tracce intitolato “Tema di scandalo al sole”) si ricava uno spazio tutto sommato comodo nello scenario indie del nostro paese. Ha evidentemente le idee chiare e sintetizza uno stile elettrico e low-fi, legato a doppio filo a un tipo di beat internazionale (se escludiamo alcune incursioni di piano e sax ci muoviamo tra chitarra, basso e batteria: secchi, decisi e coesi) e l’individuazione di una lirica italiana e sixties (“L’educazione sentimentale”). Si potrebbe dire che questi due elementi – il suono e il canto – contribuiscono più di altri a definire il linguaggio della band, ancorandolo alla definizione di uno stile personale e (perché no?) riconoscibile. Insieme il canto e il suono degli Odiens costruiscono un andamento musicale generalmente dinamico che, nella maggior parte dei casi e spesso con soluzioni semplici ma interessanti (“Baule”), riesce a evitare di impigliarsi negli elementi più scontati del genere a cui fa riferimento (“Routine”). Difatti ognuno degli undici brani di cui è composto l’album, se da un lato riflette i riferimenti stilistici più cari al gruppo, dall’altro lato riesce, attraverso la scelta dei temi, rendere attuale l’idea generale che lo connette a una scena ben precisa. Che coincide non solo con un suono e con un modo tecnico di fare musica. Ma soprattutto con un movimento culturale – allo stesso tempo rivoluzionario e leggero –, con una ricomposizione di immaginari che trovano oggi elementi concreti con cui rigenerarsi (“Carta da parati”).


Daniele Cestellini

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