Dicci di più di come è stato sviluppato il brano emblematico che apre l’album, “Pietra a Pietra”.
Lì c’è un esperimento pazzesco, perché c’è una registrazione de “La Pejte du Uaragniaun” – ma quella originale, dove ero praticamente una ragazzina. Il brano parla del lavoro e di quanto fosse duro andare a lavorare al Garagnone, perché lì “dovevi lavorare tanto quanto un pidocchio che deve sollevare una maggese”. Una frase che dice tutto: la disperazione del lavoro, la fatica, l’assurdità. Il Garagnone era una sorta di inferno, eppure era indispensabile accettare quel lavoro, senza orari, sotto un sole che spaccava le pietre. Non c’erano alternative. Era proprio quello che Tommaso Fiore aveva definito “il cafone all’inferno”. Questo era. E tornando alla mia voce: nei concerti dal vivo si ascolta sia la mia voce di allora – quella registrazione, campionata da Fabio – sia la mia voce di oggi. È come attraversare un “corridoio del tempo”, in cui ti sembra di rincontrare te stessa, di incrociarti in un tunnel sonoro che collega passato e presente. È lì che entrano in gioco quelle sensazioni di cui parlavo prima: questa percezione di un ciclo del tempo, quasi magnetico, almeno dal mio punto di vista, da interprete. Per quanto riguarda l’effetto su chi ascolta… be’, è tutto da vedere. Ti posso solo dire che, nei concerti che abbiamo fatto, è uno spettacolo che o ti prende completamente, o non ti piace per niente. Non c’è una via di mezzo!
Come è stato accolto il live?
La soddisfazione più bella è arrivata dai giovani, dal pubblico che abbiamo incontrato finora. Con i nostri studenti – sarà anche per affetto, non lo so – alla fine del concerto c’è stato un grande abbraccio, quasi un modo per sentirsi un po’ più vicini, per riconoscersi in una sensibilità comune. Hai proprio la percezione di quanto la musica di tradizione possa giocarsi una carta in più quando osa, quando si confronta anche con i linguaggi del contemporaneo. È stato, in fondo, anche un esperimento pensato proprio con questo obiettivo. Tu mi conosci bene, sai quanto io sia legata agli stilemi che appartengono pienamente alla musica di tradizione. Li continuo ad amare follemente e continuo a credere profondamente nel potenziale comunicativo della musica tradizionale – sia nei contenuti che nella musica in sé.
In che modo avete lavorato nel processo ideativo ed elaborativo?
Rispetto al lavoro fatto, sia come Uaragniaun sia nei miei lavori da solista, i brani che abbiamo usato in “Pietrafonie” sono rimasti esattamente quelli, perché alla fine non c'è nessuna elaborazione melodica: il canto è rimasto quello che è. Con Uaragniaun ed anche con i lavori che ho fatto, “Cilla Cilla” o “Stella Ariènte”, invece, abbiamo lavorato moltissimo sulle trame melodiche, studiando forme di riproposizione. Invece in “Pietrafonie” il canto di tradizione è davvero un inizio, poi sia Fabio Mina che Francesco Savoretti e, ovviamente, Marcus Stockhausen hanno poi preso spunto da lì per fare altro. Mi sono divertita molto in questo lavoro, perché davvero per me c'è stato molto di nuovo in tante cose, anche nel rapporto bellissimo con Francesco e Fabio, due musicisti straordinari veramente dolcissimi.
Tra i luoghi in cui avete registrato c’è la cava di Monte Scorzone a Minervino Murge: che è successo in questo luogo simbolico?
Abbiamo registrato lì “Pietra e polvere” proprio lì. È un tipo di lavoro che, quando viene visto e ascoltato dal vivo, trasmette una percezione completamente diversa. Perché hai davanti gli strumenti reali, che sono anche – letteralmente – strumenti di pietra. Non si tratta solo di strumenti convenzionali: ad esempio, Francesco ha realizzato uno strumento a partire da ciò che Vito Maiullari chiama la “macìna”, un attrezzo che veniva usato per frantumare il grano. Alcune delle sonorità che si sentono nel disco provengono proprio da strumenti come questo, assolutamente non convenzionali, ricavati da oggetti della tradizione contadina trasformati in elementi sonori.
