Jacopo Tomatis, Bella ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco, Il Saggiatore 2024, pp. 240, euro 18,00

È il sottotitolo di questo volume a rivelare subito che il musicologo Jacopo Tomatis, accademico dell’Università di Torino e giornalista dalla penna e dalla parola fini e profonde, si occupa della triplice “manifestazione” di “Bella Ciao”, anzitutto, una canzone di libertà universalmente riconosciuta e cantata nel mondo; poi uno spettacolo del Nuovo Canzoniere Italiano che, al Festival dei Due Mondi di Spoleto del 1964, contribuì a cambiare il corso della canzone italiana; infine un disco a 33 giri, immancabile nella discografia militante ma anche in quella del giovane pubblico urbano borghese che seguiva le vicende del folk revival italiano. Anzi, va detto che, per molti aspetti, lo spettacolo “Bella Ciao” ha segnato, se non proprio l’inizio, almeno lo slancio decisivo del folk revival in Italia. Il lavoro di Tomatis è una versione ampliata di “Nuovo Canzoniere Italiano’s Bella Ciao”, pubblicato in lingua inglese nel 2023 da Bloomsbury Academic. Inevitabile partire dal prologo (in forma iconica), che ritrae Enrico Berlinguer, a capo della delegazione del PCI, nell’incontro con una delegazione vietnamita in lotta contro l’imperialismo statunitense nel dicembre 1966. In quell’occasione, Berlinguer omaggia il leader Hồ Chí Minh con un disco appena pubblicato: “Bella Ciao”, naturalmente. Da studioso di popular music, Tomatis adopera le lenti della storiografia e della musicologia per interrogare le fonti scritte, primarie d’archivio (documenti redatti dai protagonisti dello spettacolo, tra cui scritti che testimoniano le reazioni alla prima dello spettacolo teatrale spoletino, e quelle secondarie mediatiche coeve, che interpretano, da diverse prospettive, la polemica seguita alla pièce teatrale-musicale di Spoleto. Non mancano le interviste ai musicisti coinvolti, tratte da periodici e pubblicazioni, così come la costruzione “orale” mitopoietica di quanto accaduto durante quella prima, in cui venne eseguita la “scandalosa” “Gorizia”, una canzone sulla Prima Guerra Mondiale. Il verso critico sui “signori ufficiali”, cantato da Michele Straniero, suscitò reazioni di rifiuto tra gli spettatori presenti in un Paese ancora imbevuto di retorica risorgimentale e vittoria nella Grande Guerra, certamente non arrivato a confrontarsi con la realtà storica di un conflitto imperialista che causò la morte di un’enorme quantità di uomini sui diversi fronti europei. Sull’origine stessa di “Bella Ciao”, Tomatis segue una lettura critica delle opere pubblicate, in primis delle ricerche di Cesare Bermani, senza tuttavia tralasciare altri contributi che, nel corso degli anni, hanno cercato di comprendere le origini del canto e la sua diffusione nel contesto resistenziale e post-bellico. Questa canzone, collocabile tra le più famose canzoni italiane al mondo, eppure non il più celebre canto del repertorio partigiano e senz’altro nemmeno il più scomodo (si pensi a “Fischia il vento”), circolò già all’interno dei movimenti internazionalisti comunisti nel dopoguerra. Cantata da Yves Montand nel 1962, entrò poi nel repertorio del Nuovo Canzoniere Italiano, diventando “divisiva” in Italia a partire dagli anni ’90, quando si impose come inno di movimenti antagonisti e fece un nuovo ingresso nella politica italiana in una fase di forte conflittualità (eravamo in piena era berlusconiana e di sdoganamento della destra “post-fascista”), caricandosi nuovamente di significato fortemente politico. “Bella Ciao” è, dunque, un “fatto sociale totale”: affrontare questo tema implica inevitabilmente ripercorrere gli anni del dopoguerra per ricostruire una storia culturale – un’opera già affrontata in più occasioni dallo stesso Tomatis, come nel ponderoso volume “Storia Culturale della Canzone Italiana”, edito sempre da Il Saggiatore. L’autore scorre quegli anni con puntuale analisi, chiarendo lo scenario in cui alcuni intellettuali di sinistra si dedicarono alla raccolta di canti popolari italiani, a manifestazioni musicali e a pubblicazioni, consapevoli dell’opera di Alan Lomax, in Italia nella stagione 1954-55. Di quella ricerca e riproposta, mirante a “evadere dall’evasione” (obiettivo che si era posto il Cantacronache prima del NCI), Tomatis commenta le premesse ideologiche di matrice adorniana, le azioni politiche e culturali nonché le