BF-CHOICE: Rua Port’Alba - Storia Di Uno

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I Rua Port’Alba si formano a Napoli nel 1990 e nel loro progetto convergono suggestioni differenti, che vanno dalle musiche popolari napoletane e campane (i fondatori, Massimo Mollo e Marzia Del Giudice, sono stati e sono tuttora membri del gruppo operaio E Zezi di Pomigliano d’Arco) a sonorità più ricercate, mutuate dalle tradizioni musicali sudamericane e napoletane (sia classiche che tradizionali), nel quadro di una visione d’insieme che potremmo definire “cantautorale”, ovvero legata alla narrativa e alla poetica delle tradizioni espressive più articolate del nostro paese. La discografia del gruppo è orientata sostanzialmente da questi elementi, ai quali fanno da cornice contenuti testuali (scritti in larga parte da Mollo) che definiscono un ambito di azione “militante”. Questo termine ci riconduce, nel caso dei Rua, a due categorie. La politica, intesa in senso generale come intervento e schieramento (nel disco di cui si parla in queste righe, ad esempio, ma anche in altre esperienze della formazione napoletana, ritorna spesso il riferimento a Felice Pignataro e alle attività del centro sociale Gridas di Secondigliano). E la politica culturale, che coincide con un processo di selezione non solo dei temi trattati ma anche dei progetti, dei procedimenti attraverso cui sono realizzati e, di conseguenza, della forma che assumono le produzioni della band. In questo quadro, sebbene lungo il solco di una produzione “espansa” attraverso una progettazione articolata e, per questo, non sempre lineare e costante, i Rua Port'Alba sono arrivati a pensare Storia di uno, l’ultimo album, finanziato in crowd-funding attraverso la piattaforma online Produzioni dal basso. Il disco è ricco di spunti per riflettere sui tanti temi che tratta e che evoca. Inoltre, oltre a rappresentare una produzione “matura” della band, si configura come il risultato dell’interazione tra musicisti di diverse estrazioni, i cui contributi restituiscono, attraverso tredici brani inediti, un racconto equilibrato, originale, brillante e profondo. Abbiamo raggiunto i Rua a Napoli e con loro abbiamo ricostruito la genesi e lo sviluppo del progetto, soffermandoci sugli elementi più rappresentativi di questo nuovo corso della loro produzione. 

Come nasce il disco, qual è il progetto generale che sta dietro alla definizione delle canzoni e della scaletta e perché avete deciso di farlo in questo momento? 
Massimo Mollo - Noi abbiamo una storia abbastanza lunga, in quanto il gruppo è nato nel 1990 sull’onda della necessità di parlare della nostra terra in maniera anche “napoletana”, più urbana rispetto a come si faceva con E’ Zezi. Sfioravamo argomenti anche politici, dal Medio Oriente, al Sudamerica, alla storia dell’Italia e, per questo, i nostri dischi erano un pot-pourri di grandi input. Adesso, dopo tanto tempo - sia per il progetto degli Zezi, sia per l’attività della cooperativa Canto Libero - avevamo lasciato i Rua e io avevo anche pensato di smettere. È stata soprattutto Martina (la figlia, n.d.r) che ha insistito perché questa esperienza non solo continuasse ma si rinnovasse e ricominciasse proprio da un lavoro in studio finalizzato alla produzione di un disco. Avevamo già molte canzoni, scritte per un progetto che poi non è stato più realizzato e, dopo che avevamo ripreso a lavorarci, Marzia si rese conto che nel loro insieme parlavano di una storia. Della storia di una persona normale, di come può essere eroe una persona comune e quindi di un eroismo quotidiano. Quindi abbiamo deciso di concentrarci su questa storia, anche perché è alla storia che le persone stanno attente perché, con un po' di faciloneria, fondamentalmente vogliono sapere come va a finire. Per noi, inoltre, è stato anche un modo per ripiombare nella nostra realtà. Ciò che si legge è la storia di una persona che ha avuto un’infanzia difficile, che non porta però a una vita altrettanto negativa, anzi. E questo è un segno di speranza in cui crediamo e che abbiamo voluto sottolineare. Se vogliamo dire che c’è un messaggio nel disco - anche se nessuno di noi crede più fino in fondo a questa parola - è che una persona normale può fare una vita dignitosa. E la può condurre alla fine, con tutte le sue passioni, vittorie e sconfitte. 