Tra altri strumenti non convenzionali che si ascoltano in “Pietra e aia” c’è anche la ferula, il cui fusto secco è storicamente utilizzato per diversi scopi?
Sì, abbiamo campionato anche le ferule come elementi ritmici, ma anche la selce, la pietra – insomma, suoni che provengono da diversi tipi di pietra. Abbiamo inoltre realizzato un video, girato da Andrea Martinelli, che accompagna il progetto proprio con l’intento di documentare e far comprendere meglio la provenienza di questi suoni. Non è solo un video di supporto: è parte integrante del lavoro, uno strumento per mostrare visivamente ciò che, ascoltando, potrebbe sfuggire.
Ti ritrovi nella definizione di voce “ancestrale”, una voce “arcaica”? Si tratta di termini abbastanza abusati da parte della stampa quando si parla di musiche di tradizione orale.
Mi ci ritrovo, perché altrimenti, che tipo di voce sarebbe la mia? Io non mi ritengo una cantante. Se qualcuno mi dice: “Sei una cantante”, quasi mi offendo. Sai bene che nella vita ho fatto altro, e per questo mi sembra così strano definirmi “cantante”. Quello che ho fatto è assorbire, ascoltare, prendere, fare mio.
E sentirmi addosso, spesso, una sorta di missione: poter far sentire queste cose, finché posso, finché ho energia per farlo. “Ancestrale”? Sì, forse è così. La mia voce, oggi, non ha la pulizia o la perfezione che si assocerebbe a una cantante di musica colta, se proprio vogliamo usare queste categorie. Ma non è quello il punto. Quello che esprimo attraverso il mio modo di cantare è vero. È legato a un passato spesso triste, drammatico, tragico, malinconico. Perché questo territorio ha prodotto una musicalità che raramente è stata allegra o scoppiettante. La Murgia era fatta di disperazione. Era fatta di miseria – miseria nera – e di una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Se “ancestrale” vuol dire questo, non solo lo accetto: ne sono onorata. E penso che, oggi, sia l’aggettivo più consapevole. Anche “arcaico” va bene, sì.
Ci sono altre presenze vocali, oltre alla tua.
A proposito di legame anche con le persone da cui ho preso, nei brani vi è la voce di mio padre in “Pietra e bestie”, anche se usata qui non nella forma cantata, è una voce che narra, che scandisce delle rime, e poi c'è la voce di Marietta Cristallo, che canta un canto dell'Aia (“Pietra e aia”). L’aia è un altro luogo importante nella cultura di tradizione orale e la presenza della voce di Marietta in un lavoro del genere così contemporaneo è come dire un fiore all'occhiello, perché significa, come dicevo prima passaggio, perché la tradizione quello è in fondo, è esattamente un passaggio. All’inizio del brano che si chiama “Pietra Viva”, vi è la voce di Maiullari. In “Pietra Viva” si parla del lavoro dei campi, della mietitura. Durante il lavoro della mietitura i mietitori erano organizzati in paranza: quattro mietitori e un legante (u lejànte) Il compito di legante era affidato al più giovane perché era il lavoro più leggero, il legante doveva legare le gregne. Non era un lavoro complicato ma richiedeva comunque precisione e soprattutto sveltezza, la difficoltà era proprio quella di stare al ritmo. E in genere i ragazzini erano lenti e tendevano a rallentare il lavoro. Allora per questo motivo, i più anziani cantavano strofette di derisione, ad esempio: “Allu muère Lanàrde Lanàrde/ zumbe lejànte zumbe lejànte (a mare Leonardo Leonardo/ salta legante).
E dopo queste strofe sul legante?
Seguono versi che fanno riferimento al lavoro della mietitura “Quando il mietitore canta, salta lo legante e passa avanti: quando il mietitore miete, tu non passare avanti stagli dietro” e prosegue con un pensiero diretto di chi canta rivolto al campo come fosse cosa viva: “campo che stai avanti passami dietro, chi ti ha seminato ora ti miete”.
E l’atmosfera intima di “Pietra scalfita”?
Un brano particolare, un testo di composizione tra evocazione e sofferenza, ispirato al vissuto con mio padre nella triste fase della vita quando si perde memoria di tutto e peró vuoi illuderti e sperare che almeno la memoria dell’amore non sia stata scalfita, perché quella magicamente resiste. È un brano che mi sono “concessa” sulla scia di quelle vibrazioni che la musica di Mina e Savoretti genera.
