A novantaquattro anni, Gianni Coscia è un vulcano di energia creativa e orgoglio. "Guai se trovo uno più vecchio di me, lo faccio sopprimere perché voglio essere io il più vecchio", scherza. Musicista, avvocato, ex bancario e amico intimo di Umberto Eco, Coscia sta vivendo una stagione artistica sbalorditiva, con tre dischi registrati in pochi mesi. Un album in solo, “La Violetera”, un duo, dialogo tra mantici, con Alessandro D'Alessandro, “93-39/39-93”, e un terzo con Gianluigi Trovesi in attesa di stampa. Un’occasione per parlare della sua filosofia musicale, del suo rapporto con lo strumento e della sua lunga vita. (A.S.)
Maestro…
Per favore non chiamarmi maestro e diamoci del tu. Per altro, in questi giorni facevo una riflessione e, alla fine, ho deciso di definirmi armonicista perché mi sento molto diverso. Intanto, suono uno strumento cromatico. I miei bottoni sono rientranti e non “a scaletta” come nella maggior parte delle fisarmoniche a bottoni. Tra l'altro, non uso il pollice. Quelli che suonano col pollice fanno molte più note di me, questo è ovvio. Io ne ho sempre fatte poche perché non sono capace di farne tante. Trovo che la posizione della mano sulla tastiera, usando il pollice sul bottone, sia contro natura. La mia mano è aperta sulla tastiera anche perché ho imparato da mio padre, che aveva una fisarmonica a cui mancava la prima fila. Sono
rimasto con questa tecnica primordiale che si usava nel primo Novecento. Ho fatto fare una mascherina apposita per ottenere un suono pastoso, mio, personale. I fisarmonicisti di solito la tolgono per far squillare il suono. E poi, sul frontespizio della grande fabbrica Dallapè di Stradella c'era scritto “fabbriche armoniche”. Hanno aggiunto “fisarmonica” dopo, che è anche sgradevole.
Hai sempre avuto un rapporto complesso con la letteratura per il suo strumento…
Non ho mai posseduto un metodo per fisarmonica. Ho letto tanta musica, ma non ho mai osato fare trascrizioni. Alla fisarmonica, secondo me, manca una letteratura. Bisogna stimolare i compositori a scrivere per questo strumento. C'è chi suona Paganini sulla fisarmonica, io no. Trovo sia una cosa strana. C'è qualcuno, devo dire, più strano di me che fa il jazz. Ma il jazz è un'altra cosa. Nel jazz non suoniamo un genere di musica. Questo lo disse anche Umberto Eco. Lui disse: “Se il jazz è un genere, deve essere suonato da una panoplia di strumenti canonici. Ma se invece il jazz è un modo di esprimere quello che uno ha dentro con sincerità e immediatezza... allora può essere suonato anche con l'ispirazione”.
A novantaquattro anni, stai vivendo una stagione creativa incredibilmente intensa…
Gianni Coscia: Sì, ho inciso tre dischi, credo non l'abbia mai fatto nessuno. Uno con Alessandro
D'Alessandro, che suona l’organetto, strumento che invidio moltissimo. Uno da solo, “La Violetera”. Il grande Paolo Fresu, un genio della musica, mi ha quasi sgridato dicendomi che dovevo fare un disco da solo. L'ho fatto e sembra che vada molto bene. E ce n'è un terzo fermo da tre anni con Gianluigi Trovesi, spero che la ECM si decida a stamparlo.
Come vivi l’emozione di questa intensa stagione creativa?
Come qualcosa veramente di fuori dalla realtà. So cosa vuol dire incidere un disco, ne ho fatti tanti, e non si può fare in poco tempo. Invece tutti e due [il solo e il duo] li abbiamo fatti a tamburo battente. Con Alessandro ci siamo seduti al Teatro del Sale di Firenze, abbiamo registrato e siamo andati a casa. Di solito per un disco bisognerebbe spendere almeno 10-15 giorni, si risente, si modifica. Quando mi ha chiamato Paolo Fresu per il disco da solo, sono entrato un pomeriggio, ho suonato due o tre ore; sono entrato il secondo pomeriggio e ho finito. È un'emozione che mi sconvolge, soprattutto per la rapidità con cui a 94 anni ho fatto queste cose. Forse è anche l'incoscienza. Forse quando si raggiunge la mia età si diventa un po' incoscienti, come a quattordici anni. Sta di fatto che tutti e due sono stati accettati, sono piaciuti, li hanno stampati. Sono senz'altro emozionato e orgoglioso. La qualità non la so, non posso giudicare se ho suonato bene o male, ma sono due dischi sinceri. Sicuramente, perché sono stati fatti di getto e perché raccontano una storia.
