Bob Dylan & The Band - The Basement Tapes Complete – Bootleg Series Vol.11 (Columbia Records, 2014)

Scrivere dei “Basement tapes” significa compiere un viaggio nel tempo, tornando indietro con la memoria alle fine del 1966 e al famoso incidente in moto occorso a Bob Dylan. Di questo momento cruciale della vita del Menestrello di Duluth si è scritto tanto, senza mai aver avuto nessun riscontro oggettivo su cosa davvero accadde, e quali furono le reali conseguenze fisiche. Quella caduta, come avvenne per San Paolo, rappresentò una specie di trasmutazione nella sua vita. La paura della morte, lo spaventò, così come la possibilità di perdere la vita e lasciare la propria famiglia contribuirono a fare in modo che Dylan mettesse da parte, per qualche tempo, il suo personaggio ed indossasse, nuovamente, i panni dell’uomo che cerca, nella musica, un senso, una normalità, un piacere senza essere sempre giudicato per qualunque parola, atteggiamento, proposta artistica. Il suo buen ritiro iniziò nell’inverno del 1967 nella Contea di Ulster che, a dispetto del nome, si trova nello stato di New York. Fu in quella casa che Dylan invitò alcuni musicisti che lo avevano accompagnato durante il tour del 1966 per visionare il film che stava preparando sul tour stesso. Da quell'incontro scaturirono delle sedute di registrazioni, tra il serio ed il goliardico che trasformarono i componenti di The Hawks in The Band, rendendo Rick Danko, Richard Manuel, Garth Hudson, Robbie Robertson, Levon Helm parte di un progetto inatteso anche da loro stessi. Nella cantina di quella grande casa rosa cantavano, inventavano, trasformavano canzoni nuove, brani tradizionali folk, blues e rock, nascevano bozzetti di brani, il tutto mentre il registratore sorvegliato da Garth Hudson catturava ogni nota. Quelle registrazioni divennero ben presto oggetto di contrabbando tra gli appassionati seguaci di Bob Dylan, il quale, tra l’altro, non aveva nessuna intenzione di pubblicare un album nuovo con quei brani, ma solamente divertirsi un po’ e, magari, trovare dei brani da cedere alla sua casa discografica per “venderli” ad altri artisti. In effetti alcuni di questi brani vennero poi davvero “presi in carico” da artisti come Peter, Paul & Mary (che, non dimentichiamolo, lanciarono "Blowing in the wind"), Ian & Sylvia, Manfred Mann, Julie Driscoll e Brian Auger, Byrds (che già avevano trasformato e fatto man bassa di successi con alcuni brani di Dylan). Queste versioni non accontentarono pienamente il pubblico, ma resero più forte la curiosità di scoprire non solo come fossero cantati dall'autore, ma anche quali altre gemme celasse questo strano scrigno, noto solo ad alcuni fortunati addetti ai lavori. Le canzoni, quindi, erano state registrate per restare “in casa” e dovevano essere rese note solo per ragioni commerciali e di editoria musicale. Erano state un passatempo tra amici che, tra una bevuta, una chiacchierata, e un'idea di canzone, rinsaldavano l’amicizia nata sul campo di battaglia del fatidico tour del 1966, dove ai brani acustici venivano proposti anche i brani rock scatenando, spesso, le ire del pubblico. Come sempre accade, quando si vuole mantenere un profilo basso nascono le leggende e queste quando si trattava di Dylan, venivano subito amplificate e/o vendute come verità assoluta. A causa di ciò Jann Wenner, fondatore della rivista Rolling Stone, allora la Bibbia del rock, l’anno successivo, il mitico 1968, scrisse un articolo molto approfondito su queste registrazioni, probabilmente senza averle neppure ascoltate. Ma l’imbarazzo venne sciolto in fretta perché già nel 1969 iniziò a circolare un disco non ufficiale, denominato "Great White Wonder", che potremmo definire il primo vero bootleg della storia del rock. In questo album doppio, dal nome che riecheggiava Moby Dick, erano proposte alcune delle registrazioni effettuate da Dylan e dalla Band. Copertina bianca, i titoli delle canzoni, il nome di Dylan. Una registrazione senza infamia e senza lode, ma a dare senso a tutto c’era il senso di mistero che aleggiava intorno a questo doppio vinile.
