Il 26 ottobre, un arresto cardiaco ha interrotto oltre settant’anni di benefico groove, quello che Jack DeJohnette esprimeva con la batteria, ma anche con l’elettronica, il pianoforte con cui ha registrato anche come solista) e le sue composizioni.
“Mi piaceva suonare il pianoforte. Mi piaceva ascoltare la musica. Mio zio Roy aveva molti dischi jazz, come i vecchi 78 giri. Aveva un Victrola che si azionava a manovella e io li ascoltavo tutti quando ero piccolo, a 5, 6, 7 anni. Ascoltavo i dischi della Decca, della Okeh e della Columbia che avevano, sapete, Duke Ellington, Billie Holliday, Count Basie, Slim Gaillard, Dusty Fletcher. Quindi ascoltavo quei dischi e rimanevo affascinato dalla musica anche prima di sapere che si trattava di jazz".
Da allora, Jack DeJohnette ha avuto modo di registrare 1154 album. Nato a Chicago (9 agosto 1942) in una famiglia che apprezzava la musica, Jack DeJohnette fu ispirato dallo zio, il disc jockey jazz Roy L. Wood Senior a dedicarsi alla musica studiando pianoforte classico dall'età di quattro anni fino a quando, a quattordici anni, iniziò a suonare la batteria. Nella sua formazione ebbero un ruolo chiave l’ascolto del pianista Ahmad Jamal e del batterista Max Roach. Cominciò a suonare la batteria nella banda del liceo mentre studiava pianoforte al Conservatorio di Chicago. Durante i suoi primi anni da musicista a Chicago suonava il pianoforte tanto quanto la batteria, spaziando dal R&B, al Hard Bop e alla musica d'avanguardia, comprese collaborazioni con Sun Ra, Muhal Richard Abrams e Roscoe Mitchell
dell'AACM. Nel 1966 si trasferì a New York e entrò nei gruppi del trombettista Freddie Hubbard e del sassofonista Jackie McLean, del pianista Cedar Walton e nel quartetto di Charles Lloyd, dove incontrò il pianista Keith Jarrett (registrando “Forest Flower” dal vivo a Monterey). Nel 1983 “resuscitò” con Jarrett e Peacock l’arte del piano-trio (“Standards Vol.1”, il primo di oltre venti album in quasi tre decenni d’attività del trio), facendo sintesi di queste diverse esperienze, esprimendole attraverso una batteria accordata come una tastiera, spazzole come un ruscello in “All the Things You Are”, groove e disegni melodici in “God Bless the Child”.
Sul finire degli anni Sessanta fu attivo anche a fianco di Stan Getz, Joe Henderson, Chick Corea, Wayne Shorter e (dal 1972) Sonny Rollins. Il 1968 fu un anno decisivo: entrò nel trio di Bill Evans con Eddie Gomez registrando un magistrale disco dal vivo a Montreux; ebbe l’occasione di far ascoltare le sue composizioni in “The DeJohnette Complex”, il suo primo album come leader; fu chiamato insieme a Dave Holland a sostituire Tony Williams e Ron Carter nel gruppo di Miles Davis con cui registrò una dozzina di album, fino a luglio 1972. Nelle parole di Miles Davis: “Jack DeJohnette sapeva suonare la batteria come nessun altro e mi ha trasmesso un groove profondo su cui adoravo suonare. Ma voleva fare altre cose, come suonare in modo un po' più libero, essere un leader e fare le cose a modo suo, quindi ha lasciato la band”. In duo con Keith Jarrett, a maggio del 1971 registra “Ruta and Daitya” avviando una collaborazione con l’ECM che lo vede fra i protagonisti dell’etichetta in duo con John Surman, in ensemble storici con solisti come Kenny Wheeler, Jan Garbarek, Pat Metheny, Ralph Towner, Anouar Brahem e nel Gateway Trio con Abercrombie e Holland. Con l’ECM ha modo di esprimere la sua musica e dar vita a gruppi come Special Edition, dando corpo alla sua notevole attività di compositore e rivisitando pietre miliari della storia del jazz, come “India” di John Coltrane (1980)
Ha sviluppato un suo suono, asciutto, intonato, con un rullo a colpi singoli che lo contraddistingue e lavorando con costruttori come Sabian a specifiche sonorità per i piatti (HHX Shimmering ‘75’ Ride, Original DeJohnette 18”, Encore DeJohnette 20”, Pang China Swish HHX 22): “Ogni parte della mia batteria è un essere musicale a sé stante”. Alla consapevolezza del “suono” faceva corrispondere coscienza spirituale e sensibilità sociale, a volte evidente nei titoli e nei versi dei suoi brani, come in “Inflation Blues” del 1982.