Sostieni che un disco deve “raccontare qualcosa”. Quali storie raccontano questi nuovi lavori?
Penso che quando si fa un disco si deve raccontare qualcosa. Con Alessandro forse abbiamo raccontato questo incontro tra due strumenti che sembrano incompatibili e abbiamo rivangato le nostre radici, le nostre canzoni. Nel mio disco solista, addirittura, ho incontrato la mia vita. Sono partito con le musiche di mio padre, le musiche che ho sentito fin da bambino. Le musiche americane: a 11 anni, nel 1942, sentivo dischi di jazz grazie a un cugino calzolaio che giocava nella Roma e mi portava i dischi americani.
Perché hai atteso tanto tempo per raccontarsi in una forma così intima con "La Violetera"?
Non ho mai pensato di raccontare la mia vita. Incidevo perché capitavano sollecitazioni, c'erano temi da svolgere. Ho sempre raccontato storie: ho raccontato l'attualità di Frescobaldi, o il mio attingere alla musica popolare. Ma raccontare proprio la mia vita non ci avevo mai pensato. È stato Fresu che me l'ha fatto fare e io, senza accorgermene, ho incontrato mio padre, ho incontrato mia moglie Laura con il tema di "Laura", una canzone americana meravigliosa. Ho raccontato i miei bambini, che adesso hanno più di 50 anni, nel brano “Tre bimbi di campagna”. Ho raccontato i tanghi, che per me non sono cominciati con Piazzolla. Piazzolla è stato un grandissimo innovatore, ma il tango è stato inventato prima del jazz. Ho suonato il tango di Gardel. E poi ho raccontato Kramer, di cui mi sento l'erede. Sono partito da lui, per me è un faro importantissimo.
Umberto Eco è stato illuminante. Quando ho fatto il mio primo disco con delle marce popolari piemontesi, cosa inaudita per il jazz, fu lui a dirmi quella frase sul jazz come "modo di esprimere". Però, se parliamo del gusto dell’autobiografia, direi che non è esatto, perché lui non l'ha mai amata. Ha raccontato la sua adolescenza, questo sì, ne “La misteriosa fiamma della regina Loana”.
A quel libro hai dedicato un disco con Gianluigi Trovesi…
Bravo. In quel libro io sono uno dei personaggi. L'amico intimo del protagonista si chiama Gianni Laivelli. Gianni sono io. Laivelli è la fusione di due altri amici. E tutti gli episodi attribuiti a questo personaggio, in realtà, sono cose successe a lui, Umberto. Quindi è caduto anche lui nel tranello dell'autobiografia, ma ha raccontato solo la sua adolescenza. Io nel disco “La Violetera” ho raccontato tutta la mia vita.
Il titolo, “La Violetera”, è particolare. Com'è nato?
Se mi chiedi perché si chiama “La Violetera” mi viene la pelle d’oca. Ancora adesso non mi so spiegare perché ho suonato questo brano di José Padilla. L'ho sempre conosciuto, ma non l'ho mai suonato. Quel giorno ho fatto “Por una cabeza”, un tango di Gardel, e volevo suonare anche “Garganta con arena”, e mi
sono detto: "Come li lego?". E ci ho messo dentro “La Violetera”. È un fatto inspiegabile. Forse è stata un'ispirazione di mia madre; nel disco ho ricordato mio padre, i figli, mia moglie Laura, e forse mia madre mi ha detto: “Ricordati di me, suona ‘La Violetera’”. La cosa sorprendente è che io l'ho considerato quasi una parentesi per legare i due tanghi. Invece, miracolosamente, quando Paolo [Fresu] ha sentito il disco, gli è venuto subito il colpo di intitolarlo “La Violetera”. Ed è stato un colpo di genio. In effetti quel brano, fatto con pochissime note, è forse il tema più importante del disco. È la mia vita, io ho fatto sempre musica con poche note. Chi ha conosciuto meglio la mia anima è stato proprio Fresu.
