Il 7, 8, 9 aprile, come evento speciale, esce nei cinema italiani il film documentario “Un passo alla volta”, dedicato al sodalizio artistico che da tanti anni lega Daniele Silvestri, Niccolò Fabi e Max Gazzè.
Scritto da Francesco Cordio e Giogiò Franchini, i due si sono divisi i compiti: il primo ha curato la regia e il secondo il montaggio, realizzando entrambi un lavoro davvero egregio e si cercherà di sintetizzarne più avanti le ragioni.
Il documentario è stato prodotto da Fandango – e verrebbe da aggiungere: chi altri meglio avrebbe potuto farlo, visti i protagonisti e la scena dove il tutto si è realizzato? – in collaborazione con OTR Live e in collaborazione con Rai Documentari, ed è questa una notizia che ci lascia immaginare (anche se non abbiamo le date, abbiamo però la ragionevole certezza) un passaggio televisivo e una lunga permanenza su Raiplay.
Ma questo non deve impigrire gli amanti del genere e dei tre cantautori: si tratta infatti di un lavoro a tratti spettacolare, per ambientazione soprattutto e per la qualità altissima dei suoni (non poteva essere altrimenti). Vederlo al cinema, come ha potuto fare in anteprima chi scrive, non ha eguali.
Come è evidente, quindi, nel film la musica è regina.
In questo periodo si assiste a un proliferare di documentari dedicati ad artisti del passato o del presente, ma con lunghe carriere alle spalle. In alcuni casi, in definitiva, vengono riproposti dei concerti, in altri ci si trova di fronte a dei veri e propri biopic.
Non mancano fiction più o meno credibili (purtroppo quasi mai), o tentativi di ibrido (anche in questo caso difficilmente la scelta risulta felice). Capita di vedere lavori in cui si privilegiano le testimonianze di chi quella stessa storia la conosce davvero bene (pensiamo a quello in varie puntate dedicato a Vasco Rossi) e altre in cui le testimonianze seguono soprattutto esigenze di mainstream (un esempio può essere quello dedicato a Giorgio Gaber).
Ecco: in questo caso ci troviamo di fronte ad una scelta totalmente diversa. Il tutto parte dal concerto che l’estate scorsa i tre hanno regalato al pubblico romano (e non solo) al Circo Massimo: le scene dall’alto e dal palco sono impressionanti e di una bellezza struggente. Ma ogni location è straordinaria e in qualche modo imponente, che sia l’immensa sala prove o le immagini di repertorio del tour nel Nord Europa, quando uscì “Il padrone della festa”, nel 2014; le più coinvolgenti, a parere di chi scrive, sono quelle però girate in Africa, in un viaggio che ha cementato la collaborazione artistica ed il legame umano dei tre. Anzi: quello è davvero un passaggio essenziale.
In sintesi, la scelta è stata quella di raccontare la storia che lega i tre artisti che maggiormente e con più successo hanno coperto - a partire dalla metà degli anni Novanta - la scena romana, proprio attraverso i suoni; in questo senso i giochi della macchina da presa, il paesaggio, i sorrisi, le battute, i visi, i montaggi fatti con vera finezza, tra parole, sguardi, fiati e corde, sono la grande immagine che tutto contiene. Una specie di scenografia da grande Opera attraverso i documenti visivi, come quando – non così tanto tempo fa – a Caracalla arrivavano elefanti e altri animali esotici per la marcia trionfale dell’Aida e magari scappava qualche giraffa, ingaggiata poi da Sorrentino (ma questa è un’altra storia).
La bellezza di questo film secondo chi scrive è proprio in questa scelta, che può accontentare le esigenze di vari tipi di spettatore. Non serve entrare nel dettaglio.
Si trova meno nel film la storia e la geografia musicale dei tre, insieme e separati. O meglio: c’è. Ma rimane nell’ambito del dialogo tra tre amici, che condividono dei ricordi, dei flash. E che approfondiscono solo al livello intimo dei loro rapporti e dei rapporti con i loro musicisti e tecnici del suono, a cui appaiono legati da amicizia remota.
In un’ambientazione sontuosa un racconto intimo, insomma, che rilascia una immagine dei tre artisti in una maniera che non sorprende. Nel senso che Gazzè, Silvestri e Fabi appaiono esattamente per come sono, o per come vogliono sembrare, più propriamente. E secondo chi scrive questo non era per niente facile da realizzare: si rischiava la retorica da un lato, la facile commozione dall’altro o, addirittura, la macchietta romana cara a una certa televisione d’oggi e che per fortuna è stata totalmente scongiurata.
Invece eccoli tutti e tre, con la loro personale poetica di interpreti della canzone d’autore, la loro provenienza borghese, la loro simpatia, il modo proprio di interpretare il mondo, quel modo che ben conoscono i fan e per il quale li amano, quel modo che non amano i detrattori, quel modo che li ha aiutati nel successo, quel modo che magari in certi casi non ha permesso loro di lasciarsi andare fino in fondo e di sostituire nell’immaginario collettivo i cantautori della generazione precedente.
