Gianni Pellegrini – Ferlizze (Alfa Music/Egea, 2013)

Come nasce il brano che da’ il titolo al disco “Ferlizze”...
E' il “manifesto culturale” del terrazzano, che non cerca riscatto sociale perché a ben guardare è fuori dalla storia, come ad esempio i cafoni di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, o come i sottoproletari di Pasolini. Devo spiegare bene cos’è il “ferlìzze”. Il ferlìzze è il seggiolino povero che i terrazzani sapevano costruire, quell’oggetto che appare graficamente stilizzato in color carta da zucchero proprio sulla copertina del disco, seggiolino fatto coi fusti della ferula, un arbusto selvatico che nasce lungo i bordi di strade, fiumi e canali. A Foggia c’è un proverbio che recita: “i segge annanze e i ferlìzze arret’” (= le sedie davanti, i ferlizzi dietro). Significa che le persone importanti devono venire prima di tutto, invece i poveri, i reietti della società, anzi in questo caso i “fuori dalla storia” vengono per ultimi perché poco importanti. Questo proverbio mi è sembrato emblematico, e la parola “ferlìzze” è stata ai miei occhi subito quella giusta, sia per il significato che per il significante: l’oggetto è un simbolo perfetto per i terrazzani, molto più di tanti altri che avrebbero potuto essere presi in considerazione; e la parola “ferlìzze”, il significante, ha la musicalità e la pronunciabilità giusta, da Foggia al resto d’Italia. I terrazzani difficilmente si integravano, anzi vivevano ai margini della città, anarcoidi e quasi zingareschi. Lo stesso Sauchelli, commissario demaniale nella Foggia postunitaria, scrive un interessantissimo saggio sui terrazzani, e prende spunto proprio dal fatto che “all’ora del crepuscolo” giungevano in città con le loro erbe selvatiche, le taragnole e tutto il resto da vendere o barattare e poi sparivano, quasi fossero presenze “altre” rispetto alla città, dei “foggiani non-foggiani”. E una delle loro specialità era ed è un piatto molto tipico ancora oggi in città: i fogliammishke, citate nella canzone precedente. E’ la capacità di creare un piatto con le erbe selvatiche raccolte casualmente in quel determinato giorno, magari con un po’ di pane raffermo. Anche questo è un piatto “anarchico”: non sai mai cosa ci metti dentro perché non sai mai cosa la terra ti avrà potuto e voluto donare quel giorno. A proposito di Ferlìzze vorrei dire due parole sulla musica: è indubbiamente la canzone che più si allontana dal folk, sia per armonia che per arrangiamento, e sono stato lungamente indeciso se licenziare il brano in questo modo o se riarrangiarlo. Ma non c’era niente da fare: il pezzo era nato così, era ed è rock-cantautorale sin da subito, e sin dai primi due accordi: quel FA maggiore/MI minore mette immediatamente le cose in chiaro. E visto che l’intento era quello di osare, mettendo al centro di tutto la musicalità del dialetto foggiano, ho osato. Il complimento più bello l’ho avuto un giorno in cui mi trovai in una tipografia a stampare delle cose. Il tipografo mi dice: “ho ascoltato le tue canzoni. C’è una cosa che mi ha colpito più di tutte: non avrei mai creduto che il dialetto foggiano potesse avere una resa così bella. Il dialetto nostro in mano a te diventa lingua.” Per carità, solo un complimento sebbene molto bello, una piccola conferma della riuscita di quelli che erano i miei intenti estetici. Ma soprattutto la percezione che il dialetto foggiano può anche misurarsi non soltanto con i soliti canoni folk d’importazione ma può sposarsi con tutto. 

Tra i brani più intensi c’è “‘A Nonna Nonne”, una ninna nanna dolcissima che apre uno spaccato nelle famiglie terrazzane… 
Come si avverte sin da subito il brano “’A nonna nonne” è di fatto una canzone “triplice”, con tre momenti musicale ben definiti. Le figlie in età da marito andavano a caccia col padre, per potersi procurare qualcosa da investire nel corredo. Questo è un altro degli elementi originalissimi di questa gente: la donna è molto tenuta in considerazione, tanto che il padre la porta appunto a caccia con sé. Questa canzone è una sorta di favola in cui la giovane terrazzana si recaa caccia di taragnole (allodole).La taragnola la vede arrivare colpadre e le predice il futuro in unaninna nanna. Si, è vero, la ninna nanna è dolcissima, ma è si trova nel finale; in tutto il resto del brano invece c’è un andamento molto ritmato costituito dalle scene della caccia, spezzato due volte dal fiabesco dialogo/predizione della giovane terrazzana con l’allodola, momento musicalmente reso con un bellissimo valzer, a voler dare una dimensione quasi principesca, volutamente in contrasto con un mondo che principesco non o è affatto, è anzi molto duro. Ma parliamo pur sempre di una ragazza in età da marito, una che sogna il suo futuro, e per la quale “quello” è il suo desiderato futuro. 

