C’è una lava che non smette mai di scorrere sotto la superficie della musica di Pippo Rinaldi, in arte Kaballà, un fuoco che torna a farsi sentire oggi, a più di trent’anni di distanza dal suo esordio. “Petra Lavica”, il disco che nel 1991 segnò il debutto del cantautore siciliano, è tornato a nuova vita grazie a una preziosa ristampa, presentata lo scorso 1° febbraio 2025 al Jey Music Club di Roma. Un’occasione non solo per riscoprire un album nel quale il siciliano incontra la canzone d’autore e il rock, ma anche per rileggere in retrospettiva il fermento culturale e musicale che attraversò la Sicilia negli anni Novanta. A dialogare con Kaballà, nel corso della serata, è stato Duccio Pasqua — voce di Stereonotte su Radio Rai — in un incontro che si è presto trasformato in un racconto vivo, intimo, pieno di ricordi e gustosi aneddoti. Da Francesco Virlinzi e la Cyclope Records agli anni milanesi, dagli incontri con musicisti come Gianni De Berardinis, Massimo Bubola, Lucio Fabbri e Mauro Pagani fino alla sorprendente avventura de “Il Padrino – Parte III”, Kaballà ha ripercorso la genesi e la rinascita di un disco che oggi suona più attuale che mai. Ne è emersa la storia di un artista che ha sempre attraversato i linguaggi — tra pop, dialetto, letteratura e world music — senza mai smettere di cercare una misura personale e poetica. E forse, come confessa lui stesso, questa ristampa segna anche l’inizio di un nuovo capitolo: “È come un viaggio nella memoria, ma
Partiamo proprio dall’inizio. Come arrivi a “Petra Lavica”?
“Petra Lavica” nasce un po’ da un amore. Sono sempre stato un cultore di musica, fin dall’adolescenza. Mi sono laureato in giurisprudenza, ma la musica è sempre stata la linfa della mia vita. Alla metà degli anni Ottanta vivevo già a Milano, ma restavo profondamente legato a tutto ciò che si muoveva in Sicilia: energie nuove, fermento, la nascita di un movimento musicale che guardava al rock. Il mio amico Francesco Virlinzi, poi purtroppo scomparso, aveva fondato la Cyclope Records: l’ufficio milanese era letteralmente a casa mia. Da lì passavano dischi d’importazione, ascolti, incontri, discussioni. Era un’atmosfera frizzante, piena di entusiasmo. Io andavo e tornavo spesso da Catania, scrivevo, cantavo. Prima di entrare in quel mondo, avevo già composto canzoni pop: per questo il passaggio mi fu naturale.
Quegli anni sono stati determinanti…
Milano mi ha regalato tantissimo. Da siciliano, sono stato accolto con grande generosità. Il mio primo discografico fu Stefano Senardi, un visionario: mi prese in CGD. Ho avuto la fortuna di lavorare con musicisti di primissimo piano come Gianni De Berardinis, che molti ricordano come conduttore radiofonico, è anche un eccellente musicista, un chitarrista sopraffino. Lui ha coprodotto il disco e l’assolo di “Petra Lavica”, ci tengo a dirlo, è suo, non di qualcuno di uno dei vari musicisti che suonano nel disco, come spesso si pensa. C’erano, poi, Massimo Bubola nelle vesti anche di coproduttore e con cui ho scritto vari testi del disco, mente il coordinatore artistico fu Lucio Fabbri, straordinario polistrumentista della PFM e collaboratore di Fabrizio De André. Mentre stavamo registrando “Petra Lavica” nello studio B del Metropolis, nello studio A c’erano Fabrizio De André e
Mauro Pagani che stavano lavorando a “Le nuvole”. Ci siamo ‘rubati’ Mauro per qualche giorno! Erano tempi in cui si respirava davvero musica. Esordire così, con musicisti di quel livello, è stata una fortuna. Io, però, non sapevo ancora se dovessi davvero cantare. Mi piaceva la musica, partecipavo a tante esperienze, ascoltavo concerti, cercavo continuamente. Erano anni in cui avevo rotto, per così dire, il mio rapporto sentimentale con la Sicilia. Sono un po’ scappato, non ho avuto il coraggio di chi è rimasto. Ma erano anche anni diversi.
