#BF-CHOICE
Che rapporto hai avuto con le musiche di tradizione orale di area appenninica?
Sono nato in una famiglia di origini agropastorali, suonatori e cantatori, per metà abruzzesi e metà marchigiani. Sono originario di un piccolo paese della Val Vibrata, Piane di Morro, pur essendo territorialmente nelle Marche la nostra cultura è prevalentemente abruzzese, dal dialetto al modo di suonare. Erano quelle zone di confine che storicamente venivano contese continuamente tra l’appartenenza al Regno di Napoli e quello Pontificio. Dalla parte di mia madre, nonna Grazietta, suonatrice di tamburo, e nonno Angelo, suonatore di organetto, dalla parte di mio padre, le mie zie erano
abili ballatrici e cantatrici, di quelle che passavano l’estate a fare i lavori stagionali da mietitrici da Valle Castellana fino alla bassa valle del Tronto. Fino a quando non ho compreso il valore di questa musica il mio rapporto è stato conflittuale, vedevo i fenomeni folcloristici in paese che mi allontanavano perché la percepivo come finta. Quando ho ripreso ad andare alle feste e soprattutto a casa dei suonatori per ascoltare il suono, quello vero, e vivere quei momenti che solo chi ha vissuto questa musica può capire, posso dire che questa musica è diventata il mio pane quotidiano. Se non la sento e non la pratico un po’ tutti i giorni, è come se avessi saltato un pasto: mi nutre.
Dagli studi classici di tromba a quelli sulle tecniche vocali extra-europee: chi sono stati i tuoi maestri? Come hai affrontato questo passaggio? Che mondo ti si è aperto?
Ho iniziato lo studio della tromba con il Maestro Cesare Ficcadenti, per poi perfezionarmi con tanti altri Maestri, tra cui Ermanno Ottaviani, Giancarlo Parodi, Rex Martin e molti altri. La tromba è uno strumento in cui se non canti nella tua testa sbagli tutte le note, in altri strumenti puoi fare finta perché ti aiutano i tasti o le chiavi, nella tromba no: hai tre pistoni e tutto il resto lo devi fare tu, combinando il canto e la conoscenza degli armonici naturali, proprio quelli della scala che scoprì per primo Pitagora di Samo in Magna Grecia, a Crotone. Che poi pare l’avessero scoperta già prima gli Egizi e gli Indiani, ma questo è un discorso lungo. Capisci bene che con gli armonici e il suo mistero ho sempre avuto a che fare, sin dall’età di undici anni quando suonavo la tromba nelle feste di paese con la banda, tra funerali e feste devozionali. Quando poi scoprii che in Oriente esistono tecniche per suonare la voce come se fosse uno strumento diventai pazzo, e mi misi alla ricerca del maestro Tran Quang Hai, quello che insegnò anche a Demetrio Stratos il canto difonico. Lo incontrai nel 2011 per la prima volta, ad Alberone di Cento, al festival “Omaggio a Demetrio Stratos”. Demetrio Stratos per me è stato una stella da seguire, per la sua aura complessa che si espandeva tra il musicista, l’etnomusicologo, il pensatore, il mistico e oltre tutto questo. Ecco il suo essere oltre il ruolo, oltre il suono sfidandone i limiti umani è quello che mi ha ispirato di lui. Quello che faccio io è con umiltà portare avanti queste ricerche, in parte nella stessa direzione in parte in altre, in base a ciò che esiste oggi, in questa epoca storica,
sicuramente diversa da quella degli anni ‘70 del secolo scorso. Con Tran Quang Hai sono rimasto in stretto contatto fino alla sua scomparsa nel 2023, gli ho fatto da assistente più volte dopo aver appreso i suoi insegnamenti e mi autorizzò a divulgare queste conoscenze in Occidente incoraggiandomi a tenere i primi seminari da solo intorno al 2018. Parallelamente conobbi a Berlino Amelia Cuni (che ci ha lasciati troppo presto nel 2024 a soli 65 anni, n.d.r.), da cui iniziai lo studio della tradizione Dhrupad, un mondo sonoro e un modo di utilizzare la voce tra i più arcaici in uso nel mondo Indoeuropeo, possiamo dire che è uno dei codici ancora attivi che possono esserci da guida per comprendere il nostro cosiddetto “Occidente”, in quanto dal Dhrupad possiamo cogliere le basi del canto Gregoriano, della musica modale del Medioevo e primo rinascimento Italiano. Ma questo è un discorso complesso che merita più spazio.