In “Vogghie Esse Femmena” racconti la prima notte di nozze di una giovane coppia di sposi terrazzani. Cosa ti ha ispirato questo brano? 
Ancora una volta la voglia di dare una dimensione artisticamente elevata ad un contesto antropologico che difficilmente ne suggerirebbe. Questo disco è nello stesso tempo corale e individuale. Qui abbiamo a che fare con personaggi veri e propri, seppur senza nome, con una donna ed un uomo alla loro prima notte di nozze. Ho giocato con richiami simbolici fortemente allusivi ed erotici, con la fierezza e nello stesso tempo col senso di dedizione alla coppia ed alla famiglia della terrazzana. Il tutto su di un impianto musicale intensamente melodico. Il risultato mi pare semplicemente incantevole: ne è venuto fuori un personaggio femminile secondo me di grande spessore e di grande potenza estetica. E qui è stata ancora una volta ardita la scelta dell’utilizzo del pianoforte con un quartetto d’archi. E’ una bellissima canzone d’amore, con strumenti e arrangiamento assolutamente “nobili”, il tutto in un contesto che apparentemente non rimanderebbe ad alcuna “nobiltà”. Eppure… 

“Stizzicheje” è un adattamento di una poesia di Amelia Rabbaglietti che ci conduce nel cuore dei vicoli della vecchia Foggia con un bimbo che scorrazza e una mamma che lo rincorre per farlo tornare a casa… 
Amelia Rabbaglietti era, tra l’altro, una prozia di mia moglie, in casa sua ho sempre sentito parlare di lei. Ma è stata una donna in gamba proprio per la vita culturale della nostra città: insegnante, fondatrice e direttrice di una scuola materna ed elementare di gran livello didattico, poetessa dialettale, drammaturga e cultrice di tradizioni popolari locali: una donna eclettica e nubile (1881-1975) in una Foggia “antica” e provinciale. Il libro dal quale ho tratto Stizzicheje è una raccolta di sue poesie pubblicata nel 1957: Stizzicheje era là, pronta ad entrare nel mio disco subito dopo la prima notte di nozze della terrazzana. Quale migliore occasione che questa, per omaggiare una grande donna e nello stesso tempo per trovare le parole giuste per dipingere un “quadro di vita paesana”, parafrasando proprio il titolo del libro in questione? Anche qui ho voluto osare. Nel senso che ho voluto abbandonarmi al classico, al “locale” (benché io sia convinto che non esistano poeti “locali”, ma poeti e basta,semmai dialettali), ed anche la musica resta coerente con questo intento: una tammurriata pazzerella con innesco di giocosa filastrocca fanciullesca, che hanno cantato proprio i miei bambini, divertendosi un mondo, in un insolito mercoledì mattina romano presso gli studi della Alfamusic. I tamburi a cornice sono la presenza meravigliosa di Guido Primicile, bravissimo Pulcinella dei Nakote Teatro a Napoli, mandolinista e chitarrista di gran livello, ma in questo occasione, appunto, percussionista coi suoi tanti tipi di tamburi a cornice. 

