#BF-CHOICE
Il quarto album della Bonifica Emiliana Veneta (“Quattro”), pubblicato da Visage Music, prosegue un arco narrativo di oltre trent’anni cominciato con i due album (editi nel 1995 e 1996) de La piva dal carner. Da quel quartetto sono poi confluiti nel 1998 nella B.E.V. Marco Mainini e Claudio Pesky Caroli, allargando il repertorio emiliano de La piva al Veneto e alla Lombardia con l’incontro con Alessandro Mottaran. Dal 1999, nel giro di sette anni, B.E.V. ha sfornato tre ottimi album: “Apotropaica” (scelto allora come miglior album dell’anno dalla rivista “Folk Bullettin”), “Variabile naturale” (2001) e “Materiali tradizionali” (2006). È seguito un silenzio discografico di quasi vent’anni prima di dar corso al quarto capitolo discografico del loro percorso musicale, nel quale Marco Mainini (voce, piffero, sax soprano e tenore), Alessandro Mottaran (mandoloncello, piva, musa, clarinetto in do e cori), Walter Rizzo (ghironda e oboe popolare), Giorgio Panagin (contrabbasso), Walter Sigolo (fisarmonica) e Claudio Vezzali (violino, violino tenore, trombone in do, mandolino) puntano la bussola sui patrimoni sonori dell’Appennino e delle Quattro Province componendo nuovi materiali su modelli coreutici tradizionali e rivisitando “classici” tradizionali, avvalendosi anche di una nutrita schiera di collaboratori: Marco Dainese (viola, piano elettrico e cori), Antonello Del Sordo (flicorno, tromba e trombone), Luciano Giacometti (organetto diatonico), Claudio Caroli (cori) e Tiziano Negrello (percussioni). Per l’occasione ne parliamo con Marco Mainini e Alessandro Mottaran, che hanno
Com’è cambiata negli anni la vostra percezione della “regione” musicale delle “Quattro province”?
Da un punto di vista dell’apprezzamento, il repertorio delle quattro province non è cambiato poi molto per noi: è sempre una grande gioia goderne la bellezza. Quello che è cambiato è la conoscenza delle strutture funzionali alla coreutica, degli stili esecutivi secondo modalità ricorrenti. Quando abbiamo deciso di affrontare questa tradizione da un punto di vista compositivo, ci siamo procurati gli strumenti tradizionali, piffero e musa, e li abbiamo a lungo suonati costruendone noi stessi le ance; abbiamo adattato la tecnica della fisarmonica a quella delle danze delle quattro province; abbiamo composto alcuni pezzi e li abbiamo provati a ballo, insieme a quelli del repertorio tradizionale, nella formazione a trio: piffero, musa e fisarmonica. Una volta accertato che i brani di composizione erano coerenti con le esigenze del ballo, allora e solo allora, abbiamo iniziato ad arrangiare i brani adattando alle nostre esigenze espressive peculiari. Solo dopo tutto questo lavoro di acquisizione dei repertori ci siamo sentiti liberi di strutturare gli arrangiamenti, pure a volte scientemente modificando la struttura dei brani. Abbiamo cercato di non lasciare nulla al caso. Per tornare alla domanda, ciò che è cambiato è che al piacere dell’ascolto si è aggiunta una maggiore conoscenza tecnica degli strumentari, delle strutture musicali, delle funzioni e “finalità”, se mi passi il termine, dei repertori in
In che misura e per quali aspetti due dei brani che avete scelto (“Mond e pais e mond”; “Quattro”) sono rappresentativi delle “Quattro province”?
