Non poteva che essere Maria Moramarco – voce sapiente, dalla grana vocale che è scrigno di inflessioni, riconoscibile sin dalla prima nota – a lanciarsi in un progetto di musica contemporanea che, superando le ordinarie istanze folk-revivalistiche, dialoga con visioni artistiche non solo musicali. Ricercatrice e musicista, nel corso di molti decenni Moramarco ha vissuto intensamente le magie di pietra dell’Alta Murgia barese. Del resto, il nome del suo gruppo storico, gli Uaragniaun – da lei fondato insieme ai musicisti Luigi Bolognese e Silvio Teot – non porta forse già in sé leggenda e mito, un suono onomatopeico che richiama al tempo stesso una località della Murgia, una rocca, un agglomerato di roccia aguzza? La scaturigine di “Pietrafonie” – pubblicato dall’attivissima etichetta Visage Music, trad e world music oriented – risiede nell’incontro con l’espressività musicale di Francesco Savoretti (percussioni, idiofoni ed elettronica) e Fabio Mina (flauti ed elettronica), e con l’arte di Vito Maiullari, scultore visionario che trasforma la pietra in materia sonora, testimone della stratificazione storica e culturale dei luoghi. La memoria dell’espressività canora agro-pastorale murgiana, vissuta in prima persona da Moramarco, si confronta con le procedure di stratificazione strumentale elaborate da due musicisti accomunati dallo studio degli strumenti delle tradizioni extraeuropee, e dalla pratica di linguaggi improvvisativi e di strutture libere tipici del jazz e della musica elettronica minimale. Insieme, come duo Threshold, sono orientati verso il superamento dei confini musicali, culminato nell’album “Branch Out” (Da Vinci Classics, 2022). Dell’originale percorso artistico che ha portato alla nascita di “Pietrafonie”, abbiamo parlato con Maria Moramarco, Fabio
Mina e Francesco Savoretti, le cui prospettive condivise confluiscono nell’intervista e nella recensione di questo originalissimo concept album.
Maria Moramarco, non sei nuova a sperimentare con la voce perché già con Uaragniaun avete realizzato musiche che andavano ben oltre la riproposta folk revivalistica. Cosa è stato diverso questa volta? Come sei entrata nel flusso sonoro?
Sì, hai ragione, perché anche con gli Uaragniaun c’è sempre stato lo spirito non solo di riproporre materiali di tradizione così come sono stati ritrovati, ma di rielaborarli, filtrandoli attraverso la nostra creatività e la nostra mentalità di persone che vivono in una società contemporanea. Che cosa c’è stato di diverso in “Pietrafonie?” “Pietrafonie” è suono di pietra, suono della pietra! Il primo fuoco d’attenzione è stato proprio questo elemento. La caratterizzazione nasce dal partire dalle sonorità della pietra, grazie alle installazioni sonore di Vito Maiullari, artista e scultore capace di trasformare la materia in fonte di suono. Tutto è nato intorno alle sue opere. Il progetto ha preso forma all’interno del festival Suoni della Murgia, diretto da Luigi Bolognese, dove avevamo invitato Francesco Savoretti e Fabio Mina come duo Threshold. Parlo di circa quattro anni fa: il loro lavoro mi aveva affascinata profondamente, proprio per quel senso di "soglia" tra antico e contemporaneo che riuscivano a evocare. In quell’occasione c’erano anche le installazioni di Maiullari. Francesco e Fabio, appena le hanno viste, ne sono rimasti subito colpiti: affascinati, catturati, coinvolti anche emotivamente dalle sonorità che si intrecciavano, anche solo lievemente, con il canto di tradizione. Da lì è nata l’idea di costruire qualcosa di
specifico, un lavoro che ruotasse proprio intorno alle sonorità della pietra. Quasi un lavoro tematico, sviluppato anche attraverso la sequenza dei brani, che non è casuale. I titoli vogliono essere una sorta di guida narrativa, un filo conduttore del nostro intento. La sequenza è: “pietra e pietra”, “pietra e polvere”, “pietra viva”, “pietra e aia”, “pietra scalfita”, “pietra e pastori”, “pietra e terra”, “pietra e bestie”. Insomma, un vero e proprio concept. Un altro elemento di differenza è il ruolo importante che ha avuto l’elettronica, molto più marcato rispetto ad altri miei lavori. Per quanto mi riguarda, mi ha spinta oltre i miei soliti confini espressivi, sia in studio che dal vivo. L’elettronica mi ha fatto assaporare il gusto dell’improvvisazione: per me è stato davvero qualcosa di nuovo, specialmente nei concerti. In particolare, penso ai concerti che abbiamo fatto con Markus Stockhausen, ospite anche lui a Suoni della Murgia. Nel disco partecipa solo a un brano, ma dal vivo ha suonato con noi in diversi momenti, e far musica con lui – con questa sua apertura totale all’improvvisazione – mi ha catapultata in un viaggio completamente nuovo, molto coinvolgente sul piano emotivo. Una vera scoperta, un’epifania. Un lasciarsi andare, in un viaggio nella memoria, che ti fa attraversare qualcosa di tuo, di intimo, di profondo.
In fin dei conti, a partire dal nome stesso del gruppo storico, Uaragniaun, esiste da parte tua un rapporto forte, quasi simbiotico, con l’orografia dell’Alta Murgia Barese.
Uaragniaun era proprio il Garagnone, la rocca dell’Alta Murgia barese. In realtà, ciò che esprimo attraverso il canto di tradizione è il forte legame con questa terra, con la Murgia, con il territorio: un altopiano, ma anche una zona carsica, che fa pensare a tutto ciò che la pietra ha scavato. Quindi, sia le erosioni che la bellezza profonda di questo paesaggio arcaico. Per non parlare dello spietramento, che in alcune aree ha trasformato radicalmente il territorio. Ecco, il canto di tradizione rappresenta proprio questo intreccio profondo con la terra. Anche se può sembrare strano, in un lavoro così sperimentale, così “altro”, il mio contributo è fatto di un tipo di canto – e di una vocalità – volutamente crudi. Verrebbe quasi da dire: “Ma non potevano registrare meglio?” E invece no. Sai perché? Perché si tratta di registrazioni fatte in ambienti veri, reali. Per esempio, nel brano “Pietra ai pastori”, la registrazione è stata effettuata davvero presso lo jazzo “Corte Cicero”, che oggi è una stazione di ricerca dell’Università di Bari, un presidio per lo studio del lupo. Ma, in realtà, è una masseria storica: lo jazzo nella sua accezione più autentica. Quindi, non si è trattato di un lavoro da studio, con la voce “presa”, ripulita, levigata. Anche altre registrazioni sono state fatte in luoghi simili, come la masseria Dimora Cagnazzi, dove erano installate le opere sonore di Vito Maiullari. Il mio apporto, dunque, è proprio quello: una voce piuttosto cruda, viva, quasi un ritorno alle origini di Uaragniaun.