Questo aspetto emerge nello sviluppo dell’album. Da un punto di vista musicale, come è stato rappresentato? 
Martina Mollo - Gli arrangiamenti originali dei brani erano molto semplici e prevedevano una chitarra e due archi. La scelta della nuova veste è stata molto naturale. Io, fin da bambina, oltre ai dischi dei Queen e di tanti altri artisti, tenevo tra gli mp3 anche i dischi di mamma e papà, e quindi molti dei loro suoni stavano già nella mia crescita musicale. In realtà non ho lavorato da sola agli arrangiamenti, perché Antonio Esposito ha contribuito tanto, specialmente nelle ritmiche, gestite da lui, da Gianluca Mercurio (il percussionista) e il contrabbassista Roberto Giangrande. Non nascondo che avevo anche una certa paura, perché comunque ho avuto una certa responsabilità, soprattutto nel far convergere tutto in uno stesso canale. E credo che, alla fine, il risultato è buono, soprattutto perché le fondamenta di questo lavoro sono le canzoni di papà (Massimo Mollo, n.d.r.), di cui io sono la prima fan. 

Mi ha colpito il fatto che - a differenza di quando suonate con gli Zezi - l’atmosfera del disco riecheggi soltanto alcuni elementi popolari, principalmente legati all’uso del dialetto e non alle armonie o agli arrangiamenti. Potremmo dire che si tratta di un disco più lontano dallo stile popolare? 
Martina Mollo - Gestendo anche alcune cose, mi sono ritrovata a metterci anche del mio - che non è proprio quello dei miei. Io negli ultimi anni ho suonato molti generi, alcuni dei quali lontani dalla musica popolare. Sono nata con la musica classica, poi per un periodo c’è stato il rock, poi la musica da camera, in questo momento c’è la musica elettronica. Cioè tutta una serie di cose che difficilmente si sarebbero avvicinate al genere del gruppo. In questo senso, l’ultimi pezzo dell’album, “Voglio sta’ quieto”, è un po' un esperimento tra quello che sono i miei e quello che mi sento io: le tastiere, gli effetti sulle voci. Cose che loro, provenendo dagli Zezi, dove c’è una strumentazione esclusivamente acustica, non avevano mai provato. Però il binomio mi piaceva. 

Uno degli elementi che ho trovato interessanti è stato proprio questo scostamento dalla musica popolare. L’impressione più forte è che proprio questo allontanamento rappresenti una forma di evoluzione dalla quale traspare anche una certa onestà intellettuale e artistica. 
Massimo Mollo - Fabrizia Ramondino disse che spesso la presentavano come scrittrice napoletana. Questo, diceva lei, ti qualifica, ti da un’impronta. Io non sono una scrittrice napoletana, io sono una napoletana scrittrice, che è proprio l’opposto. Noi così ci consideriamo, dei napoletani musicisti. Chiaramente assorbiamo l’enorme cultura di Napoli, che non è soltanto quella della tradizione. Ognuno di noi viene da esperienze diverse: Roberto e Antonio sono due ottimi jazzisti, Gianluca può suonare qualsiasi tipo di percussione etnica, io e Marzia veniamo non solo dalla canzone tradizionale, ma anche dalla canzone napoletana classica e sudamericana, Martina ci ha fatto conoscere tante musiche, tra cui anche Avishai Cohen, questo jazzista dal quale abbiamo ripreso la base del brano “Quel che è giusto”, che a sua volta aveva ripreso da un tradizionale yiddish. 

Un disco come questo, nel quale si parla di politica, di idee, di ideali e che musicalmente è articolato su suggestioni della musica contemporanea ma anche popolare, e non solo, napoletana, come si inserisce nello scenario delle produzioni musicali contemporanee? 
Massimo Mollo - Per noi è tutto molto naturale. Lo abbiamo detto finora. Però poi il mercato non è detto che lo recepisca. Il disco è in controtendenza con quello che abbiamo fatto in passato, almeno a livello musicale. Però mantiene una coerenza di contenuti con la nostra storia. La lingua napoletana non è un limite, ma al contrario ti da una grande possibilità di espressione. È importante non divenire troppo “etnici”. Noi abbiamo dei riferimenti anche in Viviani e nei più grandi scrittori, in La Capria, per quanto riguarda la poesia. I nostri umili tentativi sono stati questi. In più il disco sarà presentato come spettacolo teatrale. Per questo stiamo contattando le organizzazioni per suonare in luoghi dove sia possibile rappresentare, con l’aiuto degli attori, tutta la storia. 