Da come ne parli, sembra che i brani siano stati suonati in un unico flusso di coscienza, uno dietro l’altro, di botto.
È certo, è così. Quando Paolo mi ha detto di fare un disco da solo, subito, l'ho preso quasi come un'imposizione, come se dovessi morire. Mi è venuta paura. Perché ho suonato mio padre? Perché ho suonato “Laura”? “Perché La Violetera”? Perché Kramer? Non ho avuto tempo di pensarci. Lui me l’ha detto forse un venerdì, e io il lunedì ero già in studio. Mi sono seduto e ho suonato. Vuoi che ti confessi? Io non l'ho ancora sentito. Ho paura di trovare qualcosa che non mi piace.
Veniamo al disco con Alessandro D'Alessandro, "93-39/39-93”. Un duo palindromo, 93 anni lei e 39 lui. Come avete scelto i brani?
Non mi ricordo più. Devi chiederlo ad Alessandro, perché anche lì è stato talmente spontaneo che non ricordo. A me piaceva molto come faceva "Azzurro" di Conte. Poi abbiamo fatto “La danza dei pastori”, un mio brano. Era un’aggiunta che avevo scritto per un disco su Frescobaldi. Avevo preso quattro voci dalle sue partiture per organo e le avevo orchestrate per quattro strumenti: la mia armonica, la tromba, il trombone e il basso. Non ho toccato una nota di Frescobaldi. Poi, ispirato dai suoi temi, ho fatto delle aggiunte su cui potevamo improvvisare. Il merito è di Frescobaldi: 500 anni fa ha fatto una musica che è attuale ancora oggi.
Alessandro ha detto che lui è l’anziano del duo e tu il giovane. Si ritrova in questa affermazione?
No, questo non è possibile. La cosa giusta è che la musica unisce le persone. Il vero strumento per finire le guerre è la musica, non le diplomazie. La musica può veramente unire anche le generazioni. La musica, se praticata sinceramente, può unire un ventenne con un novantenne. Io con Alessandro mi sento della sua età e lui, suonando con me, si sente della mia. Non è che io sia giovane e lui vecchio: è che non c'è età. Non esiste più il tempo. Ho suonato con Max De Aloe, potrebbe essere mio figlio. Con Sellani, che era più vecchio di me, abbiamo fatto un disco e non ho mai capito chi dei due fosse il più vecchio. In realtà, non è
Quanto è importante il rapporto con il pubblico?
Il pubblico fa parte della formazione, questo è molto importante. Ti fa suonare in un certo modo. Però ti può portare anche fuori strada, perché stimola a cercare l'effetto. Come il tenore che cerca l'acuto finale per strappare l'applauso. Io apprezzo molto quando, alla fine dell'ultima nota, l'applauso non scatta subito. Quando vado a un concerto chiedo sempre: "Ti ha stupito o ti ha commosso?". Se mi dice che lo ha stupito, mi piace fino a un certo punto. Se mi dice che lo ha commosso, la cosa mi tocca di più. Preferisco quasi... Una volta ho chiesto al pubblico: “Per favore, stiamo facendo l’ultimo brano. È molto riflessivo, fatemi la cortesia: alla fine non applaudite". Finito il brano, non applaudono. Aspetto qualche secondo, leggo due quartine, non applaudono. Sono tutti lì in silenzio. Quando dico "grazie", allora applaudono. Quello per me è un momento di rapimento, molto importante.
Lei ha detto più volte di suonare “poche note”, quelle essenziali. Quali sono le note essenziali da suonare?
