Gelareh Pour e Brian O’Dwyer compongono questo interessante e originale duo, definito dalla critica internazionale perentoriamente cross-cultural. Niente da eccepire, data la provenienza dei due musicisti, Iran e Australia, anche se una tale classificazione rimane a dire poco vaga. Non perché ci interessi più di tanto – ascoltiamo la musica che il duo produce, analizziamo la struttura dei brani, interpretiamo lo svolgimento delle melodie e, in generale, delle composizioni e verifichiamo che, effettivamente, tutto nasce in una prospettiva interculturale. In modo deliberato e, sicuramente, con risultati più che soddisfacenti. Ma la categoria in sé dice nulla – specie nel contesto contemporaneo – e, per questo, l’ascolto dell’album – corredato dalle letture necessarie per inquadrare il duo (arriva in redazione un ottimo booklet, un’ottima rassegna stampa, una esaustiva documentazione) – tratteggia uno scenario molto vasto: non del tutto inedito ma certamente sperimentale e originale. Quella definizione, ad esempio, non dà il giusto spazio alla postura melodica – una melodia profonda, intermittente, tesa tra i pochi suoni e i silenzi, le pause – che caratterizza la scrittura del duo. E che ne caratterizza, allo stesso tempo, l’esecuzione, dato che questo album (complesso ma bellissimo) è stato registrato dal vivo in studio. E ci disegna, quindi, il profilo netto di due musicisti che elaborano mentre suonano, spingendo nello spazio della performance una dimensione sonora infinita. D'altronde i dati di partenza – questi sì ricchi di informazioni – sono prerogative di un programma originale e (lo speriamo) destinato a risuonare (come in parte sta già facendo) oltre l’Australia (dove entrambi vivono): Gelareh Pour – della cui postura Nick Cave ha sentenziato “semplicemente non ne siamo degni” – è una cantante, compositrice e suonatrice di kamancheh e qeychak, due cordofoni ad arco della tradizione classica iraniana, è diplomata al conservatorio di Teheran e ha conseguito un master in etnomusicologia all’università di Melbourne. Dalla sua attività emerge, inoltre, che sì la sua ricerca musicale travalica generi e stili, ma assume anche tratti politici fondamentali, quando tocca e amplifica, ad esempio, il progetto Iranian Women’s Voice. Dall’altro lato Brian O’Dwyer, produttore musicale navigatissimo, è un percussionista più che versatile: anzi più che sperimentale. Il suo testo percussivo si potrebbe definire visionario, in ragione del fatto che narra suoni e forme polimorfi, definendo uno spazio ritmico che ai primi ascolti sembra solo percettibile ma che, gradualmente, assume significati nettissimi. Non si tratta di suoni, o della stratificazione di timbri e ritmi differenti. È piuttosto la forma che la sua texture percussiva assume, nella dinamica del dialogo con il corpo e la testa del brano – con le sue nervature tese nello svolgimento – e il silenzio reiterato, la sospensione, l’evocazione. Si può comprendere, così, che “Give water to birds”, il secondo album del duo (l’esordio è con “Fil O Fenjoon”, pubblicato nel 2023), comprende molto più di una politica musicale multiculturale: è un programma di scrittura che non risulta complesso in ragione della presenza di fattori che ne giustificano la complessità, ma risulta quasi perfetto in ragione della presenza di quella scrittura visionaria che poggia i piedi sulla competenza musicale, portandosi dietro e incorporando le grandi storie della musica contemporanea. In questa dimensione estremamente orizzontale, che trafigge la contemporaneità con elementi solo apparentemente distanti (l’elettronica e le percussioni, la poesia, il canto melodico e gli strumenti della tradizione classica mediorientale), possiamo allora trovare gli appigli per godere a pieno dei sei brani in scaletta. Aiutati, anche se solo in parte e attraverso incursioni composte, dalla presenza di un elemento probabilmente più rassicurante: la chitarra del produttore e compositore australiano Brett Langsford.
Daniele Cestellini
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