“‘A Rote” si sofferma sugli esposti, i figli abbandonati nelle ruote dei conventi dalle famiglie povere impossibilitate a mantenerli… 
Ogni volta che eseguo questa canzone in pubblico risulta sempre la più emozionante, più di una volta mi è capitato di scorgetre occhi luccicanti tra il pubblico. Si, anche a Foggia c’era una ruota degli esposti, nell’Ottocento. Ma intendo proprio AL COMUNE di Foggia, non solo nei conventi. E qui si tratta sempre della terrazzana con ormai tanti, troppi, figli da sfamare: era purtroppo diffusa l’usanza, per così dire, di lasciare i figli “di troppo” alla ruota degli esposti o dinanzi al portone di palazzi nobiliari, nella speranza che i bimbi potessero avere una vita migliore. Raffaele de Seneen aveva scritto una poesia intitolata ‘A rote per un’altra occasione, non per il disco. Mi piacque subito, ma c’erano troppe strofe, e tutt’altro senso: era una ragazza sedotta e abbandonata, vittima di violenza. Io l’ho presa e l’ho completamente stravolta: ho eliminato per intero almeno due o tre strofe di troppo, ho riscritto qua e là qualche verso, ed ho aggiustato una metrica traballante in alcuni punti. E soprattutto, come per le altre canzoni, ne ho composto la musica. Doveva essere un approccio subito doloroso, lancinante, che mettesse in chiaro le cose immediatamente, perché il rischio di scadere nella retorica, dato l’argomento, era elevato. Il momento fotografato dalla canzone è quello in cui la mamma si trova davanti al portone di un sontuoso palazzo nobiliare. Sta per lasciare il suo neonato e si abbandona al sogno: sogna lei, per il suo sfortunato bambino, una vita migliore, ma la colgono i dubbi: forse è meglio lasciarlo al convento, e sognare per lui una carriera ecclesiastica. Ma poi un drastico ritorno alla realtà: no, meglio la ruota degli esposti al comune, a regalargli un destino assolutamente casuale, e vada come vada. 

“Aratrecille” racconta di un terrazzano ormai giunto alla fine della sua vita che lascia in eredità ai suoi cari un aratro… 
Il piccolo aratro costruito in legno per il terrazzano in punto di morte veniva posto sotto il cuscino del terrazzano stesso. Non è ben chiaro il motivo di questo strano rituale, alcuni hanno ipotizzato si trattasse di una specie di lasciapassare per il Paradiso, un po’ a farsi perdonare le “marachelle” che un personaggio come il terrazzano in vita di tanto in tanto commetteva. E’ piuttosto affascinante, visto che il terrazzano, come detto, non coltiva la terra (salvo che in sporadici limitatissimi casi) e dunque l’aratro non fa parte, generalmente, del suo “corredo” etno – antropologico. In questa canzone il piccolo aratro, l’aratrecille, diventa testamento culturale, quasi una bacchetta magica che trasforma il terrazzano in uccellino (di qui il ritornello onomatopeico “passarille passarille / zuì zuì zuì”) rendendolo finalmente ed eternamente libero. Anche il parlato finale è assolutamente coerente con tale impostazione: il terrazzano lascia una sfilza di tutto e niente, di simboli apparentemente effimeri, poco di valore in un impossibile mondo consumistico quale quello di oggi, eppure simboli di grande potenza libertaria: “una tavola vi lascio / (ma) una tavola digiuna / perché io vivo, e sempre ho vissuto / senza padroni”. In questo brano musicalmente si affaccia addirittura il rock progressive, è un pezzo davvero sorprendente, e ancora una volta ho avuto conferma che miscelare il dialetto foggiano con tante espressioni musicali ha dato esiti sempre più che felici. 

Il disco si conclude con un brano che hai composto circa vent’anni fa, “Cento Giornate Foggiane”, che presenti come bonus track, ma che si inserisce perfettamente nella narrazione di “Ferlizze”. Il bombardamento che nel 1943 rase al suolo Foggia, cancellò irrimediabilmente anche una importante fetta del vostro passato. Come nasce questo brano e quali sono le ispirazioni che lo hanno animato?
Quando lo scrissi, più o meno ventenne, non potevo immaginare che oltre vent’anni più tardi avrebbe concluso un disco sui terrazzani, anzi la eseguii due o tre volte, ma in città passò praticamente inosservata, e così la lasciai (stupidamente) a morire in un cassetto. Pensai: “a chi può interessare una canzone che reca una strofa in dialetto foggiano e che non interessa nemmeno ai foggiani?”. Ovviamente ero giovane e totalmente sprovveduto nel fare simili discorsi. Ma una cosa avvertivo chiaramente anche allora: a me pareva con assoluta evidenza che la canzone fosse molto forte, che avesse una grande potenza evocativa, e più persone me lo confermarono, anche se, come detto, la canzone all’epoca passò inosservata. La scrissi perché mi incuriosiva sempre il racconto di mia nonna paterna Ester, che visse quella terribile estate, con mio nonno che era lontano, in guerra. Lei usava sempre un’espressione, che mi rimase stampata nella mente: “Giuà, a nonna, io me ne scappavo con tuo padre in braccio di un anno e tenevo ‘u latte shkandate, e il bambino non lo beveva, lo rifiutava”. Per “latte shkandate” si intende il latte “spaventato”, “terrorizzato”. L’idea che esistesse qualcosa di così orribile da entrare negli ormoni di una mamma e cambiarle il sapore del latte al seno, per antonomasia simbolo di vita, di crescita, di gioia, mi colpì molto. Poi mi capitò di leggere “E la morte venne dal cielo” di Luca Cicolella, un bellissimo e struggente diario-cronistoria di quei cento e passa giorni, e ne rimasi definitivamente folgorato. Scrissi questa canzone con un inserto di dialetto foggiano già sorprendentemente efficace, dando voce, col discorso diretto, ad un cittadino foggiano che risponde ai proclami radiofonici, rassicuranti e falsi, del Maresciallo Badoglio che cercava di rassicurare la città dopo i primi bombardamenti. Il testo contiene una polemica finale contro gli americani ma non per contestare gli Alleati, bensì per porre la questione di una storia che scrivono solo i vincitori, e in cui i vinti non hanno mai diritto di parola, di menzione, di ricordo. Si stimarono oltre ventimila morti, anche se tale cifra è stata negli ultimi anni messa in discussione da più di uno storico. Però fu comunque un’ecatombe(e nessuno ne parla, specie sui libri di storia), tanto che Foggia ricevette ben due medaglie d’oro: una al valore civile, nel 1959, e una al valor militare nel 2006. Anche qui c’è da esprimere rammarico nei confronti della vicenda del numero delle vittime: a Dresda, ad esempio, fu istituita una commissione, per contrastare cifre anche là ballerine, che stimò un numero preciso, ufficiale, definitivo. A Foggia un lavoro del genere non fu mai fatto. 