Un mistero alimentato anche dalla sparizione di Dylan dalle scene, nonché dalla sua partecipazione al festival di Wright ma non a quello di Woodstock, praticamente a casa sua. Un mistero giocato sul tipo di canzoni presenti nell’album e su quelle che, invece, erano sconosciute. C’erano tutti gli ingredienti per un bell’enigma in salsa dylaniana ma, alla fine, la questione era molto più semplice. Le canzoni originali erano nate quasi per caso, mentre quelle tradizionali erano state eseguite solo per il piacere di farlo, senza altre intenzioni. Ed infatti, giustamente, la Columbia non pubblicò quel materiale (all’epoca avrebbero dovuto proporre un cofanetto di almeno dieci album dalla vendita alquanto problematica sia per il prezzo sia per il fatto che Dylan non è mai stato un artista da classifica). Quindi, giustamente non se ne fece nulla, e solo dopo molte insistenze da parte del pubblico ed anche della Columbia, a cui seccava la vendita del bootleg, nel 1975 Dylan e la Band accettarono di trasformare alcune di quelle registrazioni in un album (che sarà poi doppio vinile). Così Robbie Robertson, coadiuvato da un ingegnere del suono della Columbia, Robert Fraboni, iniziò a riascoltare tutti i nastri registrati da Hudson arrivando alla selezione finale che conosciamo da quel dì. Nonostante queste registrazioni ed il grande successo dell’album, la circolazione dei vari bootleg non cessò di infastidire la casa discografica che, con l’avvento del CD si ritrovò con tutte le registrazioni messe a disposizione degli eventuali acquirenti. La qualità non eccelsa di molte di esse  certamente stimolò una diffusione su larga scala, ma la spina nel fianco restava e faceva male. Ed ha continuato ad incuriosire, ingolosire, indisporre milioni di fans di Dylan che non avevano avuto la possibilità di ascoltare altro che le canzoni uscite sull’album ufficiale del 1975 che, pure, era stato trattato con grande cura. Ma un segnale iniziò a farsi sentire a partire dal 1991, quando prese il via l'ormai famosa collana di cofanetti tematici "Bootleg Series", che negli anni man mano stanno colmando i grandi vuoti discografici e cronologici della carriera di Dylan. Sono serviti ventitré anni però per far emergere tutto quell'immenso corpus di brani incisi nella cantina di Big Pink, e così quest'anno la Columbia ha dato alle stampe il numero 11 della Bootleg Series dedicato ai Basement Tapes. Hanno visto finalmente la luce quei brani leggendari, completi e sonoramente ortodossi, che meritavano essere ascoltati nella loro scarna bellezza. I vecchi nastri opportunamente registrati da Hudson sono stati riportati a nuova vita dalla perizia tecnica del produttore canadese Jan Haust che si è messo all’opera per salvare, restaurare, migliorare quei nastri magnetici di quasi cinquant’anni fa (con tutti i problemi di tenuta alla trazione). L’impresa, alla fine, può dirsi riuscita, nonostante il risultato non sia stato quello di produrre un album ineccepibile dal punto di vista tecnico, ma piuttosto di aver riportato alla luce una serie di grandi brani, e di pastiches musicali con un loro innegabile fascino. 
Il cofanetto consta di ben sei cd (esiste anche la versione da due cd contenenti il meglio dell’album) per un totale di centotrentasette i brani di cui effettivi, escludendo le varie takes ripetute, sono centoquattordici. Ben sessantasette sono firmati da Bob Dylan, e solo due composti in collaborazione. La restante parte sono per lo più riletture di brani tradizionali o di altri artisti arrangiati opportunamente per l'occasione. Superando l’aspetto meramente tecnico, fondamentale per capire questa monumentale opera, è immaginare di non conoscere nulla del Dylan post 1967. Con un po' di immaginazione dobbiamo tornare in quella cantina, o meglio in quella grande stanza di mattoni rossi in cui erano stati piazzati gli strumenti, e dove avvenivano le session con il tempo determinato solo dalla voglia di suonare e nulla più. La guerra dei "Sei Giorni" non si è ancora verificata, il “Sergent Pepper’s” è quasi pronto ma non ha ancora visto la luce (uscirà proprio nei giorni di quella guerra…), negli States Martin Luther King Jr. sta conducendo una lotta pacifica contro la segregazione razziale, Cassius Clay è diventato Mohammed Alì, Robert Kennedy sta iniziando i passi per arrivare alla candidatura di Presidente del Paese, Monterey è una cittadina della California non ancora famosa per il Festival di musica rock, il primo grande festival di una