Il suo nome d’arte, la Niña, riporta alla nenna, la bambina del vernacolo familiare napoletano dalle tinte spagnoleggianti e anche agli uragani terribili, ai dannosi cicloni, alle tempeste provenienti dal riscaldamento anomalo dell’oceano. E la Niña sta sconvolgendo l’universo del pentagramma italiano, con questo nuovo album, “Furèsta”, un importante passo avanti della sua ricerca musicale, accattivante folk/rock/world che parte dalle radici popolari mediterranee rilette con l’ausilio di sonorità sintetiche e diavolerie elettroniche.
Secondo album in carriera – dopo il grande successo del singolo “Tu “con Franco Ricciardi, che ha raggiunto in poco tempo 17 milioni di visualizzazioni su YouTube, e “Vanitas”, album di debutto nel 2023, suonando parecchio in giro e partecipando alla manifestazioni Lgbt+ a Milano e persino a Sanremo 2024 con Big Mama, Gaia e Sissi – “Furèsta” è una forte dichiarazione d’indipendenza, la precisa sintesi di quest’opera, selvatica ed insofferente alle gabbie di ogni genere, come le gatte accarezzate e amate nell’infanzia, citate in diversi brani. Partita anni fa come voce degli Yombe, duo electropop formato col compagno Alfredo Maddaluno, danzando e cantando in inglese e in italiano prima di esaltarsi col napoletano, la cantautrice e polistrumentista Carola Moccia – questo il vero nome della Niña – ci mette la faccia con alcuni graffi, sulla copertina del vinile colorato a tiratura limitata – con traccia bonus – ispirato anche allo scudo con testa di Medusa di Caravaggio e dell’album disponibile sulle piattaforme digitali. Un ritratto su tammorra eseguito dal maestro Ciro Morrone, specializzato in soggetti tipici della tradizione partenopea. L’altro maestro Davide Torrente, costruttore, insegnante e suonatore di tamburi a cornice, ha fornito la materia prima, lo strumento composto da una membrana tesa su un cerchio di legno al quale sono fissati dei sonagli. Proprio il grande impatto emotivo ha colpito il pubblico al Concerto del Primo Maggio di Taranto dove la Niña e le sue musiciste sembravano un coro di baccanti dedito a cantare, ballare e percuotere tamburi, in preda a una frenesia contagiosa. “La gitana Esmeralda danzava. Faceva girare il suo tamburello sulla punta delle dita e lo lanciava in aria, ballando sarabande provenzali, agile, leggera e gaia” descriveva Victor Hugo in “Notre Dame de Paris”. Una sarabanda davvero ebbra è “Guapparia”, scatenata invettiva contro la nuova Napoli dal fascino ambiguo, dall’immagine sfacciata, dal perpetuarsi di riti formali. Una città dalla popolazione giovane costretta a combattere contro problemi atavici, amplificati dal turismo di massa. Questa musica inebriante sembra un segno di speranza, di stupenda consapevolezza.
Il disco è un sorprendente equilibrio di antiche tradizioni popolari e innovazioni tecnologiche, mettendo in risalto il lavoro collettivo (le “commarelle” Denise Demaria, Lydia Palumbo e Francesca Del Duca si dividono tra cori, tammorre, balli) insieme all’interprete principale, con le orchestrazioni mirate e godibili di Kawasaki Ninja, il soprannome di Maddaluno. Un’opera di grande coralità e raffinatezza artistica, calata nell’attualità e di forte caratura internazionale (si sono già esibiti con successo a Londra e Il Cairo) dove risaltano le collaborazioni con Kukii, cantante e produttrice egiziano-iraniana (che canta in francese in “Tremm’”), e Abdullah Miniawy, con la dolcissima nenia di “Sanghe”.
I ritmi sono potenti, talvolta dionisiaci come in “Figlie d’a tempesta”, una rappresentazione del dolore della comunità per le violenze ripetute contro le donne. Le tre ragazze, vestite di nero, strepitano e si muovono come le Erinni, le divinità greche vendicatrici dei delitti di sangue in famiglia, in un video in bianco e nero infarcito di citazioni mitologiche come la travagliata gravidanza, caratteristica femminile, nel segno di Artemide e il filo del gomitolo, nel segno di Arianna. Una rivolta cantata, un’accusa diretta contro un sistema che continua ad opprimere senza reali progressi, accompagnata dall’intero campionario di strumenti da festa sull’aia – chitarra battente, nacchere, chitarra classica, mandolino e tamburi – con un incedere sempre più travolgente. Così, nelle manifestazioni spontanee all’università, dopo i femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella, il coro delle studentesse scandisce “femmena ‘e nie', femmena ‘e nie', femmena ‘e niente/ Paura ‘e nie', paura ‘e nie', paura ‘e niente” (immagini facilmente rintracciabili su Youtube), una frase della canzone, ripresa dopo che il video era diventato virale nella playlist di Spotify.
Nei dieci brani del disco, variegato e intrigante, si passa dalla vitalità popolare di “‘O ballo d’ ‘e ‘mpennate” tra echi di feste di piazza e percussioni avvolgenti, alla malinconia di “Ahi!”, con stile di canto antico, evocativo, ammaliante, l’unica vera canzone d’amore del disco, su un cuore ferito e illuso. “Oinè” potrebbe essere l’ammodernamento di un brano della Nuova Compagnia di Canto Popolare, anche per il testo giocoso e ammiccante, contro le parole invidiose ben più cattive di zoccole e serpenti che invadono l’aiuola profumata. Più percussivo e rumoroso “Tremm’”, andamento da tammurriata per questo incubo onirico, distorsioni e campionamenti a cascata, l’inconscio perturbato dal fenomeno del bradisismo puteolano (dove vive la Niña) mentre “Chiena ‘e scippe”, una carezza del passato, un atto d’amore per il paesaggio cittadino con la montagna, la luna, il mare e tutto il resto, tra nacchere e mandolini, con quella bambina felice che andava appresso alle gatte e teneva i graffi, ‘e scippe nnanz e arret. Brano che fa il paio con “Pica pica”, il nome scientifico della gazza, l’uccello che viene a salutare spesso in giardino, dove le vocalità s’intrecciano come i trilli dei volatili, come le leggere ripetizioni della raganella, come i versi di richiamo registrati live. Fortemente tradizionale “Mammama’ “, quasi intonato a cappella, in veste di piagnucolosa supplica o autoironica affermazione di solitudine, ruotando intorno tra disperazione e tenerezza. Tutto l’album, un incantesimo napoletano, davvero seducente e ipnotico, mostra un’identità forte, testimoniata da appassionate liriche napoletane e dalla sperimentazione sui tamburelli e sulle percussioni, che trasmettono energia, che innescano pulsioni liberatorie, attese alla conferma nel lungo tour italiano, da maggio a ottobre, con tappe a Palermo, Napoli, Roma e un gradito ritorno a Taranto, il 18 giugno al Medimex, la fucina dei nuovi talenti, il festival rock del sud che rinasce.
Flaviano De Luca
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