In quegli anni non si poteva immaginare quello che sarebbe successo dopo con Virlinzi e la scena catanese.
Carmen Consoli sarebbe arrivata dopo. All’inizio tutto era ancora in fermento. Io avevo i miei ascolti, ma non venivo dal folk. Non ne ho una formazione, e questo è importante dirlo.
Spesso si tende ad associare la canzone in dialetto al folk. Ma tu volevi fare tutt’altro.
Assolutamente. Conoscevo e stimavo artisti come Ciccio Busacca o Rosa Balistreri, ma la mia formazione era diversa. Sono figlio degli anni Settanta: Roberto De Simone, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il Canzoniere del Lazio... ma anche il rock, il progressive, la musica europea. Da ragazzino ascoltavo di tutto, e naturalmente, come diceva Picasso — e anche Francesco De Gregori —, i bravi artisti non copiano, rubano.
Negli anni Ottanta, Fabrizio De André aveva già scardinato certi confini.
Come racconta Mauro Pagani, quando andavano in giro con Fabrizio De André, i discografici dicevano:
‘Ma che volete fare con questo genovese incomprensibile?’. Eppure, David Byrne lo definì una delle cose migliori che avesse mai sentito. “Creuza de mä” aveva già aperto la strada. Poi c’era il napoletano, una lingua che da secoli dialogava col blues e con l’elettrico. Franco Battiato, qualche anno prima, aveva provato con “Stranizza d’amuri”, e poi nel 1988, con Fisiognomica, tornò a quella radice, mescolandola all’arabo in “Veni l’autunnu.” Tutto questo era il brodo primordiale in cui nasce “Petra Lavica”: la mia musica, il mio amore per la cultura e il sentimento. Così è cominciato tutto.
Come avete lavorato agli arrangiamenti di “Petra Lavica”?
Negli arrangiamenti di questo disco c'era l'elettronica, c'erano i friscaletti filtrati col distorsore, c'era tutto ciò che immaginavo dovesse essere questa musica che veniva da lontano. Io guardavo moltissimo all'Irlanda, ai Waterboys... queste cose dovevano entrarci, perché erano la mia cultura. Sinéad O'Connor, i tastieristi degli anni Novanta, la musica progressive che dilatava tanto la canzone.
Hai sempre usato il siciliano in modo personale, lontano dai cliché…
Per me il siciliano è un fonema letterario, non solo linguistico. Non lo uso per rappresentare il folk, ma per evocare suoni, ritmi, emozioni. Nei miei dischi il siciliano convive con l’italiano: i ritornelli spesso passano da una lingua all’altra. Mi interessa il suono. È una questione di musica e di letteratura. Ho sempre amato autori come Vincenzo Consolo, che inventava la lingua. Il siciliano, per me, è sentimento e suono, strumento e radice.
Successivamente ti sei scoperto autore….
Accadono cose importanti nella mia vita: nasce il mio primo figlio, e anche il mondo discografico cambia. Penso: ‘Adesso faccio l’autore, poi riprendo’. E invece la vita ti porta altrove. Quando Stefano Senardi passò alla Polygram incontrai Adriano Berwik, allora direttore generale, che mi sostenne nei dischi successivi. Lo ritrovai anni dopo, quando ero ormai autore affermato, per un progetto particolare: musicare le poesie di Papa Wojtyla per Plácido Domingo. Mi arrivò un libro di cinquecento pagine di un intellettuale mistico... e andai in crisi! Come si scrivono canzoni dal Paradiso di Dante? Ma accettai la sfida.
Com’è nata l’idea di ristampare “Petra Lavica”?