Hai suonato in orchestre con importanti direttori: qual è stato il portato musicale e umano di queste esperienze?
Quando ho suonato sotto la direzione del Maestro Kurt Masur lui era già molto anziano e malato di Parkinson, il gesto delle sue mani era completamente incomprensibile. Suonavamo le suite di Bach e una sinfonia di Mendelssohn. Nonostante la malattia riusciva a trasmettere il ritmo e l’espressione perfettamente, perché era completamente dentro il suono. Quindi ogni sguardo iniettato di amore e ogni micromovimento riusciva a farci capire la sua intenzione musicale, nonostante il gesto era completamente tremolante. L’amore con cui parlava a noi orchestrali per farci entrare più a fondo nel suo mondo interpretativo, il suo modo di essere completamente posseduto dal suono, lui era il suono, ecco questo non mi lascerà mai.
Hai poi intrapreso lo studio degli stili vocali tradizionali dell’area appenninica. Come è nata questa esigenza?
Questa esigenza è nata dopo aver incontrato le culture eurasiatiche. Quel modo di trattare i microtoni, la scala modale, l’emissione vocale così pura e arcaica mi hanno dato le chiavi di lettura per poter ascoltare davvero la nostra musica Appenninica dagli anziani. Mi sono chiesto ad un certo punto quale fosse profondamente il modo antico di cantare delle mie terre, ed ecco che ho scoperto canti di mietitura, ninne
nanne, canti su zampogna, canti particolari sull’ organetto che mai avrei incontrato se ne li avessi cercati volontariamente. Gli anziani mi dicevano: “Oggi se canti in questo modo mi prendono per matta, e io ci canto lo stesso”. Questa follia di lanciare la voce stesa, potente e controllata nei suoi melismi e microtoni, in cui la parola quasi svanisce per fare posto al suono, è stata la fonte che ha riunito la mia cultura di origine con la fase più avanzata dell’evoluzione artistica e professionale che avevo raggiunto nel mio percorso “ufficiale”, in cui ero approdato alla free improvisation, al minimalismo della “just intonation”. Nella musica tradizionale ho trovato uno step successivo.
Come si è sviluppato concretamente questo percorso?
Vivevo a Berlino e inizialmente facevo dei rientri in Italia appositamente per andare ad incontrare anziani, registrare i loro canti, passarci giornate insieme, senza la minima intenzione di cantare o suonare con loro. Ascoltavo e basta, fu poi naturale dopo i primi anni iniziarlo a fare sotto il loro consenso. Del resto, il dialetto è la prima lingua che ho masticato da piccolo, posso dire di aver appreso l’italiano successivamente. Dopodiché dal Conservatorio di musica di Pescara viene la richiesta di iniziare a insegnare discipline inerenti alla sperimentazione vocale nel Dipartimento di Musicoterapia, grazie al volere del maestro Paolo Speca, cantante, sperimentatore illuminato e allievo di Roberto Leydi al Dams di Bologna. Con questo pretesto riuscii a lasciare Berlino e dedicarmi a pieno alla ricerca sul campo tra Marche, Abruzzo e altre regioni del centro e sud Italia. I primi anziani che intervistai furono miei parenti, i miei genitori che, addirittura, conoscevano dei canti che non pensavo minimamente. Poi gente del mio paese fino ad allargarmi pian piano per comprendere il vastissimo mondo legato a questo codice.
A un certo punto è entrato in gioco anche lo studio delle forme di improvvisazione jazzistica e free...
Si, questo per fortuna l’ho vissuto sin da subito, con il primo maestro di cui ho parlato prima, Cesare Ficcadenti, bravissimo improvvisatore nel jazz tradizionale che mi trasmise da subito questa attitudine al groove e allo swing. Poi professionalmente ho percorso strade classiche e l’improvvisazione è tornata ad
un certo punto, quando ero saturo di alcune rigidità accademiche e ho avuto bisogno di aprirmi a dimensioni altre. Lì sono state fondamentali le frequentazioni dei jazz club a Genova (ho vissuto lì per tre anni) e poi i gruppi di free improvisation e Neue Musik a Berlino in cui ho vissuto dal 2012 al 2017. Ho avuto la fortuna di suonare (da solista) in festival importanti della scena contemporanea che hanno influenzato molto il mio percorso, parlo del Jazz Warriors international a Londra, il Punkt Festival a Wrocław, i cantieri dell’arte a Montepulciano e diverse altre esperienze a cui sarò sempre grato.