Jack DeJohnette ha paragonato il suo modo di suonare ai cicli di una lavatrice o di un'asciugatrice. L’idea è che, mentre sono soggetti alla forza centrifuga, ad ogni giro, i vestiti non toccano mai il fondo o le pareti della macchina nello stesso momento: un’analogia che rimanda al suo approccio quando suona “spezzando” il tempo. La rotazione della macchina è costante, come la durata di una misura (o di un gruppo di misure), mentre gli accenti evitano la ciclicità. Nei quattro decenni scorsi, ha veicolato attraverso le sue registrazioni una specifica capacità creativa attenta a dar voce a quel che l’economia e i media dominanti lasciano in secondo piano, componendo “inni” al Terzo e al Quinto mondo. Il primo, “Third World Anthem”, è incluso nella splendida formazione del 1984 che dette vita ad “Album Album”, con Howard Johnson, David Murray, John Purcell e Rufus Reid.
Pur attingendo a varie fonti di ispirazione, la ricerca nelle composizioni e arrangiamenti dio DeJohnette non è “fusion” anche quando il caleidoscopio si fa molto ampio, a sondare le diverse anime dell’America del Nord, come in “Music for the Fifth World” (1992) dal metal ai canti delle First Nations, passando per reggae e funk: “La musica è energia, e credo che abbiamo bisogno proprio del tipo di energia che questa registrazione evoca per creare i cambiamenti necessari a guarire noi stessi e il nostro ambiente”. Il “Fifth World Anthem” invita ad entrare nel cerchio dei tamburi tipico degli incontri Pow Wow: Jack DeJohnette era parte di un circolo di anziani Dohiyi, insieme al collega batterista Will Callhoun: loro stessi suonano i tamburi cerimoniali Taos insieme a Robert Rosario e Dennis Yerry. E lo ascoltiamo anche alla voce, insieme alle donne del gruppo, mentre cantano e recitano in lingua Seneca: “Siamo nel Quinto Mondo che cambia continuamente / Quindi fai la tua mossa, tutto il mondo si sta riorganizzando / Non c'è bisogno di avidità e ulteriore separazione / Siamo nel Quinto Mondo che cambia continuamente / Quindi fai la tua mossa, questo mondo si sta riorganizzando / Deciditi, non rimanere bloccato nel dubbio / Torna alla verità, ora è il momento di gridarla”.
Charles Lloyd diceva di Jack DeJohnette che era “un musicista naturale e intuitivo, oltre che un batterista straordinario. Jack ha offerto una strada e una visione interiore, molto personale e determinata, in ogni suono che ha prodotto. Sempre per il bene superiore dell'Universo. È stato un maestro”. In “Dancing with Nature Spirits” (1996), nel brano "Healing Song for Mother Earth" lo possiamo ascoltare dar forma a questo approccio al far musica in dialogo con Michael Cain alle tastiere e Steve Gorn al sax soprano.
In un’intervista a “Tracce di Jazz”, Jack DeJohnette ha accostato la sua arte a quella pittorica, l’arte della moglie Lydia: “Si possono creare paesaggi sonori proprio come i pittori creano i paesaggi. Anche se non lo hai registrato, non è andato perso. Credo che si senta o si veda a molti livelli diversi. Nulla muore mai; tutto è infinito. Ci è stata insegnata una versione annacquata di cosa siano ‘tempo e spazio’, che siamo in una realtà tridimensionale, cosa che non siamo. Siamo in una realtà multidimensionale con potenziali che possono sembrarci notevoli, ma questi potenziali sono abbastanza normali da un punto di vista interplanetario o galattico. Penso a me stesso più come a un colorista che a un semplice batterista, un batterista che colora la musica come un pittore, con sfumature e dinamiche”. Il riferimento è anche al primo percussionista che ha esercitato un’influenza sul suo modo di suonare, Vernel Fournier, nel trio di Ahmad Jamal: “Vernel aveva gusto. Lasciava spazio. Il suo uso del tempo, dello spazio, dell’armonia e della melodia è stato fantastico”. E questo “lasciar spazio” lo apprezzava chi entrava in contatto personale con Jack DeJohnette, così come si rifletteva in modo profondo in alcuni titoli e interpretazioni testimoniate dalle sue composizioni, come “Song For World Forgiveness”, registrata insieme a Grenadier, Medeski e Scofield.
Nate Smith ha raccontato che "nella primavera del 2001, pochi mesi prima di trasferirmi a New York, mi rubarono la batteria e i piatti dalla macchina in Virginia. Quando arrivai a New York e riallacciai i rapporti con Dave Holland (che avevo conosciuto a Richmond tre anni prima), gli raccontai della mia disavventura e lui mi prestò generosamente la sua vecchia batteria Gretsch Round Badge. Quando gli parlai dei miei piatti, mi disse: “Chiama Jack!”. Lo feci, nervosamente. Avevo conosciuto Jack alcuni anni prima, al memoriale di Betty Carter e poi a un concerto in suo onore. Quando lo chiamai, parlammo per circa un'ora e lui mi fece ascoltare diversi piatti (al telefono!). Circa una settimana dopo, tornai a casa e trovai davanti alla porta una scatola di piatti nuovi di fabbrica, del valore di migliaia di dollari”. Solo uno degli innumerevoli gesti con cui dava concretezza alla sua idea di “Oneness”.
Alessio Surian
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