Hai già debuttato dal vivo con un concerto dedicato al progetto “Ferlizze”. Puoi anticiparci come saranno i concerti di promozione del disco? 
Si, abbiamo debuttato con la band dal vivo, composta da persone affiatatissime, oltre che valentissimi musicisti: Cristina Donofrio (tastiera, fisarmonica e voce), Cesare Rizzi (chitarra solista), Sergio Picucci (basso), Alfredo Ricciardi e Cristiano Nimo (percussioni), Chiarastella Fatigato (flauto traverso e voce), ed io stesso alla chitarra e ovviamente alla voce solista. Il dilemma sta tutto nel cercare di avvicinarsi il più possibile agli arrangiamenti del disco, senza snaturare la nostra vocazione live quasi completamente acustica. Il disco, come ho più volte spiegato prima, ha un’anima rock, noi invece usiamo ad esempio il cajon e non la batteria, e la chitarra classica per accompagnamento, e quella folk come solista, non la elettrica. Però dopo il primo concerto, organizzato dal Comune di Foggia e tenutosi all’Audiorium Amgas di il 16 febbraio scorso, abbiamo avuto un riscontro incredibilmente positivo. Il lavoro di fusione tra le istanze del disco e la nostra anima live possiamo dirlo decisamente riuscito. Tra il pubblico, inoltre, era presente Rocco Pasquariello, manager di Peppe Barra e di tanti altri grandi artisti napoletani, venuto apposta da Napoli a Foggia per ascoltarci. Ci ha portato anche un messaggio dello stesso Barra, che aveva ascoltato e molto apprezzato Ferlìzze. Una gioia enorme, anche perché non era certo che venisse. I prossimi concerti? Ne faremo molto probabilmente uno a maggio per la Fondazione Apulia Felix, che (insieme alla Fondazione Banca del Monte di Foggia) ha contribuito concretamente alla realizzazione del disco. Poi chissà… Stiamo aspettando ancora l’esito di alcuni contatti. 