Durante l’anno con Duccio ci vediamo in più occasioni, ma un'occasione molto bella è quella del Premio Andrea Parodi, essendo entrambi parte della giuria. Ogni anno c'è questo bellissimo festival dove ci sono realtà giovani bellissime che portano la musica da tutta Europa, dal nord Africa. A margine della presentazione di "Storie di straordinaria fonia", la biografia di Foffo Bianchi scritta da Duccio, ci siamo ritrovati a parlare a lungo di “Petra Lavica” e da lì è nato tutto. Tommy Bianchi che è un bravissimo ingegnere del suono ha curato la rimasterizzazione con la supervisione del padre Foffo Bianchi. Foffo mi ha chiamato e ha detto: "Pippo, guarda, è difficilissimo toccare questo disco, perché è stato fatto tutto in analogico, con i nastri, con tutto quello che comporta l'analogico, anche i riverberi che non si possono prendere con i plug-in". Sono riusciti a ridargli luce con grande sobrietà, senza comprimere, restituendo quella brillantezza del suono analogico che è la bellezza di questi dischi suonati tutti veramente, senza autotune. Foffo è stato il mio angelo custode e sono veramente fiero che ci sia il suo nome sul disco, e non posso che ringraziare Duccio per avermelo presentato.
Dopo tanti anni da autore, con la ristampa di “Petra Lavica” ti è tornata voglia di scrivere per te?
Sì… ma ho paura. Pensa, io ho scritto canzoni pop strutturate per Sanremo, so cos'è la scrittura di una canzone, dove deve arrivare. Quando scrivo per me, è diverso. È come se mi fossi disabituato a pensare a me stesso come interprete. Lascio tutta una serie di spazi strumentali, tanto è vero che spessissimo le mie canzoni sono usate per le colonne sonore, perché ho questo spazio melodico che mi riservo, che si presta all'interpretazione.
A distanza di oltre trent’anni ti sei ritrovato anche a riprendere questi brani dal vivo…
Insieme ad Antonio Vasta, abbiamo pensato di allestire un concerto in cui rileggiamo questi brani per piano e voce, dimensione questa che solitamente conduce verso il jazz, ma lui è riuscito a portarli in verso mondi da colonna sonora, con grande maestria. Lo spettacolo si chiama "Viaggio immaginario nella Sicilia della memoria" e unisce pillole di letteratura siciliana, le mie canzoni e immagini di bellissimi film girati in Sicilia, da Luchino Visconti ai fratelli Taviani.
Parliamo di “Brucia la terra”, la canzone che è finita ne “Il Padrino – Parte III”...
Tutto nasce da un provino di “Petra Lavica” che arrivò a Cinecittà, dove Francis Ford Coppola stava girando “Il padrino”. Cercavano un tema per il film, ma alla fine usarono quello di Nino Rota. Tuttavia, notarono il mio lavoro e mi proposero di scrivere un brano. Non sapevo nemmeno di cosa parlasse la scena, ma una notte, alle quattro del mattino, mi svegliai e presi la chitarra: decisi di scrivere una serenata. Una serenata a una donna che non si affaccia, metafora della “terra ca nun senti” di Rosa Balistreri. La donna è la Sicilia, la terra che non ti risponde. Coppola amò il brano e costruì la scena sul testo: quando Al Pacino canta al padre, e lui si commuove. Mio padre, al cinema, pianse tre volte. Mi proposero di rinunciare ai crediti in cambio del pagamento, ma rifiutai. Ho preferito avere il mio nome accanto a quello di Rota. Non ho guadagnato cifre folli, ma ho avuto la dignità dell’autore riconosciuto.
Dunque, è arrivato il momento del tuo quinto disco?
Probabilmente sì. La ristampa di “Petra Lavica” mi ha riaperto un mondo. È come un viaggio nella memoria, ma anche un nuovo inizio. E forse questa volta non avrò più paura.