Eh, non lo so. È il segreto dell’essenzialità. Più uno riesce a scavare dentro di sé, più riesce a dire quello che prova senza fronzoli. Quante volte io e Umberto [Eco] siamo stati seduti un'ora uno accanto all'altro senza dirci una parola. Eppure sembrava che ci parlassimo. Cosa ci dicevamo? Semplicemente che ci volevamo bene. L’essenzialità non puoi cercarla. O ce l'hai, o ti viene in quel momento. Se quando suoni cerchi l'effetto, devi fare tante note. Se cerchi invece la commozione.... Uno dei complimenti più belli me l'ha fatto una donna: "Sa perché mi è piaciuto? Perché mi ha fatto sentire una fisarmonica triste". Una fisarmonica triste non la fai con tante note, devi farne poche ma intense.
Salvatore Esposito
Gianni Coscia – La Violetera (Tǔk, 2025)
C’è il mondo sempre più frenetico in cui viviamo. E c’è il balsamo condiviso da narratori innervati dalla calma, da gesti che vengono da lontano. Fra questi poeti del tempo “giusto” Gianni Coscia ha un posto tutto suo. Se gli viene chiesto perché abbia scelto l’armonica (termine che preferisce a fisarmonica), risponde di non averla ancora scelta: era, semplicemente, lo strumento del padre. Il suo album “solitario” arriva a quarant’anni dalle prime e rare incisioni con un gruppo suo. “L’altra Fisarmonica” venne registrato nel maggio del 1985 a Milano (nello Studio 7) per l’etichetta Dire e ricordo di aver sostato qualche istante nel mettere a confronto data di nascita dell’artista e data di realizzazione del primo lavoro a suo nome: uno iato di 54 anni, davvero un musicista senza fretta. Così come colpivano le note di copertina de “La Briscola”, realizzato quattro anni dopo. Gianni Coscia scriveva: “Questo disco è un impegno nuovo, un progetto rischioso, è la volontà di costruire un risultato che nella sua completezza riconosca alla fisarmonica, più che all’esecutore, una presenza qualificante”.
Grazie, quindi, a Paolo Fresu e a Tǔk per aver propiziato le condizioni in cui sono sbocciate le diciannove gemme racchiuse in questo album, diciannove finestre su altrettante storie personali e universali: dieci brani “storici” e nove composizioni originali. Un album di famiglia, come ben racconta Gianni Coscia nell’intervista, ma anche un film che attraversa la storia affettiva e collettiva del ‘900. A cominciare proprio dalla habanera legata alla memoria della madre di Gianni Coscia, ma anche a quella di chi ha nel cuore “Luci della città”, il film del 1931 in cui Charlie Chaplin la inserì dopo averla ascoltata a Barcellona dalla cantante Raquel Meller che il regista avrebbe voluto come attrice. Chaplin si dimenticò di riconoscere l’autore, José Padilla: ne scaturì una causa legale che si concluse nel 1934 obbligando Chaplin a pagare i diritti a Padilla. Ben ha fatto il Moncalieri Jazz Festival il 3 novembre a incorniciare la presentazione dell’album di Coscia nella cornice del dialogo con il critico Marco Basso e il direttore del festival e fisarmonicista Ugo Viola mostrando come “con il jazz non si invecchia mai” e come il repertorio stesso del jazz possa essere antico e moderno al tempo stesso nelle riletture ispirate all’essenzialità con cui Gianni Coscia sa navigare tempi swing, valzer, tanghi, milonghe, così come riesce al tempo stesso ad accomunare e a distinguere Gershwin (“Our Love Is Here to Stay”), Kenton (“Laura”), Ellington, Porter (“Love for Sale”, “Stardust”), Monk (“Round About Midnight”), Gorni Kramer. (“Dove andranno a finire i Palloncini”). Il legame con il repertorio latino, oltre che ne “La Violetera”, si esprime nell’interpretazione del classico legato a Carlos Gardel “Por una Cabeza” e nel tango dedicato nel 1993 da Cacho Castaña al timbro della voce del cantante Roberto Goyeneche, “Garganta con Arena”. In queste registrazioni la sua armonica coglie quel che è indispensabile, pause comprese e sa “asciugare” brani storici: “Tre bimbi di campagna” in due minuti e mezzo (quasi la metà rispetto alle versioni con Trovesi); “Stardust” e “Tributo a frumento” in quattro minuti, nel secondo caso si tratta di un terzo rispetto alla versione de “L’altra Fisarmonica”. Fanno eccezione i sei minuti di “Laura”, occasione per esplorare e accostare diversi modi di incedere e plasmare il tempo senza allontanarsi dalla scrittura di David Raskin. Nel finale, basta un minuto e mezzo per assaporare (anche se non pronunciati) i versi evocativi, la leggerezza dei desideri clandestini, di “Dove andranno a finire i palloncini”, in bilico fra la musicalità di Rascel e il fraseggio di Gorni Kramer.