Viene poi dato grande spazio proprio alla modalità del loro lavoro musicale collettivo: è facile cioè intuire gli equilibri tra i tre e la ricerca dell’accordo. Intendendo “accordo” innanzitutto nel senso musicale.
Per giocare un po’ con le parole, verrebbe da dire che si rintraccia molto bene l’armonia, tra una melodia e l’altra.
Dopodiché interviene necessariamente l’esigenza della critica musicale di provare a colmare il vuoto delle curiosità e delle domande appena accennate, o eluse, o delle risposte ammiccate con uno sguardo eloquente… tutte curiosità assolutamente racchiuse nell’ambito artistico e storico.
E sono quelle che interesseranno brevemente la seconda parte di questo articolo. Ma per evitare di fare le domande e dare le risposte, perché non siamo bravi come Marzullo, tutto quello che segue avrà un punto interrogativo e forse qualche volta dei puntini di sospensione.
Si può partire innanzitutto proprio da quella scena romana che si intravede nel film, quando propone le immagini del “Locale”, quel luogo di incontro e suoni imprescindibile, tra piazza Navona e la Pace, che ha caratterizzato il “nuovo” mondo musicale della Capitale negli anni Novanta. Anni che si erano aperti in Italia, ma a Roma in particolare, in un vero e proprio rigoglio creativo e in ogni versante dell’arte. Era una città giovane, piena di speranze e con mille proposte. Aprivano nuovi cinema ovunque, i teatri erano pieni, l’assessorato alla cultura era attivissimo nel proporre sinergie tra le arti. Un momento felice che è durato poco ma che ha lasciato il segno. Uno dei segni più visibili è stato proprio quello della scena musicale romana (e non solo), che ha dato il suono ai giorni e alle notti dell’Urbe. Una scena musicale fatta essenzialmente di amici, che hanno scambiato – lo fanno tuttora peraltro, anche quando non vi è traccia a livello pubblicitario – strumenti, idee, informazioni, locali dove suonare. L’incontro tra i tre non nasce quindi dal nulla. Solo che Gazzè, Fabi e Silvestri, si potrebbe dire, hanno fatto quel salto popolare che altri non sono riusciti a fare. Allora la domanda ai tre è: quanto di quell’humus creativo, di quel know-how romano, di quella cerchia di amici e contatti ha inciso nelle loro carriere singole e nel loro incontro artistico?
E perché poi quel salto è stato possibile? Quanto Sanremo, che nel film appare ma sembra quasi incidentale – e invece gli addetti ai lavori sanno come in realtà sia stato fondamentale per tutti e tre – ha aiutato a fare quel salto? Chi scrive sa che non basta un passaggio mainstream per costruire una vera carriera nella canzone d’autore, (come è indubitabilmente il caso del nostro trio di artisti); soprattutto non bastava all’epoca, quando ancora la musica di qualità aveva degli sbocchi e degli spazi più ampi di manovra nei grandi media. Però certamente, se la popolarità si può e si deve costruire, dovrà pur avere una fondamenta in partenza.
Spesso i cantautori hanno della verecondia a parlare di Sanremo. E in tanti ricordano come negli anni Settanta i grandi della musica d’autore a Sanremo non ci andavano. Il che è vero solo in parte (come autore anche Piero Ciampi ha fatto Sanremo per esempio) e con varie eccezioni. Ma se da un lato in tanti non andarono per scelta coerente e anche ideale (come per esempio Guccini), in altri casi vale quello che una volta Sergio Endrigo disse in radio: “Non ci andavano perché negli anni Settanta Sanremo non lo vedeva più nessuno”. Magari non proprio nessuno. Ma che lo stessero addirittura per chiudere è vero.
Ma tornando al film e abbandonando la digressione sanremese, sembra a chi scrive non di poco conto questo loro passaggio, proprio perché Gazzè, Fabi e Silvestri, come ogni altro artista, hanno pagato anche loro la grave crisi discografica che ha tagliato in due il mondo della canzone: da una parte i fortunati e dall’altra gli indipendenti. Dagli anni Duemila vivere di musica è diventato in Italia quasi impossibile. E contemporaneamente alla crisi discografica si sono chiusi gli spazi mediatici. Il trio è rimasto nella parte fortunata, che ha avuto però le sue chiare difficoltà. C’è una differenza enorme tra loro tre ed Eros Ramazzotti o Laura Pausini, per capirsi. Quindi, per concludere, guardando e ascoltando il film arriva immediata la considerazione: “Sono proprio bravi!”. Ma chi conosce il mondo musicale italiano sa che non basta purtroppo e quindi la seconda considerazione è di nuovo in forma di domanda:
“Come sono riusciti ad arrivare fino a qui, restando loro stessi, mantenendo la loro popolarità e salvaguardando la loro poetica?”
Ah già! “Un passo alla volta” …
Elisabetta Malantrucco
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