Ti sei occupato anche della gestione dell’acufene: ce ne vuoi parlare?
È accaduto quando dopo i miei workshop sul canto difonico e la voce naturale alcune persone mi riferivano che soffrivano di acufene e che in quel momento era molto attutito o addirittura sparito. Essendo accaduto più volte, mi decisi a radunare un’equipe medica e un gruppo di dieci persone con cui monitorare gli effetti di queste pratiche in modo serio e cadenzato, con incontri individuali settimanali per sei mesi. I risultati furono ottimi e la ricerca è ancora in corso. Potete leggere di più in un articolo per SIING la rivista curata da Albert Hera.
“Antro” è un titolo che evoca profondità e antichità del tempo: perché questa scelta?
Perché mi è accaduto di attraversare le metamorfosi dell’Antro nel mio percorso di vita reale e ho capito che tutto questo non è solo la storia mitologica della Sibilla che stava arroccata sui monti Sibillini che ascoltavo da piccolo, o a Cuma, in Campania, ma può essere un reale percorso trasformativo. La Sibilla è
il femminile, ovvero l’arte, la parte creativa che abita ogni essere umano, uomini e donne, e l’Antro e quel luogo inconscio che si scatena dentro di noi, all’inizio con profonde sofferenze, crisi esistenziali, poi con spazi di bellezza che ogni giorno possono aprirsi e condurci più a fondo, in luoghi sempre più paradisiaci, enigmatici, incomprensibili, proprio come è narrato nella mitologia Sibillina.
Dal tuo scaffale, quali autori – in ambito musicale ed extra-musicale – ti hanno ispirato?
Tra gli autori che più mi hanno ispirato e continuano ad ispirarmi direi Angelica da Foligno e le sue descrizioni da mistica ignorante, Giorgio Colli e le sue traduzioni di Eraclito, Arthur Schopenhauer e le prime rivalutazioni occidentali del pensiero orientale, Umberto Galimberti e le sue profonde riflessioni sul passaggio che abbiamo attraversato e che in parte non abbiamo mai attraversato tra il mondo filosofico/psicologico ellenico e quello giudaico-cristiano, gli scritti di Alain Danielou sulla musica indiana e la polarità Shiva/Dioniso, Ernesto de Martino, Roberto De Simone, Diego Carpitella, Domenico Di Virgilio per quanto riguarda l’antropologia religiosa e l’etnomusicologia della nostra cultura tradizionale, Béla Bartók e Kandinskij per quanto riguarda la musica e la pittura. Dipingere e disegnare per me sono arti che camminano parallelamente al fare musica, da sempre.
Chi sono gli altri compagni di viaggio di questo progetto?
Gioele Pagliaccia, batterista e polistrumentista, ci siamo conosciuti a Berlino, nella radio della Greenhouse in cui entrambi andavamo a registrare dirette di improvvisazione. Gioele è un musicista nato in Umbria e cresciuto in parte negli Stati Uniti, dove assorbe l’arte del groove e dell’interplay. In Italia è uno dei batteristi più apprezzati nella scena del jazz e della sperimentazione. Reda Zine è un suonatore di guembri, nato e cresciuto in Marocco, apprende la musica gnawa a stretto contatto con gli anziani dei villaggi. Reda oggi vive in Italia e sta creando delle evoluzioni molto preziose che portano il gnawa a sposarsi con musiche urbane e a continuare a contaminare culture, come del resto ha già fatto da secoli la cultura africana, madre indiscussa di tutte le musiche del mondo.
Ci racconti il processo compositivo alla base di “Antro”?
C’è stata una prima fase di confronto e ascolto dei materiali di archivio, servita per comprendere i contesti modali e ritmici su cui poi si sarebbero basate le composizioni e i flussi improvvisativi. Dopodiché, il lavoro si è svolto in itinere entrando sempre più in particolari indicazioni compositive che ho fornito a Gioele e Reda affinché si potesse creare il "dipinto sonoro" che avevo in testa. Molto altro invece si è autogenerato grazie alla grandissima abilità artistica dei due musicisti, al loro geniale estro, e a quell'interplay telepatico che si genera quando tutti insieme ci si connette ad un ascolto profondo, misterioso, inspiegabile in cui non c’è bisogno di parole, lì siamo nell'Antro. Un luogo che scotta, che
pochi musicisti possono reggere, solo chi come loro ha esplorato “altro”, oltre il fare musica e le tecniche canoniche.