Alessio Surian
Gianni Coscia e Alessandro D’Alessandro – 93-39/39-93 (Encore Records, 2025)
Due mantici, due generazioni che si incontrano, intessendo un dialogo alla pari in cui la differenza di età si trasforma in gioco, ascolto e reciproca curiosità. “93-39/39-93” è l’album che cristallizza l’incontro tra Alessandro D’Alessandro, tra i più originali organettisti italiani, e Gianni Coscia, fisarmonicista piemontese e protagonista di una buona parte della storia del jazz italiano. Registrato nel marzo del 2024 tra pubblico e palco al Teatro del Sale di Firenze, il disco nasce su iniziativa di Empoli Jazz, ma giunge a corollario di un percorso di avvicinamento iniziato anni prima sbocciato definitivamente sul palco del Premio Tenco 2021. “Gianni aveva ascoltato alcuni miei brani e mi ha scritto, dicendomi che gli sarebbe piaciuto suonare con me”, racconta Alessandro D’Alessandro. “Mi disse: “Non ho mai suonato con un organettista e mi piacerebbe farlo, perché da come suoni sento che abbiamo un modo simile di pensare la musica e lo strumento.” Conservo ancora quei messaggi, sono davvero bellissimi. Da lì ho iniziato a immaginare un progetto insieme a lui. Poi è arrivato il Covid, che ha un po’ rallentato tutto, ma ci siamo incontrati di persona al Premio Tenco del 2021, un’ora prima della sua esibizione — quell’anno riceveva il Tenco alla carriera. Mi chiese di suonare con lui, così nel camerino abbiamo improvvisato un pezzo insieme, “Mi ritorni in mente”, intrecciato con “Sweet Georgia Brown”, un grande blues. C’è anche Michele Staino al contrabbasso in quei video che custodisco con affetto. Da lì è nata una grande voglia reciproca di continuare a suonare insieme. Ci siamo poi ritrovati nel 2023, al Firenze Jazz Festival, grazie a Empoli Jazz, che ha organizzato quella serata meravigliosa del 5 settembre. È stato un concerto travolgente, da cui poi è nato il disco — prodotto proprio da Empoli Jazz”.
Nel titolo è racchiuso il senso di tutto il progetto: le età speculari dei due al momento della registrazione, 93 e 39, un palindromo che evoca un equilibrio perfetto tra esperienza e sperimentazione, saggezza e curiosità, e racconta un dialogo tra mondo sonori, solo in apparenza, lontani ma, nella sostanza, intimamente affini. “Il titolo è nato proprio sul palco, durante la registrazione al Teatro del Sale di Firenze”, spiega Alessandro D’Alessandro, “Ci siamo resi conto che le nostre età, in quel momento, erano palindromiche: 93 e 39. Era una coincidenza perfetta, ma anche un simbolo, perché in qualche modo lo siamo anche noi — due strumenti simili, ma speculari, due percorsi diversi ma che si rispecchiano. La differenza d’età, in realtà, non si è mai sentita. Gianni mi dice spesso: “Perché non ti ho conosciuto prima?” E io gli rispondo la stessa cosa. Certo, ci sono differenze nel modo di vivere, ma sul piano umano e musicale parliamo la stessa lingua. È davvero un piccolo miracolo, perché tra noi c’è un’affinità profonda, un’intesa naturale”. L’ascolto svela un album dal sound intimo, ma allo stesso tempo pieno di invenzioni e ironia, caratteristiche tipiche di Coscia, nel quale D’Alessandro si è inserito perfettamente facendo risaltare la sua cifra stilistica e la riconoscibilità del suo organetto. A riguardo l’organettista di laziale afferma: “Io e Gianni parliamo la stessa lingua. Lui stesso dice che abbiamo in comune l’ironia e l’autoironia, che per me sono fondamentali. Le