Gianni Pellegrini - Ferlizze (Alfa Music/Egea, 2014) 
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Opera prima del cantautore foggiano Gianni Pellegrini, “Ferlizze” è un concept album, composto da otto brani, attraverso i quali viene raccontato il vissuto dei Terrazzani, ceto popolare della Capitanata a forte impronta matriarcale, mai sottomessi ad alcun padrone, fieri del loro sostenersi con la caccia, la pesca e il raccolto, e dediti al culto mariano della Madonna dei Sette Veli e della Sacra Tavola rinvenuta in un pantano. Il loro profondo senso di identità li ha così portati a resistere ai tanti cambiamenti che nel corso dei secoli hanno caratterizzato il territorio di Foggia, terremoti, epidemie, bombardamenti come quello dell’estate del 1943, nulla ha scalfito la loro genuinità, il loro dialetto, i loro costumi, e persino i loro insediamenti, come Borgo Croci, impareggiabile esempio di urbanistica spontanea. Tra le caratteristiche più note dei Terrazzani, c’era anche l’uso delle ferlizze, particolare sedia manufatta costruita con la ferula o ferulizzo, ossia un fusto selvatico che cresceva vicino ai fiumiciattoli locali. Questo particolare termine, è diventato così la metafora della loro esistenza riflessa nelle canzoni del disco, e non è un caso che Pellegrini nella title track canti “Sime ferlizze, l’ate so segge (siamo ferlizzi, gli altri sono sedie), quasi a voler sottolineare la loro subalternità nella gerarchia sociale cittadina, ma allo stesso tempo il loro essere fieri nel possedere “quisti doje mane (queste due mani)”, unica ricchezza della loro vita. Ad affiancare Pellegrini nella composizione dei vari brani è Raffaele De Seneen, studioso di tradizioni popolari, mentre la cura degli arrangiamenti è stata affidata al violinista Marcello Sirignano, che ha messo insieme per l’occasione un solido gruppo di strumentisti composto da Marco Rovinelli (batteria), Pierpaolo Ranieri (basso), Alessandro Gwis (pianoforte), Fabrizio Guarino (chitarre), Cristina Donofrio (fisarmonica), Guido Primicile (tamburi a cornice), Giuseppe Tortora (violoncello), Chiarastella Fatigato (cori), e Giuseppe e Michelino Pellegrini (cori). I brani dal punto di vista prettamente musicale si caratterizzano per sonorità che evocano il folk urbano del Tavoliere, mescolando influenze che spaziano dalla world music al pop, il tutto finemente condito da testi in dialetto foggiano caratterizzati da un pregevole songwriting d’autore. Il risultato è così un disco che nel raccontare la storia di un ceto umile come quello dei Terrazzani, apre uno spaccato di riflessione sulla cultura locale, che emerge tanto nei brani più intimi quanto in quelli più corali. Ad aprire il disco è “Terra Appandanate” nel quale Pellegrini racconta la genesi di Foggia, tra il culto mariano (pur’essa è mamma/arrasse i sette vele e a vide che chiagne pe nuje), i suoi terreni acquitrinosi, e il povero cibo quotidiano fatto spesso di verdure selvatiche (“lampasciulle, lampazze, arùchele e perazze”). Si prosegue con la già citata title track in cui l’ascoltatore viene a contatto con la povertà e la miseria dei Terrazzani, ma subito dopo arriva la splendida “’A Nonna Nonne” in cui viene raccontata la storia di una giovane che si reca a caccia di allodole per potersi fare un giorno il corredo da sposa, e proprio un allodola vedendola arrivare con il padre le predice il futuro in una ninna nanna.  Ritroviamo la giovane, ormai moglie, anche nel brano successivo “Vogghie Esse Femmena”, in cui viene raccontata la prima notte di nozze di una giovane coppia terrazzana. Particolarmente suggestiva è poi “Stizzichejie”, tratta da una poesia di Amalia Rabaglietti, che offre uno spaccato della vita di un vicolo. La povertà ritorna nella struggente “’A Rote” in cui Pellegrini ci canta dell’addio di una mamma al figlio, che è costretta ad abbandonare nella ruota degli esposti, perché impossibilitata a mantenerlo. Sul finale arriva poi “L’Aratrecille”, testamento spirituale di un terrazzano, che lascia come eredità un piccolo aratro (“Aratrecille eje na mascije ca te face cagnà, aratrecille eje na bacchetta ca te face vulà”), un simbolo d’amore verso la terra, ma anche di libertà (“E mo ve lasse e ve fazze ricche ricche, ve lasse n’acqua, n’acqua appandanate, nu bufe, nu schernuzze, na fine de jurnate, na jummenda e nu pellidre abbeverate, na tavele ve lasse, na tavele dijune pecché campe e sempre agghie campate senza padrune). A completare il disco è la bonus track “Cento Giornate Foggiane” brano composto da Pellegrini negli anni Novanta ma che si inserisce perfettamente nella narrazione, raccontando i bombardamenti delle forze aeree angloamericane che rasero al suolo la città nel 1943. Dai tanti racconti ascoltati dalla nonna e dalla lettura di “E La Morte Venne Dal Cielo” di Luca Cicolella, Pellegrini ha tratto un brano di grande impatto emotivo, che suggella un disco di pregevole fattura, in grado di dare voce a quella cultura immateriale, che troppo spesso le nostre città tendono a gettare nell’oblio. 



Salvatore Esposito

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