Kaballà – Petra Lavica (Remastered 2024)(Warner Music Italy, 2024)
Ritrovare sugli scaffali la ristampa rimasterizzata di Petra Lavica, l’opera prima di Kaballà del 1991, è come riabbracciare un vecchio amico dopo trent’anni e rendersi conto che, in realtà, non ci si era mai davvero allontanati. Il fatto che questa pubblicazione arrivi al di fuori delle consuete logiche promozionali — senza anniversari da celebrare né nuovi progetti da lanciare — rende l’incontro con questo album una bella sorpresa. È vero, quattro brani del disco compaiono nel film “Paradiso in vendita” per la regia di Luca Barbareschi, ma si tratta solo di un dettaglio marginale. Ripubblicare oggi “Petra Lavica”, a distanza di trentaquattro anni, significa soprattutto restituire nuova luce a un’opera che conserva intatta la sua forza poetica, la sua profondità e una sorprendente attualità. Riascoltare oggi Petra Lavica permette di coglierne con maggiore chiarezza la visione musicale che lo anima — quella fusione tra radici e contemporaneità che spinse qualcuno a definirlo “una sorta di Creuza de mä in siciliano”, per l’originale intreccio di linguaggio tradizionale e ricerca sonora. Scritto a sei mani da Kaballà, Massimo Bubola (che fu anche l’artefice del suo nome d’arte) e dal produttore Gianni De Berardinis, l’album si avvale di un cast d’eccezione: Antonello Aguzzi, Paolo Bolio, Amedeo Bianchi, Walter Calloni, Fabrizio Consoli, Paolo Costa, Gianni De Berardinis, Lucio Fabbri, Massimo Falda, Mark Harris, Demo Morselli, Mauro Pagani, Giancarlo Parisi, Angelo Pusceddu e Alessandro Simonetto, sotto la direzione artistica dello stesso Fabbri. La nuova rimasterizzazione, curata da Tommy Bianchi con la supervisione di Foffo Bianchi, restituisce pienamente la profondità del suono e ci permette di riscoprire brani di straordinaria intensità. L’iniziale “In gloria” introduce l’ascoltatore in un’atmosfera sospesa, preludio ideale alla title track. “Petra lavica”, interamente in siciliano, racconta le contraddizioni e l’incanto di una terra magica attraverso lo sguardo di un bambino: una musica sognante e cosmica, che trova eco nella splendida versione strumentale posta in chiusura. L’intero album mantiene un livello altissimo, passando dalla struggente Il mirto e la rosa (“sarà l’amore che salverà la tua vita”) alla raffinata “Sutta lu mari”, tratta da un racconto postumo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Qui Kaballà intreccia i temi eterni dell’amore e della morte in un dialogo poetico tra archi e chitarre acustiche. Il lato B — per chi sceglie la versione in vinile — non è da meno: si apre con il ritmo incalzante di “Fin’a dumani”, ennesima dedica alla Sicilia, per poi attraversare le suggestioni mediterranee di “Vento d’amuri “e il ritmo trascinante di matrice popolare di “Quantu ci voli”. La chiusura è affidata alla pura poesia di “Sciogli i capelli”, un tenero affresco d’amore sorretto da un delicato tappeto d’archi. Dopo quel folgorante esordio — primo tassello di un trittico di album pubblicati negli anni Novanta — la carriera di Kaballà prese una direzione diversa. “Una serie di vicissitudini personali mi hanno fatto fermare, i cambiamenti della musica ancora di più”, ha raccontato l’artista. Si è fermato come interprete, ma ha continuato con intensità come autore, dedicandosi completamente alla parola. La sua penna poetica ha dato voce a molti: dall’amico Mario Venuti ad Anna Oxa, da Antonella Ruggiero ai Baustelle, da Carmen Consoli a Eros Ramazzotti, fino a interpreti internazionali come Josh Groban e Plácido Domingo. Nell’epoca dello streaming e del maistream che produce prodotti musicali vuoti e senz’anima, questa preziosa ristampa ci ricorda che esiste un altro mondo, quello in cui la musica è arte, lascia il segno e tocca il cuore.
Salvatore Esposito
Grazie a Duccio Pasqua per la cortese disponibilità e la collaborazione