L’elemento poliritmico è centrale in “Cuma”, il brano d’apertura.
La poliritmia è un fatto centrale della musica in “Antro”, è un fenomeno che seppur non strettamente presente nella nostra musica tradizionale mi affascina da sempre e ho scoperto essere naturale anche per me dopo aver praticato molto jazz. Credo sia innato concepire e ballare su più ritmi contemporaneamente, ma per riscoprirlo bisogna “sprogrammare” il pensiero occidentale di cui siamo imbevuti, che si focalizza su un aspetto e perde di vista il resto, che concepisce il ritmo in modo lineare e non circolare. Quando l'orecchio si apre, lo sguardo si apre e si possono concepire più cose insieme, uscendo dalle continue dualità e dicotomie. Tutto questo è possibile viverlo ancora nelle nostre feste, anche in Italia, quelle che conservano un assetto ancora arcaico, direi tribale. È molto facile poter ascoltare i ritmi di suonate a ballo di un saltarello, che si sovrappongono a canti mariani, o ai suoni della banda, o ai suoni dance delle giostre, o alle zampogne che incantano un bue come nel caso della festa di San Zopito a Loreto Aprutino in cui da quattro anni a questa parte partecipo come suonatore di zampogna per l'incantamento del bue. Ecco questa sorta di poliritmia inconsapevole, non voluta, è qualcosa che mi ha fin da piccolo affascinato e che ho voluto riportare in Antro.
“Antro” si muove su spazi sonori più ampi: l’elemento improvvisativo sembra prevalere. È così?
Sì, qui, siamo in flussi improvvisativi più onirici, basati sempre sui passaggi modali del canto abruzzese, evoluti all'estremo come se fossimo nell'Alap di un Raga indiano.
“Maitinata” è uno dei brani di punta, con la sua ritmica gnawa che si intreccia al canto melismatico della ritualità appenninica. Come nasce?
Si il canto a Maitinata è un canto di mietitura diffuso in Abruzzo ma che ha le stesse caratteristiche di quei canti melismatici che ritroviamo in tutte le aree del sud influenzate dalle culture turche, arabe e greche. Quando Reda ha sentito questo mio modo di cantare e la ritmica a saltarello portata con il tamburello, ha istintivamente creato quel giro di basso che suonerebbe naturalmente durante un momento terapeutico in Marocco. Durante le registrazioni in studio, naturalmente mi è venuto di legare i passaggi vocali del canto a Maitinata con una sorta di citazione di passaggi del canto giuglianese in Campania, tutto questo nella seconda parte del distico, ed ecco che è nato questo brano. È un modo di comporre che si svela in itinere, basandosi su memorie fortemente ancorate che si organizzano ed emergono in tempo reale per dare vita a nuovi flussi e nuove forme.
“Bisenti” è un paese del teramano. Lo hai scelto come titolo di un’altra composizione, dove la tromba dialoga con la voce senza perdere il groove ritmico. Perché questa scelta?
Il canto di mietitura che eseguo in queste tracce viene proprio da Bisenti, dato il suo incedere evocativo e
lamentoso, ho voluto far dialogare la poesia cantata su questo modo arcaico con dei passaggi alla tromba che ricordano il cool jazz degli anni ‘70, poche note e micro-variazioni ossessive intorno agli stessi toni.
In “Ciarrapica” il flauto armonico è protagonista, su un ritmo con derive funk.
La ciarrapica nel nostro dialetto può voler dire molte cose, ad esempio può essere l'aria gelida del mattino in inverno, oppure può essere uno dei tanti nomi dati allo strumento che uso in questa traccia, il flauto armonico, chiamato dalle nostre parti anche come Ciambrogna, Ciuffel, Feschitte. Anche qui siamo partiti dalle cellule tradizionali dei “passate” di saltarello e tarantella, che ci ha portati a dialogare con variazioni funk, uno dei generi che sia io che Gioele Pagliaccia e Reda Zine abbiamo praticato nelle nostre vite musicali.
Parola, suono e ritmo sono l’asse su cui si sviluppa il tuo progetto “Corpofonie”, che dà anche il titolo a un brano.