lunga serie. Tutto è come un fermo immagine. Anche i Beatles hanno fermato la loro macchina dei tour estenuanti ed artisticamente insignificanti. Tutto è fermo, immobile, il freddo ed il caldo delle stagioni sembrano non contare nulla per questi musicisti che suonano e si immergono in un mondo nuovo, ontano ed antico con la musica tradizionale che sembra andare a bussare alla porta di quello studio improvvisato per ricordare che il tempo presente di quei giorni, altro non è che la continuazione di un passato che non smette di chiedere conto della propria storia. Al di fuori di quella porta il mondo è in fermento, chiede novità, cambiamenti e rivoluzioni ma, paradossalmente, proprio uno di coloro che hanno contribuito a costruire un pensiero nuovo ed indirizzare molti giovani verso una relazione tra uguali che possa cambiare le regole del gioco si nasconde, si cela alla vista del mondo, si preclude ogni contatto che possa immaginare una sua presa di posizione diretta e concreta verso il cambiamento radicale del mondo vecchio. Ma, forse, quell’uomo che sta cercando di ritrovare il proprio equilibrio fisico e psicologico, ha già capito, prima di tanti altri, prima di tutti noi, che il bambino del cambiamento è morto nella culla e che il futuro non sarà affatto rivoluzionario ma resterà reazionario perché è nell’indole dell’animo umano cercare il cambiamento ma, poi, distruggerlo non appena se ne intravede la reale presenza. E se il nuovo messaggio è che la salvezza non può arrivare attraverso un movimento rivoluzionario che il tempo scolorerà in alcuni contesti, trasformerà in terrorismo in altri mentre diverrà tecnologia al servizio del potere proprio negli U.S.A., allora l’unico modo per liberarsi da ogni senso di costrizione è di volgere lo sguardo al passato cercando in parole e suoni provenienti dall’oscurità una luce sicura su cui indirizzare il cammino, un porto certo a cui ancorare la propria nave in mezzo alla tempesta dei nuovi tempi evocati, desiderati, voluti ed ora, anche, temuti. 
Questo è, fondamentalmente, il senso dei “Basement Tapes” per Dylan e per la Band che darà alle stampe, subito dopo, i suoi dischi migliori (“The Band” e “Music From Big Pink”). Dylan, dal canto suo, proporrà il trittico “John Wesley Harding”, “Nashville Skyline” e “New Morning”; tre album che pur nella diversità di approccio rappresentano l’evidente tentativo da parte dell’artista del Minnesota di ritrovare radici e parole non legate all’attualità ma al tempo passato, alla sacralità della Bibbia, ad un suono non più potente ed elettrico ad ogni costo ma più lieve, maggiormente tarato per poter essere ascoltato e fruito dal maggior numero di persone possibile grazie alla estrema semplicità di musiche e testi. Questo lavoro, che esce ora nell’edizione definitiva e completa rappresenta la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. E’ la dimostrazione/manifestazione del genio di un uomo che ha capito di poter raccontare, con le canzoni (sue o riprese da altri artisti), il senso del tempo, quello della vita e della morte, la luce e l’oscurità racchiuso in ciascuno di noi. Volenti o nolenti siamo legati a questo mondo e Dylan, anche se a lui non piace questa idea, rimane un profeta. Paradossalmente, anche le canzoni meno “profetiche” di Dylan sono segnate dal carisma del trascendere la comprensione delle parole e della musica con i sensi ordinari per entrare all’interno di una dimensione, dove tutto è in movimento ed, insieme, tutto è eternamente immobile. Per questa ragione questi vecchi nastri non seguono la distinzione tra il presente dell’ascolto ed il passato della loro creazione, ma il senso profondo della vita e della morte che traspare da quelle canzoni. E’ come ascoltare i blues di Robert Johnson o le canzoni dell’Anthology of American Folk Music di Harry Smith. E’ come ascoltare il sermone di un profeta della Bibbia oppure il canto dei pellerossa sconfitti dopo l’ennesima battaglia. “The Basement tapes”, alla fine non sono altro che il vento che scorre tra un filare di alberi e ci colpisce in pieno volto. Noi non lo vediamo, ma sappiamo che esiste perché ne percepiamo la presenza e la potenza. Così è per queste canzoni: noi non eravamo presenti in quella stanza rossa ma ora che le ascoltiamo sappiamo che una parte di noi e dei nostri sentimenti è racchiuso in esse e da esse noi siamo avvinti, colpiti, suggestionati. Mai sconfitti, però… 


Rosario Pantaleo
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