“Mond e pais e mond” è fondamentalmente un omaggio a dei musicisti ai quali siamo particolarmente grati e legati. Per noi è diventato un tradizionale pur non essendolo propriamente. In realtà è un brano di composizione che dà il nome al cd omonimo dei Müsetta, che ne sono gli autori. Ci piaceva l’idea che questa composizione, che ha genesi tutta interna ad un gruppo musicale massimamente “tradizionale”, potesse essere presa da noi come testimone, come “trad. d’union” (modificando il noto figurativo francese), come legame vivo tra le fonti della tradizione e la necessità di esprimersi nel presente che porta in sé il futuro. “Quattro” (così l’abbiamo chiamato noi), è un brano tradizionale (alessandrina di Ernesto Sala) che per la prima volta ci capitò di apprezzare, consumando letteralmente i lavori discografici dei Suonatori delle Quattro Province. Il loro lavoro, in cui il profondo attaccamento alla tradizione si fonde ad una esigenza espressiva personalissima, è stato di fondamento e ha significativamente contribuito alla nostra convinzione di poter lavorare con profitto in merito ai repertori del nord Italia.
Nel comporre alcuni brani avete dialogato con danze tradizionali: cosa via ha spinto a scegliere proprio quelle danze e come influenzano le parti che avete composto ex novo?
Alessandrine, perigurdini, monferrine sono brani a danza che forse più di altri conservano elementi di “antichità”; se mi passi il termine. Offrono scorci modali e strutture affascinanti che sembrano dialogare con ciò che musicalmente precedeva l’Ottocento. C’è una ruvidezza, una forza e un’eleganza primordiale che a noi sembrano ben rappresentare la natura profonda di queste genti e di questi luoghi. Inoltre, nella natura “arcaica” di strutture, melodie strumentari avvertiamo, per una qualche ragione, alcune analogie con altri repertori sui quali da tempo si è proceduto adi interpretare e rinnovare. Questo approccio alla musica di tradizione lo abbiamo da sempre apprezzato e perseguito. Troviamo quasi sempre naturale orientarci verso questo genere di repertori, che meglio si adattano ad una nostra idea di interpretazione del presente attraverso le forme della tradizione.
In tre brani (“Sull’alba”; “Libero stile”; “Serenata controtempo”) date voce a vissuti personali: come sono nati e i che modo si rapportano con le forme dei canti popolari?
Sono tre testi e tre brani che hanno genesi differenti. “Sull’alba” nasce da una trama melodica che si ispira allo stranòt. Il testo si basa sulle onomatopeiche dei suoni dei nostri strumenti, che diventano azioni e luoghi immaginari; un invito a seguirci, con animo gagliardo, in questa nuova avventura musicale; ad ascoltare ciò che si ha da dire, per riconoscerne maieuticamente il contenuto di senso dentro di sé. Il tutto ispirandoci ai monti di quella parte di Appennino come metafora di un’ascesa da farsi in buona compagnia. “Libero stile” s’spira anch’esso allo stranòt, ma nella modalità in cui viene cantato alternandolo con un intermezzo strumentale; in questo caso una mazurca. Presenta un testo scritto a quattro mani che riferisce alle fasi della vita, interpretate in chiave allegorica con l’utilizzo di molti
elementi metaforici. Non c’è un esito morale definitivo; naturalmente sta alle diverse sensibilità dell’ascolto eventualmente attribuirlo, come è giusto che sia. “Serenata controtempo” è una serenata a posteriori con intermezzi di valzer: il pretendente è già da molto tempo “dentro la finestra” - cioè nella stanza dell’amata - e nel suo cantare ripercorre la vita con l’amica-amante-moglie utilizzando riferimenti di tipo militare-guerresco, per descrivere il rapporto di coppia come una lunga battaglia esistenziale. Quindi “Stato D’anima”; un canto composto stilisticamente tra uno stranòt e un canto a maggio, forma di canto recitativo dell’Appennino Reggiano-Modenese. Il testo utilizza il duplice senso della parola “Stato”, qui inteso sia come condizione esistenziale personale, sia come entità politica giuridica, per parlare di quella narrazione dell’attualità che, attraverso l’instaurazione di paure e negatività porta i singoli, e la società, a “buttarsi giù nel pozzo”. Il finale, composto riferendosi alla danza tradizionale del perigordino, traccia una gioiosa via d’uscita possibile.
Due terzi dei brani coinvolgono quattro di voi in veste di compositori: cosa significa lavorare a otto mani e come interagite fra voi per l’ideazione e l’arrangiamento?
