Si può parlare di caso editoriale per “Lettere da una tarantata”? Si può dirlo un classico dell’antropologia italiana? Le risposte a entrambi i quesiti non possono che essere affermative, se è vero che questa dell’editrice romana Squilibri è la seconda ristampa, in una nuova veste, del volume di Annabella Rossi (1933-1984), pubblicato in origine nel 1970 (Edizioni De Donato, Bari). Come nell’edizione datata 1994 (Argo, Lecce), la curatela è dell’antropologo Paolo Apolito, che della Rossi è stato allievo e che nella prefazione a questa nuova stampa dell’opera espone le ragioni del valore della raccolta epistolare, proiettandosi nello scenario delle mutate condizioni dello statuto e della pratica antropologica, non solo dai tempi della ricerca demartiniana, ma pure dalla prima ripubblicazione delle “Lettere” nella metà degli anni Novanta, per condurci fino agli “imprevedibili e imprevisti” esiti revivalistici della “taranta che batte il suo ritmo ad agosto” a Melpignano. Nella cappella di Galatina il 29 giugno 1959, durante la festa dei santi Pietro e Paolo, Annabella Rossi, intervistatrice dell’équipe interdisciplinare di Ernesto de Martino scesa in Salento per studiare l’istituto del tarantismo, fa la conoscenza con la “tarantata Anna”, la contadina pugliese di Ruffiano, classe 1898, che inciderà profondamente sulla sua vita di studiosa. Con Michela Margiotta – il vero nome dell’informatrice salentina – Rossi intraprende una ricca corrispondenza pubblicata nel volume in oggetto che raccoglie sessantacinque lettere inviate, tra il 1959 e il 1965, alla studiosa dalla contadina semianalfabeta. Sono documenti straordinari dal punto di vista linguistico (il volume contiene l’esemplare saggio di Tullio De Mauro, presente fin dalla prima edizione, sulla storia dell’italiano popolare unitario) e naturalmente etnografico perché servono a ricostruire la realtà delle classi subalterne. La nota introduttiva alle lettere della Rossi contestualizza l’ambiente culturale salentino, descrive le circostanze dell’incontro etnografico, si confronta con la letteratura antropologica che ha fatto uso delle fonti autobiografiche, mette in luce il contesto nel quale si produce la corrispondenza con la tarantata. Il contributo scientifico di Annabella Rossi non può essere – invece lo è stato a lungo – ridimensionato, considerate le pubblicazioni importanti (oltre alle “Lettere” qui ricordiamo “Le feste dei poveri”, “Carnevale si chiamava Vincenzo” scritto con Roberto De Simone, “E il mondo si fece giallo. Il tarantismo in Campania”), per non dire della sua attività di documentarista con Luigi Di Gianni e Michele Gandin. Ancora vanno riconosciuti l’ampio lavoro di antropologia museologica e l’impulso dato agli studi antropologici sulla Campania nell’Università di Salerno, in cui ha svolto il suo magistero. In tal senso, ci sembra finalmente un atto concreto il fatto che il Museo delle tradizioni Popolari di Roma le abbia recentemente dedicato il suo Archivio. In “Lettere da una tarantata”, come avverrà in tutta l’opera e la pratica di ricerca sul campo della studiosa, emerge la sua umanità, il suo entrare in empatia con l’interlocutore appartenente al mondo contadino salentino o quello di poveri devoti, reinterpretando la concezione gramsciana del ruolo dell’intellettuale. Ancora di più la raccolta dà “corpo” e voce a una testimone del “mondo magico” del Sud, la cui parola è altra rispetto ai canoni espressivi dominanti. Sono “voci sgradevoli” (p. 103) non addomesticabili nel pittoresco, che si prendono lo spazio in tempi in cui la stessa scrittura scientifica – scrive Apolito nella nota introduttiva del 1994, in piena stagione di autoreferenzialità postmoderna dell’antropologia culturale – rifiutava le “descrizioni della complessità delle relazioni umane in cui era coinvolto suo malgrado l’antropologo” (p. 28): pensiamo che all’accusa di populismo non era sfuggito lo stesso de Martino. È questa una prospettiva oramai rovesciata dopo la crisi epistemologica del sapere antropologico, con la fase riflessiva e dialogica che ha ridiscusso lo statuto della disciplina, finendo per far apparire ingannevoli proprio le descrizioni improntate all’oggettività. Seguiamo ancora Apolito: la situazione etnografica di “Lettere da una tarantata” è quella nella quale la studiosa, non nascondendosi allo sguardo dell’informatrice, le permette di presentarci la sua versione dell’incontro. Siamo di fronte a due persone che sono «portatrici di due culture che stanno rappresentando ai nostri occhi quasi per intero la portata del loro incontrarsi, con tutte le sue ambiguità, i suoi fraintendimenti, le sue idiosincrasie, la sua finanche profonda conflittualità» (Apolito p. 32). A quasi mezzo secolo di distanza, le “Lettere” restano un’opera dal fascino ineludibile non solo sul piano demo-linguistico, ma soprattutto per aver allargato la riflessione prospettica sul tarantismo, attraverso la testimonianza diretta di “Anna la tarantata”. Senz’altro una lettura consigliata, che potrebbe aprire la mente ai tanti che battono (o cercano di farlo) il ritmo della taranta ad agosto senza comprendere cosa ci sia stato dietro.
Ciro De Rosa