Paul James – Au coin perdu (Autoproduzione, 2024)

È un baule pieno di cose preziose, che ne fanno quasi uno scrigno il nuovo album di Paul James. In esso il polistrumentista inglese sembra aver messo una serie di oggetti e di tesori musicali, da lui collezionati in un pluridecennale (e tutt’ora in corso) viaggio tra le musiche europee ed extraeuropee: suoni, echi, frammenti, o intere composizioni, che James ha accostato e assemblato con rara maestria, creando dieci brani di grande bellezza. Con “Au coin perdu” Paul James conferma i tratti caratteristici e distintivi della propria musica, che si ritrovano sia nelle produzioni con i gruppi di cui è stato ed è componente fondamentale, primo fra tutti i Blowzabella, sia nelle sue prove soliste o in formazione ridotta (come l’ottimo “Horse”, con Mark Hawkins, uscito nel 2004 per l’etichetta piemontese Ethnosuoni): una musica di confine, dove tale definizione è da intendersi però più dal punto di vista geografico-culturale che di genere. Ed è anche per questo che non appare un caso che la foto di copertina e il titolo dell’album, che in italiano significa “all’angolo perduto”, siano quelli di una stazione di servizio che si trova in Belgio, in prossimità di Dranouter, lungo una strada attraversata la quale si passa però in Francia. In “Au coin perdu” Paul James suona sassofoni, cornamuse, tin whistle, pianoforte, tastiere, sintetizzatori, chitarra elettrica e percussioni. Ogni brano vede la presenza di un ospite, che con il proprio stile e il suo strumentario colora diversamente il pezzo. Così la title track è per metà del suo sviluppo una danza dai toni franco-piemontesi, grazie alla ghironda di Gregory Jolivet; il bouzouki e la chitarra di Carlos Beceiro conferiscono un gusto iberico/galiziano a “Paraugas”; “One for sorrow” ha un carattere onirico, con il sax di James e le chitarre di Enrico Negro in dialogo tra loro; “Falco for two” è un brano dagli echi medioevali, in cui le zampogne del Nostro e di Rick Krüger privilegiano la sintonia ai virtuosismi. Ed ancora: è come un canto d’amore eseguito al confine tra la notte e l’alba “Seraphine”, con il suono della zampogna dipanato sullo sfondo dell’arpa di Milena Hoge, mentre in “The piano in the parlour”, il sax di James e il piano di Rosalie Bosteels seguono schemi minimalisti nel muoversi in uno spazio musicale vuoto, al cui centro c’è un metronomo. Con la successiva “The Black Mill And The Three Priests” si torna ad un tema di danza, che stavolta però rimanda al sud della Francia e al nord Italia, grazie all’organetto di Bruno Le Tron. Luminosa e vivace è poi “More Horizonto”, in cui nuovamente il sax di James e l’arpa di Hoge duettano. Tutti i pezzi sono composizioni originali, ad eccezione di “Ach Tjanne”, tradizionale a cui Paul James ha aggiunto una parte che, con il contributo di Tine Dael al basso, avvicina il brano al jazz e al prog. In analoghi e semmai ancor più rarefatti territori musicali si muove anche il brano di chiusura, l’evocativo “Watching the planet”, scritto ed eseguito insieme a Victor Nicholls, che qui suona la chitarra elettrica e il basso. Per gli ascoltatori più abituati a una dimensione multiculturale, accostarsi a quest’album è proprio come aprire un baule pieno di cose, ritrovando pezzi della propria memoria musicale. Alcuni di questi pezzi era ben chiaro, diremmo scontato, che fossero lì, mentre di altri magari non se ne ricordava nemmeno l’esistenza; tutti però appaiono ben conservati, senza tracce di polvere e di ossidazione. In “Au coin perdu” sono disposti in un ordine diverso, accattivante e a volte sorprendente, e raccontano una nuova storia, nella quale però si continuano a riconoscere le singole componenti, quelle che hanno formato il gusto musicale di ognuno di noi. 


Marco G. La Viola

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