Perché “Pietra e i pastori”?
È un canto che parla di pastori, ma in modo insolito, perché racconta il contrasto tra pastori e agricoltori. I pastori, infatti, venivano visti come invasori dai contadini, e questa convivenza era tutt’altro che pacifica. Il pastore era spesso considerato lo “scemo del villaggio”, mal sopportato dai contadini stessi. Il testo di questo canto è molto forte: la madre credeva che il pastore fosse un notaio, tanta era l’importanza che gli attribuiva, mentre i contadini lo vedevano come una sorta di sciocco. La pastorizia è stata una delle principali attività dell’Alta Murgia, e molti di noi discendono da pastori. Curiosamente, lo scheletro fossile dell’Uomo di Neanderthal trovato nella zona, noto come l’Uomo di Altamura, risalente a 187 mila anni fa e scoperto nel 1992 in località Lamalunga, pare fosse proprio un pastore, caduto in un fosso mentre era al pascolo. In Puglia, la transumanza portava pastori dall’Abruzzo e dal Molise; la nostra regione è stata a lungo un territorio di pastorizia e transumanza, attività che sono durate fino agli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. In altri miei lavori ho affrontato il tema dei pastori anche sotto altri aspetti: il rapporto del pastore con la moglie, la solitudine con gli animali, e come questo influisce sulla sua capacità di comunicare con gli esseri umani. Spesso il pastore, abituato a stare con gli animali, perde il suo codice espressivo umano, trovandosi più a suo agio con il bestiame che con le persone. Inoltre, la figura dei pastorelli è molto importante: bambini di 6-7 anni venivano mandati in campagna e affidati ai massari per occuparsi delle greggi, un lavoro che poi avrebbero svolto da adulti. Dalla sequenza dei brani emerge un mix di sperimentazione, elaborazione, e un gusto quasi ipnotico nel lasciarsi andare al viaggio sonoro, ma c’è anche una grande sostanza e tanta storia dietro. Per cogliere tutto questo, è importante soffermarsi anche sui testi. Per questo, nel libretto abbiamo scelto di non inserire i testi scritti, per mantenere il lavoro più snello, ma di fornire un QR code: chi vuole può approfondire andando a leggere con calma le parole, per comprendere meglio l’aspetto testuale.
A proposito, parliamo del progetto grafico e della copertina?
Il lavoro è frutto della creatività di una giovanissima grafica, Caterina Maiullari. L’immagine che vediamo in copertina nasce da un esperimento originale. Un giorno Caterina mi chiama e mi dice: “Devi venire a cantare”. Mi ha fatto trovare uno strumento da lei creato, una sorta di cupa cupa con sopra una carta ben
tesa, che fungeva da autoparlante. Su quella carta aveva sparso polvere di pietra. Lateralmente c’era un tubo collegato all’autoparlante. Ho cantato attraverso quel tubo e la vibrazione della mia voce ha mosso la superficie, facendo danzare la polvere di pietra. Caterina ha fotografato le varie sequenze di questo movimento e insieme abbiamo scelto l’immagine che meglio rappresentasse quel dinamismo. Per lei, questo passaggio dalla voce alla materia in movimento ha un significato molto profondo.
Abbiamo parlato dell’anteprima live e del fatto che il progetto si è sviluppato a partire dal Festival Suoni dalla Murgia. Come intendete portare dal vivo questo progetto?
Ogni volta qualcosa assume una forma o un aspetto diverso. Presenteremo ufficialmente il lavoro durante il festival Suoni della Murgia, che si terrà dal 21 al 25 agosto. Saranno presenti Fabio Mina e Francesco Savoretti, e occasionalmente anche Luigi Bolognese. In programma ci sono anche concerti ad Ancona, per il festival Adriatico Mediterraneo, e in Toscana, sull’Appennino tosco-emiliano, al festival diretto da Claudio Carboni. Vedremo cosa succederà ancora. Lo spettacolo è già stato sperimentato, ma la sua evoluzione dipende anche dal budget e dalla disponibilità, in particolare di Markus Stockhausen. Non è qualcosa di codificato: è un progetto vivo e in continua trasformazione.