Si basa sull'oltrepassare il concetto che lega strettamente la parola alla voce cantata. Si basa sui suoni altri, che la voce può emettere aldilà dei limiti del linguaggio. “Corpofonie” è una traccia “estranea” in “Antro”, proprio perché anticipatrice di uno dei prossimi progetti discografici: non ci sono parole, bensì gesti informali che si alternano tra armonici, passaggi microtonali, rumori e vibrazioni fatte con la bocca. Una sorta di manifesto dell’informale che marca una delle mie esigenze di codice, un informale però ben radicato su gestualità e dimensioni molto arcaiche.
Zopito è il nome del Santo venerato a Loreto Aprutino, nel cuore dell'Abruzzo. È il paese in cui ho vissuto negli ultimi anni e in cui continuo a vivere in alcuni periodi dell'anno, soprattutto quelli legati alle festività in cui ho appunto ereditato uno dei ruoli più emblematici dell'antico mondo pastorale. In questa festa i suonatori di zampogna hanno da sempre (parliamo di una festa già attiva nel ‘700 in questo paese, ma ampiamente in uso in molte altre zone di Italia in cui vi è uno strascico del culto della Tauromachia, ma ancor prima Shivaita. Si pensi che in India durante il Nandi Puja e lo Shivarartri, il toro di Shiva, Nandi appunto, si inginocchia davanti ai lingam, accompagnato da suonatori di zampogna. Questa pratica per me è stata da sempre molto affascinante, e quando per puro caso mi sono ritrovato a metterla in pratica per la semplice esigenza di un ricambio generazionale da parte degli anziani suonatori, si è coronato per me un piccolo sogno e ho avuto accesso ad una serie di esperienze per me molto forti, che mi hanno spinto a dedicare un brano del disco a tutto questo. Il mondo pastorale ha suscitato in me forte fascinazione, mio nonno era un pastore e così anche mio padre fino all'adolescenza, quando è emigrato a Roma. I racconti in cui da sempre sono stato immerso e parte della mia infanzia e adolescenza passata attivamente nei lavori in campagna e con gli animali hanno costruito un immaginario e un mondo simbolico che ora inevitabilmente sta emergendo, scardinato finalmente da quel senso di vergogna e inadeguatezza che provavo da piccolo, quando mi confrontavo con i miei compagni di scuola di città, con altre abitudini, altri modi di parlare, altri modi di pensare.
Andando avanti nella tracklist: come nasce “Ninna Nanna”?
“Ninna nanna” nasce dalla scoperta di similitudini tra i passaggi della ninna nanna tradizionale diffusa tra Marche e Abruzzo, testimoniata da varie registrazioni e scale modali di Raga indiani che ho studiato con Amelia Cuni nel percorso del Dhrupad. Ecco, quindi, che nasce in questo brano l'esigenza di far connettere questi due mondi apparentemente distanti con questi flussi vocali che a tratti abbandonano la parola per entrare nel puro gesto della vocale che naviga tra un tono e l'altro del modo, tipico dell'estetica Dhrupad. La ninna nanna, molto simile al canto funebre talaltro, ha da sempre avuto un ruolo di profonda catarsi, in cui l’Io vive un disfacimento pronto ad abbandonarsi alla non forma del regno di Morfeo. Un atto di coraggio e un'arte quello del sonno, in cui ogni notte inconsciamente sappiamo che potenzialmente il risveglio del mattino successivo potrebbe non avvenire. Ecco perché nei periodi di forte ansia, si soffre di insonnia, si ha paura di lasciarsi morire al sonno in quanto si ha paura di vivere, ho vissuto profondamente tutto questo, e adesso che ho recuperato felicemente la mia arte del sonno ho voluto esorcizzare quel periodo scuro con questo brano.
Le procedure ritmiche del ballo riemergono con forza nella conclusiva “Li La”, ma non c’è solo quello... vuoi approfondire?
In “Li La” c'è il gioco micro-improvvisativo della tromba che riprende un modo di fraseggiare tipico di musiche rituali africane, in cui non ci sono melodie ma solo cellule microscopiche su pochi toni che si ripetono. “Less is more”, diceva Miles Davis, e qui a mio modo ho cercato di seguire l'insegnamento del maestro.
L’aspetto fonico della registrazione non è secondario per favorire una piena qualità d’ascolto. Come hai lavorato su questo piano?
In modo molto semplice, abbiamo ricreato in studio una situazione acustica in cui poter suonare tutti
insieme in tempo reale, e ascoltarci fluidamente garantendoci un interplay naturale, come se fossimo stati in concerto.
Qual è la dimensione live più adatta per “Antro”?