Non posso fare a meno di chiedervi dei riferimenti a De Andrè. Da un lato il rifacimento in napoletano di “Creuza de ”, dall’altro il riferimento alla sua poetica, l’aderenza a un suo approccio, soprattutto nella scelta di scrivere e musicare delle “preghiere laiche”, come “Pate Nuosto” e “Era nato in Palestina”. 
 Marzia Del Giudice - Questo brano era stato registrato in passato ed erano stati fatti alcuni provini. Lo aveva registrato padre Vitaliano Della Sala, il quale fece un appunto a Massimo dicendogli: “Se hai scritto un padre nostro non è possibile che tu sia completamente ateo”. Per questo disco ho pensato che per non appesantire la preghiera sarebbe stato bello - visto che ognuno può credere nell’uomo, nella natura - che a recitarlo fossero voci diverse. In modo anche da far capire che si tratta di una preghiera che può essere interpretata in tanti modi. Allora un giorno siamo scesi in via Tribunali, proprio nel cuore di Napoli, e abbiamo chiesto ad alcune persone se ci davano una mano a interpretare queste frasi. Abbiamo anche un po' scelto le voci che magari ci colpivano, comunque li abbiamo fermati per strada e gli abbiamo fatto interpretare queste piccole frasi. Poi abbiamo accorpato tutte le voci in studio e il risultato ci è piaciuto molto. 

Quindi sono tutte persone scelte per la strada? 
 Massimo Mollo - Sì, sono pizzaioli, ambulanti, e via dicendo. C’è anche qualche nostro amico, ma fondamentalmente si tratta di persone che immediatamente hanno detto di sì (a Napoli non ci vuole molto per convincere a fare una cosa del genere, non c’è alcun tipo di resistenza). Marzia Del Giudice - Ci ha anche stupito positivamente che alcune persone, anche di una certa età, hanno interpretato delle frasi in maniera magistrale. Sarà perché anche la frase si prestava, ma siamo rimasti molto colpiti. Mi auguro comunque che quelli che l’ascoltano abbiano la nostra stessa opinione 

Vogliamo fare qualche considerazione di carattere più tecnico sulla produzione e gli arrangiamenti? Il disco è indubbiamente curato anche da quel punto di vista… 
Antonio Esposito - Abbiamo lavorato come se avessimo fatto il disco trent’anni fa. Abbiamo cercato di registrare insieme più strumenti possibile: tutta la sezione ritmica è stata registrata insieme (batteria, basso e percussioni), così come gli archi. In un pezzo abbiamo addirittura provato a registrare tutti insieme, quasi come se si stesse suonando dal vivo. Quello che si voleva ricreare era l’approccio emotivo della performance. Abbiamo cercato di semplificare anche se ci sono molti musicisti che partecipano. Nei casi in cui gli amici sono venuti a suonare alcune parti, abbiamo voluto che sentissero i brani al punto in cui erano stati suonati e arrangiati, senza dare una direzione specifica ma lasciando che tutti si inserissero in questa atmosfera di unicità e di creazione della storia. E in questo gli ospiti sono stati di grandissimo livello. Qui, a differenza di come succede spesso, abbiamo suonato di più, lasciandoci prendere dai testi e interpretandoli come se non ci fossero altre possibilità. Suonare e basta, senza problemi né obblighi e, soprattutto, insieme. Ci siamo tenuti delle cose eseguite non perfettamente ma che riflettevano il sound e l’atmosfera che avevamo in mente. 