In realtà le composizioni dei brani, in senso letterale stretto, sono opera di Mainini e Mottaran; realizzati a volte singolarmente e altre volte a quattro mani. Ma fondamentale è stato l’apporto di senso delle interpretazioni ed i suggerimenti di chi, fin dall’inizio ha condiviso il percorso di questa quarta avventura discografica, (si parla di un periodo di tempo di gestazione quasi imbarazzante!). Abbiamo proposto le composizioni – magari già con un’idea di arrangiamento. I brani hanno via via acquistato senso, in modo sostanziali, mediante il lavoro collettivo. La direzione generale dei nostri lavori come sempre si riferisce a scelte fondamentali che sono il nostro marchio di fabbrica ma che trovano nel tempo un’evoluzione.
Queste scelte sono condivise comunque tra tutti. Così è sempre stato, per altro. Per questo abbiamo scelto una forma di deposito diritti meno conservativa e più condivisa.
Com’è cambiata oggi BEV rispetto al passato e come siete arrivati all’attuale formazione in sestetto?
Nel corso del tempo alcuni di noi hanno ritenuto di fare altre scelte: impegni familiari, lavorativi, scelte artistiche differenti; altri invece si sono avvicinati e sono rimasti; e poi tutte le variabili immaginabili tra questi due estremi. La cronistoria delle varie formazioni succedutesi, sino ad arrivare all’attuale assetto live, sarebbe lunga e forse un po’ noiosa da enunciare; alla fine il bello della faccenda è che ci siamo più o meno tutti su questo lavoro. Alcuni solo per fare una cantata su di un coro, o una linea di organetto, ma sono comunque presenti. I rapporti personali non si sono mai interrotti, al massimo ci si è messi in pausa, in attesa di una telefonata che si sapeva sarebbe arrivata. Attualmente la formazione live, oltre storici della primissima BEV, Mainini e Mottaran, vede il grande ritorno di Walter Rizzo, per altro già Piva Dal Carnér con Mainini. Quindi Walter Sigolo, stabilmente con BEV dal 2004, che ha quindi contribuito a pieno titolo all’elaborazione e produzione artistica sin da “Materiali Tradizionali” e ha condiviso con Alessandro e Marco la “traversata nel deserto” che ha portato a “Quattro”. Inoltre, Giorgio Panagin, che ha sostituito Pesky Caroli al contrabbasso ed è in BEV stabilmente dal 2018, e con il quale condividemmo già nel 2003 una lunghissima tournee di quasi una ventina di date tra Spagna e Portogallo. Quindi “last but not least”
Claudio “Méster” Vezzali, valente violinista/violista/mandolinista, ben conosciuto dal pubblico folk per la sua presenza fondante nella storica band modenese dei Suonabanda; con noi da circa un anno ha partecipato alla fase finale della realizzazione di questo nostro ultimo lavoro.
Nell’album avete coinvolto cinque ospiti: ne troveremo qualcuno anche dal vivo nei vostri concerti?
Non escludiamo assolutamente che vi possano essere nel prossimo futuro altri inserimenti, anzi. Già dal prossimo live speriamo di avere con noi Antonello del Sordo che con i suoi ottoni, il flicorno, la tromba, il trombone, ha contribuito grandemente al suono di “Quattro”.
Dove aspirate a suonare dal vivo e quali sfide affronta oggi un gruppo come il vostro per far conoscere la propria musica?
In questo 2025 Stiamo rodando la nuova formazione con alcuni appuntamenti live. Siamo partiti con l’appuntamento di Reggio Emilia alla fine di maggio. Poi Pieve di Cento e quindi in cartellone al “Festival dei Popoli” in Polesine, il 13 luglio a Salvaterra di Badia. Poi ancora alla rassegna “Crinali” per un appuntamento sopra Monghidoro, sull’appennino Bolognese, l’8 agosto. Altre date sono in via di definizione sino ad ottobre. Ci stiamo preparando a proporre la formazione all’estero per il prossimo anno. Ma è presto per anticipazioni, il disco è uscito da pochissimo e il lavoro di promozione è appena iniziato.