Foto di Antonio Lionetti
Maria Moramarco | Fabio Mina | Francesco Savoretti – Pietrafonie (Visage, 2025)
L’ipotesi di “Pietrafonie” è l’interazione di diverse personalità artistiche mosse dall’esigenza di usare linguaggi e saperi musicali contemporanei confrontandosi con espressioni vocali e repertori di tradizione orale e di trasmetterli adottando strumenti tradizionali di svariata provenienza, litofoni sonori ed elettronica. L’altamurana Maria Moramarco incarna l’autorevolezza vocale di chi ha documentato i patrimoni etnofonici dell’Alta Murgia barese, una cantatrice che, in una ricerca di lungo corso, ha acquisito modalità canore e tecniche vocali ormai scomparse e che si è affermata come una delle grandi voci della musicalità mediterranea. Il duo composto da Francesco Savoretti (tapan e tapan preparato, adufe, angklung, mizhar, matallofoni, sonagli, strumenti in pietra ed elettronica) e Fabio Mina (flauto contralto, khaen, bena, organo a bocca, pedali, sintetizzatori, scacciapensieri, campionamenti, registrazioni ambientali), musicisti dal vasto curriculum artistico ha come elemento portante il superamento di formalismi nell’uso di linguaggi improvvisativi, espandendo le sonorità di strumenti acustici attraverso l’utilizzo di elettronica ed effetti (delay, loop e harmonizer, etc.). A completare il quadro ci sono le pietre sonore dello scultore altamurano Vito Maiullari, per il quale “la pietra è un elemento organico, sedimentato nel tempo, che diventa anche suono”. Ospite d’eccezione è Markus Stockhausen alla tromba nel motivo iniziale. Si comprende che siamo – finalmente! – di fronte a un progetto che alza l’asticella e che si getta alle spalle reiterate formule di riproposta urbana di musiche di tradizione orale, che in questo Paese spesso si auto-avvalorano con discorsi di una presunta “autenticità” della “tradizione”. Emerge un patrimonio musicale che dialoga con il presente, attraverso un linguaggio personale che riesce anche a sorprendere. Nell’intervista Maria Moramarco ha nettamente indicato i passaggi motivazionali, identitari ed estetici che hanno generato il progetto. Da parte sua Savoretti, con la mediazione di Maria Moramarco e Luigi Bolognese, è entrato in contatto con il repertorio e il linguaggio musicale dell’Alta Murgia: un avvicinamento di diversi anni, favorito anche dall’aver suonato nell’album “Stella Ariènte” di Moramarco. Anche per Fabio Mina, la scoperta del repertorio di questa terra “pietraia” di Puglia è l’esito proprio dell’incontro con Moramarco. E la volontà di confrontarsi con questi materiali nasce “dalla curiosità che io e Francesco abbiamo nei confronti delle tradizioni altre vicine e lontane, avendo visto la passione profonda, la coscienza e la voglia di sperimentare di Maria. Non è mai abbastanza sottolineare come la tradizione sia qualcosa in movimento: basta guardare la storia degli strumenti musicali, gli spostamenti, i mutamenti, gli incontri attraverso cui sono arrivati a noi. La tradizione non può essere qualcosa che dà adito a nazionalismi, barriere, muri e confini. Con molta umiltà, desideriamo abbattere la dualità che c’è tra antico e nuovo, acustico ed elettronico, armonizzare i contrasti un po’ come succede in natura”. Savoretti sottolinea, a sua volta, la centralità del confronto per lavorare su accenti ritmici e propulsione della percussione. Passaggio cruciale della rilettura dei canti è stato partire dal paesaggio: “un paesaggio intenso, a volte ostile, dalla grande fascinazione che pur considerando i suoi cambiamenti rimane molto vicino a quel contesto agro-pastorale in cui sono sviluppate quelle sonorità. Ci siamo interfacciati con un interprete e lettore del paesaggio quale è Vito Maiullari, nelle cui opere c’è tantissima storia murgiana, dalla pietra allo studio del paesaggio, dalle cave ai calanchi e alle zone impervie. Nei suoi occhi, dalle sue parole e dalle sue opere trapela la forza di andare a reinterpretare il paesaggio. Lui è stato il primo a dare una rilettura contemporanea di quei luoghi, è stato