Il disco è stato finanziato con il crowdfunding tramite Produzioni dal basso. È il segno dei tempi ma rappresenta anche una soluzione interessante, i cui risvolti sono politici oltre che prettamente artistici… 
Massimo Mollo - Ci interessava molto questa esperienza, perché in questi casi la politica diviene una cosa reale, cioè applicata alle esigenze delle persone. Senza il crowd-funding il disco non lo avremmo potuto fare. Poi abbiamo affrontato questo progetto grazie anche alla disponibilità della casa editrice Marotta e Cafiero - con cui abbiamo soltanto un contratto di distribuzione - e l’aiuto di tanti musicisti che avevano già provato questa esperienza: Carlo Pignaturo dei Finti Illimani e i compagni dei Gridas, storico centro sociale di Secondigliano, come Martina Pignataro. La cosa che ci ha molto meravigliato è che, settimana dopo settimana, la cosa ha iniziato a funzionare e, mentre stavamo già incidendo il disco, abbiamo ricevuto adesioni e “attratto” co-produttori sparsi in tutta Italia e anche all’estero. Alla fine questo sistema sta prendendo piede in una città che, come sempre quando le cose vanno peggio, culturalmente ed economicamente, esprime un sottobosco molto pieno. Volevo anche ricordare Antonello Paliotti, che ci ha seguito e che ha curato una piccola parte degli arrangiamenti. Gli archi di alcuni pezzi sono i suoi e anche l’intero arrangiamento del brano “‘O lupo”. Vorrei ricordare, infine, Gennaro Pedrone, che per noi era un fratello e che purtroppo ci ha lasciato qualche settimana dopo aver registrato. Per concludere, l’esperienza del crowdfunding ci ha anche permesso di realizzare due cd da inserire nella confezione. Uno di questi è vuoto ed è da masterizzare, così da dare la possibilità alle persone che acquistano il disco di farne una copia e regalarla. 