Bonifica Emiliana Veneta – Quattro (Visage, 2025)
Non si può esprimere a parole, ma l’andamento e gli intrecci di ancia, corde, voce di “Sull’alba” - il brano di apertura di “Quattro” – materializza un invito sonoro che è anche un’irresistibile sintesi a camminare ed ascoltare, a lasciarsi trasportare attraverso una mappa in cui confluiscono tradizioni antiche e nuove idee espressive capaci di far dialogare note, parole e balli. Torna nel sestetto che costituisce la formazione base di B.E.V. Walter Rizzo alla ghironda e all’oboe popolare, ampliano una paletta acustica già molto ricca, vista la perizia polistrumentista di Mainini, Mottaran e Vezzali. Qui cominciano i crinali dell’Appennino e un primo arco narrativo di tre brani rappresentativi dei registri musicali che attraversano gli undici brani. Il secondo brano è lo strumentale “Lingua Madre”. Qui B.E.V. mostra di saper affondare contemporaneamente nei registri timbrici più bassi e più acuti tenendo in felice tensione l’anima della danza con l’ispirazione narrativa, svolgendo più linee melodiche e contrappuntistiche che risultano in un felice e continuo effetto propulsivo. La voce torna protagonista, a pieni polmoni, con “Mond e pais e mond” e con tutti gli strumenti che, da un lato, offrono alla voce pieno sostegno mentre, dall’altro, sanno farsi “coro” e rispondere alle strofe cantante con l’insieme delle voci strumentali in un brano ponte fra le specificità delle sonorità appenniniche e certi arrangiamenti nordici che, dal lato folk e senza ricorrere a strumenti elettrici, non hanno nulla da invidiare al miglior spirito rock. “Leb” gira pagina, torna alla dimensione strumentale, e regala, con l’innesto di Marco Dainese, un poetico piano elettrico a introdurre (dopo i primi due) la nuova serie di sette brani originali, con arrangiamenti che sanno sapientemente attingere dall’abbondanza e varietà di prime voci, liriche e, al tempo stesso, attente a costruire un energetico ed elegante flusso musicale adatto ai contesti del ballo di matrice popolare e alle sue diverse declinazioni odierne. È poi il turno del contrabbasso di Giorgio Panagin di aprire “Libero stile” e di offrire al canto un incedere solenne ancorato ai registri gravi, ma solo per la prima parte del brano: lo stranòt e la voce protagonisti all’inizio, sanno far spazio a una mazurca impreziosita dal lavoro percussivo di Tiziano Negrello e dagli ottoni di Antonello Del Sordo: lo schema si ripete tre volte, a produrre un inedito connubio (per le piste da ballo) stranòt-mazurca. Questo utilizzo dello stranòt in abbinamento ad altre danze e forme di canto recitativo torna in “Stato d’anima”. In questo caso, gli arguti giochi di parole della parte cantata suggeriscono la matrice contemporanea della scrittura da parte di chi si è sentito fortemente sollecitato “a tradurre in nuovo suono ciò che la forza di quei repertori ci ha mosso dentro l’animo”. Nondimeno, viene da domandarsi quanti saprebbero distinguere al primo ascolto, a proposito degli altri brani, cosa sia stato creato decenni o secoli fa e cosa sia stato scritto di recente. Il lavoro compositivo e di arrangiamento a più mani della B.E.V. sollecita immediatamente ascolti ripetuti, tanto sono ben miscelati insieme i tratti della tradizione e le nuove soluzioni timbriche, armoniche e ritmiche realizzate dal gruppo. A volte, la chiave di lettura è nel titolo, come nel caso dell’attento ascolto, riproduzione e variazione delle ecologie acustiche che giungono dal mondo animale, magistralmente dispiegate in “oXaia (nel senso dell’ape)”. Le atmosfere più schiettamente popolari emergono nei due brani finali: con i cori a pieni polmoni (coinvolgendo anche Claudio Caroli) che rispondono al canto di “Genova (per te domani)” e con lo strumentale e conclusivo “Quattro”, con i passi di danza messi in bella evidenza dalle parti percussive.
Alessio Surian