Sicuramente una dimensione in cui il pubblico può allo stesso tempo sia ascoltare che potersi lasciare andare ad una catarsi corporea collettiva che li mette in comunicazione diretta con noi musicisti. “Antro” non è uno spettacolo solo di ascolto bensì punta a sconvolgere la barriera tra performer e pubblico, esattamente come nell'ottica del primo fenomeno afroamericano, in cui il jazz era momento collettivo di espressione, espandendo la radice rituale da cui tutto ciò proveniva. Con le nostre musiche rituali in Italia storicamente questo processo non è mai avvenuto e crediamo fortemente che sia il momento giusto, adesso.
Altri progetti in cantiere?
Ci sono altri due progetti in cantiere, Kalasciò e Corpofonie, poi continua ad evolversi lo spettacolo in solo “canto alla rovescia”, che prende e cambia forma continuamente in base alle esperienze che vivo quotidianamente. Per “Antro” siamo in attesa di valorizzare il progetto nei luoghi giusti.
Massimiliano Di Carlo | Reda Zine | Gioele Pagliaccia – Antro (Autoprodotto/Metropolitan Groove Merchants, 2025)
Definisce la sua ricerca “felicemente indefinita” il compositore, cantante e polistrumentista Massimiliano Di Carlo (voce, tromba, flauto armonico, scacciapensieri, zampogna zoppa e tamburo a cornice), al suo esordio con “Antro”, esito discografico di lungo periodo di studio e sperimentazione. Nell’album suonano anche Redi Zina (guembri, elettronica e voci) e Gioele Pagliaccia (batteria, oggetti sonori e kanjira). “I ponti culturali e il mito dell’Antro Sibillino, luogo archetipico della metamorfosi ancora sentito nell’immaginario popolare dell’Italia centro-meridionale, sono gli elementi centrali che hanno ispirato le composizioni”, è scritto nelle note di presentazione del disco. Ora, se è vero che si fa presto a parlare di comunanze cercate e di sguardi affini, va riconosciuto a Di Carlo il vasto orizzonte compositivo nel quale diversi elementi confluiscono senza forzature e senza ricorrere a usurati cliché mediterranei, allontanandosi, per di più, da forme sclerotizzate di riproposta delle musiche del revival folk italico. “Cuma”, antro sibillino per eccellenza, apre la raccolta con un amalgama poliritmico sempre serrato per un organico di scacciapensieri, voce, batteria, flauto e percussioni. In “Antro”, l’elemento improvvisativo si impone e l’impianto modale del canto abruzzese incontra sorprendentemente il mondo musicale del subcontinente indiano. La potente ritmica gnawa ammanta da subito “Maitinata”, un canto di mietitura dal profilo melismatico, che incrocia i codici espressivi del ballo sul tamburo alla giuglianese e rievoca un contesto rituale arcaico ma ricontestualizzato. Altro canto di mietitura, “Bisenti”, ci proietta in sequenze di gusto cool jazz vintage. Il flauto armonico prende la guida in “Ciarrapica”, brano in cui i moduli del saltarello si fondono con dinamiche funk, confermando la vocazione trasversale dell’album. La voce-strumento si diffonde tra canto difonico, sequenze microtonali, passaggi gutturali derivati dal canto a tenores, rumori ed effetti acustici realizzati con la bocca in “Corpofonie”, al confine tra gesto vocale e composizione elettroacustica. “Zopito”, invece, chiama in causa il mondo pastorale, sempre però rivestito di un’espressività contemporanea. La zampogna zoppa – attestata nell’area centro-appenninica prima dell’avvento dell’aerofono a chiave – è stata scovata da Di Carlo “nell’armadio di un anziano suonatore di Villa Latina”, il quale, tenendola da parte perché la riteneva poco appropriata ha deciso di affidargliela. In “Ninna Nanna” prosegue la connessione tra montagna abruzzese e codici del canto dhrupad, mentre la ritmica profonda di basso e le sequenze jazz improvvisative, con la tromba in primo piano, danno pieno rilievo alla composizione. La chiusura è per “Li La”, in cui le procedure ritmiche riemergono in uno spazio in cui confluiscono tammurriata e ritualità africana, suggellando un percorso che è tanto visionario quanto strutturato. “Antro” è lavoro dalla caratura altissima. Pur nella pluralità delle estetiche, emerge una visione coerente, in cui la ricerca timbrica e modale si fa veicolo di un’inedita cartografia musicale.
Ciro De Rosa