una bussola per entrare nell’asperità e nella forza del paesaggio. Vito riprende la roccia del tratturo su cui quei contadini lavoravano, quei pastori camminavano e cantavano lo stesso repertorio raccolto da Maria: un’idea profonda che ha dato un forte input al progetto”. Sperimentatori della pratica del field recording e dei suoni ambientali, Mina e Savoretti hanno accolto l’idea di entrare in contatto con i luoghi per registrare (usando microfoni a contatto, a fucile, binaurali, idrofoni, ecc., ndr) e mettendo in relazione queste registrazioni con strumenti più tradizionali e con l’elettronica. Hanno registrato “le opere di Maiullari che vibrano, che risuonano di per sé stesse e le hanno messe in relazione successivamente con il canto. Ciò, utilizzando uno studio mobile, cercando di entrare in luoghi, come vicoli e granai sotterranei, dove si entra con le persone che ci sono ma in un certo senso anche con quelle che ci sono passate in millenni. Proiettati in un luogo altro, ma con i piedi ben piantati a terra”, rileva Mina. E Savoretti aggiunge: “Abbiamo riascoltato il materiale registrato sul campo per creare una partitura interagendo con i nostri strumenti e l’elettronica. Con le idee musicali suggerite dai racconti di Maiullari e di Maria abbiamo creato un puzzle, confrontandoci per poi condividere tutto in prove e quindi per strutturare i brani”. La voce nuda e cruda di Moramarco emoziona nell’iniziale “Pietra A Pietra”, dove si combinano una registrazione storica del canto “La Pejte du Uaragniaun” e la voce di oggi di Maria, su cui si muovono flauti, synth analogici, grancassa bulgara e si ascoltano le sortite della tromba di Stockhausen. L’interazione con l’ambiente naturale è centrale nello strumentale “Pietra e Polvere”, una composizione mutevole per flauto contralto, pedali, effetti, sample percussivi e tapan preparato (con crotali, sonagli, ecc.). Si ascolta la voce di Maiullari nell’apertura di “Pietra Viva”, in cui Moramarco, dopo aver declamato le strofette di derisione che erano rivolte ai giovanissimi leganti, si prende la scena con il suo timbro, scrigno di inflessioni e sfumature, assecondata da flauto, effetti, elettronica e pietre sfregate. Oltre, in “Pietra e Aia”, registrata in Cava Pontrelli di Altamura, la voce dell’albero di canto Maria Cristallo (cantatrice che non è più, registrata da Moramarco nel 1976) introduce il brano con un tipico “canto dell’aia”. Il motivo è essenziale nel suo sviluppo con l’elemento percussivo portato dai campionamenti ritmici delle ferule e dall’angklung, strumento a canne di bambù giavanese, mentre il bena sardo, fiato di canna, conduce una melodia scarna, che ci conduce verso confluenze sud mediterranee. “Pietra scalfita” è un canto intimo che evoca sofferenza che si appoggia a una marcata pronuncia ritmica. In “Pietra e Pastori”, raccolta di uno jazzo, si erge nitida la voce di Moramarco, mentre i due strumentisti (organo a bocca, scacciapensieri di bambù, metallofoni e tapan preparato) costruiscono una trama ritmica su tempo di tammurriata per un canto che esprime il contrasto tra contadini e pastori: una guerra tra poveri, esito della destinazione dei campi alla coltivazione e conseguente riduzione dei pascoli. Segue “Pietra e terra”, strumentale di matrice ambient per flauto, sintetizzatori e mizhar. Infine, “Pietra e Bestie”, raccolta nello studio di Maiullari con un una base strumentale che accompagna la voce di Michele Moramarco, padre di Maria. Abbiamo sempre più bisogno di opere come “Pietrafonie”, capaci di riposizionare l’idea di tradizione, privilegiando un approccio fondato su una consapevolezza profonda dei codici espressivi e di cosa siano – e siano stati – il canto di tradizione orale e i contesti culturali da cui proviene. Un punto di partenza per dare forma a una pratica artistica costruttiva, aperta all’incontro/confronto con altri linguaggi. Non sarà facile ascoltare qualcosa di uguale, di questi tempi, nel nostro Paese.Ciro De Rosa
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