porto anche sul palco, fanno parte del mio modo di stare nella musica. Trovare il mio spazio, quindi, non è stato un problema: Gianni è un musicista che sa ascoltare e lascia spazio, ma soprattutto abbiamo costruito un linguaggio comune. Il nostro “spazio” si è sviluppato insieme, nella condivisione, dentro quella dimensione giocosa e creativa che ci accomuna”. Ad aprire il disco è “A Time for Us” di Nino Rota, che i due trasformano in una piccola sinfonia con la fisarmonica di Coscia a tratteggiare la malinconica linea melodica, in cui si inserisce l’organetto di D’Alessandro con leggeri contrappunti ad esaltarne la potenza evocativa. “La danza dei pastori” — unico inedito, firmato da Coscia — è una rilettura ironica di una composizione di Girolamo Frescobaldi nella quale i due mantici si riconcorrono tra variazioni continue, sospese tra colto e popolare. Se “Donna” di Gorni Kramer si muove tra swing e atmosfere notturne, “Luna Tucumana” di Atahualpa Yupanqui ci conduce nei territori della world music con le sonorità sudamericane che si incrociano con la liricità dell’appennino. “In cerca di cibo” e “Geppetto”, due perle di Fiorenzo Carpi rimandano alle iconiche immagini del “Pinocchio” di Luigi Comencini con Coscia e D’Alessandro che le rileggono con raffinata eleganza. Uno dei vertici del disco arriva con “Mi ricordi Georgia Brown” un mash-up tra il blues “Sweet Georgia Brown” e “Mi ritorni in mente” di Lucio Battisti che ci riporta all’incontro tra i due musicisti sul palco del Club Tenco. E’ un gustoso gioco di specchi in cui il jazz incontra la canzone d’autore e fa da ponte tra Stati Uniti e Italia sulle traiettorie dell’improvvisazione. “Direi che più che improvvisazione o scrittura, c’è tanto gioco” — racconta D’Alessandro —. “È un disco suonato ma anche giocato, pieno di ironia e libertà. Ci siamo divertiti moltissimo a provare, arrangiare e portare i brani dal vivo. È questo spirito ludico che tiene tutto insieme. L’improvvisazione, poi, è un elemento fondamentale: ci piace dialogare in tempo reale, improvvisare insieme, senza un vero leader. È un rapporto paritario, spontaneo, che si rinnova ogni volta. Certo, c’è anche tanta scrittura — negli arrangiamenti, ad esempio, che sono una forma di scrittura a tutti gli effetti, curata sia da me che da Gianni”. La leggerezza, la passione, l’amore per la musica e la complicità sono, dunque, le chiavi di lettura del disco. “Azzurro” dal songbook di Paolo Conte è un piccolo manifesto alla reinvenzione della canzone d’autore tra spaccati acustici, sospensioni armoniche e loop elettronici. La superba rilettura di “The Wedding” di Abdullah Ibrahim chiude il disco aprendo uno spaccato sulla spiritualità con i due mantici che si cercano, si rincorrono fino a diventare una sola voce nell’esposizione del tema per dissolversi nel silenzio. “Da questa esperienza ho imparato che i veri maestri non hanno bisogno di affermare di esserlo: la loro grandezza si sente, si vive” conclude D’Alessandro. E in effetti, “93-39/39-93” è un disco commovente, un documento vivo e vitale di uno straordinario incontro intergenerazionale ed umano prima che musicale. Un lavoro che attraversa stili, generi, epoche e continenti, regalandoci un abbraccio in musica tra due mantici che volteggiano sul pentagramma in piena libertà, annullando ogni distanza ed abbattendo ogni steccato.
Salvatore Esposito
Foto di Sanzio Fusconi (1, 2, 3, 4, 6)