Rua Port’Alba - Storia Di Uno (Produzioni dal basso, 2014) 
Si scende dentro una Napoli multiforme ascoltando le canzoni che compongono Storia di uno, il nuovo album dei Rua Port’Alba. Dentro una città contraddittoria che ispira una narrativa altrettanto poliedrica, composita, dalla quale emerge, con la stessa forza, il disincanto per le storture e l’ammirazione per la profondità dello scenario. Per l’originalità dell’immagine (provocatoria e retorica allo stesso tempo) di Napoli perennemente decadente e ciclicamente stupefacente. Da cui emergono storie, artisti e musicisti unici nel panorama culturale del nostro paese e da cui si rigenerano spesso linguaggi che assumono forme inaspettate, a volte nuove e avveniristiche. Il disco dei Rua - che si sono formati nel 1990 seguendo il groviglio di ispirazioni e suggestioni legate alla musica popolare locale, alla tradizione classica e alla “urbanità” napoletana, alla politica, all’associazionismo militante, alla canzone d’autore, alle musiche e alle culture espressive sudamericane - è imbevuto di questa continua decantazione e tensione, che il gruppo sa ben gestire. Per questo rilascia delle scosse che si susseguono regolarmente attraverso le tredici tracce, che diventano i tasselli di una storia semplice e profonda, diretta, trasparente ma anche originale, avvolta su se stessa come un foglio richiuso, da stendere, accarezzare e guardare, oltre che leggere. È la storia di uno dei tanti che hanno voluto rappresentare (e che hanno anche fatto parlare nel disco) Massimo Mollo e Marzia Del Giudice, nucleo storico della band e delle iniziative che da essa si sono irradiate, ma anche componenti degli Zezi, il gruppo operaio di Pomigliano d’Arco, in attività dal 1974 (uno dei brani del disco si intitola “Metalmeccanico”: “E davanti ai cancelli di Pomigliano/ alle sei di mattina con gli altri operai/ E davanti alla Fiat a parlar di salario/ a parlare di figli con gli altri operai”). La storia di uno di loro, che per riflesso ci narrano - fuori dalla retorica dell’emarginazione e di un allineamento culturale che si esprime spesso in narrative popolaresche, ma dentro la politica della contrapposizione sociale - una sorta di socialità contemporanea (acida e altalenante, appannata, a volte rarefatta ma dinamica e, come dicevo sopra, multiforme), insieme a un’interpretazione dei segni più vivi dell’interazione tra le persone, le parti, gli uni. La storia di uno, d’altronde, riflette le storie di tutti. Nella misura in cui tutti possono riconoscere e condividere i tratti di una visione inclusiva (condividiamo le stesse strade, in molti casi gli stessi bisogni, oltre alle stesse norme, forse anche molte delle idee che pensiamo, ancora prima di guardarci, capirci e confrontarci), oppure, al contrario, della visione (che ha un valore “letterario” probabilmente più forte, anche se ne consegue un minore valore politico) di chi si decentra, si isola dall’interazione, o di chi è solo e - come il Father Mckenzie di “Eleonor Rigby” - continua a scrivere i suoi sermoni anche se nessuno li ascolterà. Ma nel suo insieme il disco - sebbene racchiuda storie complesse, che ci vengono riconsegnate attraverso una narrazione quasi “verista”, netta e diretta - si configura come un racconto positivo, proprio perché definisce uno spazio entro il quale si riflette sulla stessa politica dell’interazione, sulla politica della cultura, sulla politica della memoria, sulle idee, sulla musica stessa. Come ci dice Massimo nell’intervista, l’eroismo quotidiano è una nicchia riempita coi gesti, la prossimità e le parole. E la vita si vive fino alla fine individuando il senso tutto terreno della pratica della relazione. Il senso profondo della dignità che emana la scelta, ma anche la comprensione del proprio ruolo, della forza della propria voce e della propria presenza, delle capacità, del contributo a una “democrazia” culturale inclusiva ed efficace, aperta, prolifera. E, in questo senso, la (politica della) musica dei Rua Port’Alba prende forma dai loro gesti oltre che dalle loro visioni e dalla loro creatività. Come in “Pate nuosto”, la “preghiera laica” assemblata per strada (in via Tribunali, nel ventre di Napoli) con i contributi delle persone che sono state invitate a recitarne le frasi. O come in “Quel che è giusto”, brano “narrativo” riadattato dalla versione del jazzista Avishai Cohen di un pezzo della tradizione musicale yiddish. Storia di uno è il riflesso di uno sguardo critico ma anche di un’interazione con tutti gli elementi che hanno finito per comporlo, determinandolo come un’opera articolata, nella quale interagiscono una strumentazione variegata (pianoforte, fisarmonica, chitarre, violino, viola, violoncello, mandola, batteria, percussioni, contrabbasso, sax, tromba, trombone, clarinetto, flauto), un approccio “performativo” (registrazioni di gruppo, empatia, interpretazione dei musicisti a scapito di una direzione artistica che avrebbe finito per irrigidire le esecuzioni), la condivisione e, quindi, la rappresentazione convergente ed equilibrata dei contenuti testuali. Questi elementi hanno determinato - insieme ad altri che, pur avendo contribuito al carattere del lavoro, hanno avuto un ruolo più secondario - il profilo di un album molto lavorato e partecipato, sia sul piano progettuale che della realizzazione. Il carattere “collettivo” del progetto risulta, evidentemente, oltre che dalla metodologia indicata da Massimo Mollo e Marzia Del Giudice (ai quali si sono aggiunti la figlia Martina, polistrumentista con una formazione musicale classica e popolare, che si è occupata degli arrangiamenti del disco, Antonio Esposito, Roberto Giangrande, Caterina Bianco, Gianluca Mercurio), anche dalla sua genesi. Determinata dal crowd-funding. Una scelta per necessità, un segno dei tempi che corrono, ma anche una nuova prospettiva. Dentro la quale si sviluppa una nuova forma di produzione che, nella misura in cui travalica la mediazione dell’industria musicale (così come le difficoltà delle piccole case discografiche, spesso incapaci di produrre tutto ciò che vorrebbero) riconfigura il ruolo del musicista. Il quale, riacquistando uno spazio più tradizionale, si affaccia senza mediazioni verso il suo pubblico, assumendosi in pieno la responsabilità della sua produzione e affidando a una dimensione collettiva e popolare la censura o la validazione della sua opera. I Rua Port’Alba hanno forse proprio in questo trovato la loro dimensione. Senza filtri e imbonimenti. Solo franchezza, concretezza e visioni, contatto. Musica e parole: storie. Per adesso Storia di uno.



Daniele Cestellini
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