contraddizioni: il rifiuto della musica di massa veicolata dai supporti audio e dai media, che diventano invece il mezzo di diffusione di quest’altra musica, la musica del “popolo”. E anche su questa categoria il musicologo piemontese non manca di intervenire, discutendo le connotazioni gramsciane nel dibattito dell’epoca, il rapporto tra etnomusicologia, ricerca e riproposta del patrimonio orale in quegli anni in cui ci si prefiggeva di documentare e salvare dalla scomparsa sotto l’impatto della modernizzazione, senza tralasciare di notare la persistenza di incrostazioni romantiche alimentate dal discorso pubblico. Che, a dirla tutta, ancora pervadono molte discussioni contemporanee: che si tratti di sottolineare aspetti identitari, pratiche ideologiche di patrimonializzazione o discorsi di recupero di “radici” che abbondano sulla bocca di suonatori, esponenti politici e curatori locali. Ma tornando al volume, Tomatis ripercorre “il mito di ‘Bella Ciao”, a partire dallo spettacolo del 1964, quando il discografico Nanni Ricordi propose all’etnomusicologo Roberto Leydi e al regista Filippo Crivelli di allestire uno spettacolo per il Festival dei Due Mondi di Spoleto, tempio “borghese” di un certo tipo di proposta musicale colta. Qui compare “Bella Ciao”, nella versione partigiana e in quella cosiddetta delle mondine, insieme ad altri canti popolari italiani di varia provenienza, ma sicuramente troppo spostata a nord, con qualcosa del centro Italia ma mancante di quel repertorio del sud che pure doveva essere noto, grazie proprio a Lomax, a de Martino e ad altri ricercatori. Qui non ripercorreremo la genesi del progetto e la vicenda delle tensioni al Teatro Caio Melisso del 21 giugno, ma è chiaro che Tomatis decostruisce le narrazioni posteriori, attingendo e incrociando una serie di elementi documentari. L’anno successivo allo spettacolo (e alle sue repliche, perché la storia non finisce in quel giorno d’estate umbro) viene pubblicato il disco “Bella Ciao”, un passaggio determinante che in un certo senso opera una cristallizzazione di quel repertorio e lo fa circolare come corpus di canti “antagonisti” tout court, espressione di classi subalterne, anche per sostanziare a livello performativo un “suono folk”, acustico, caratterizzato da un certo tipo di vocalità e di arrangiamento essenziale, quasi “povero”, la cui influenza si estende ben oltre le produzioni di quegli anni. Discusso, quindi, di “Bella Ciao” e del folk revival, l’autore affonda lo sguardo su “La vera musica popolare”, non solo sezionando il repertorio del disco ma discutendo il significato di canzone popolare e di canto sociale, arrivando a definire “Bella Ciao” una “profezia che si autoavvera” (p. 83), nel senso che lo spettacolo, concepito per provocare e scandalizzare i benpensanti e le élite egemoni, ha effettivamente scandalizzato, come la costruzione mitologica dell’accaduto ha evidenziato. Ma le cose stanno molto diversamente, a cominciare dalle recensioni positive redatte da quei giornali che rappresentavano culturalmente ed economicamente proprio l’establishment, il “Corriere della Sera” in primis. Il passo successivo è seguire le sorti di “Bella Ciao”, non solo ricostruendo la questione delle origini del canto partigiano, collocabile nell’area appenninica nella fase finale del secondo conflitto mondiale, dei suoi rapporti con la ballata epico-lirica e della questione del “Bella Ciao delle mondine”, ma anche ripercorrendo il viaggio della canzone nelle culture popular mondiali, le incisioni e le numerose interpretazioni, senza peraltro discutere della sua nuova diffusione alimentata dall’uso della canzone come anthem libertario anti-capitalista nella serie televisiva spagnola “La Casa di Carta”. Dopo tutto, è proprio in virtù della fissazione su disco che “Bella Ciao” entra nelle case e nella cultura musicale dei militanti e non solo di quella generazione. Viene di conseguenza l’analisi compiuta nel capitolo “Cantare, suonare, registrare il folk”, un altro passaggio cruciale del lavoro del musicologo – e poteva non essere così, trattandosi di uno studioso di popular culture e pure musicista? – perché si analizzano, anzitutto, le “falsificazioni” creative operate in sede di creazione dello spettacolo da Giovanna Marini (“Lu cacciaturi Gaetano” e “Cade l’uliva”), segno anche di una conoscenza ancora approssimativa delle forme della musica contadina (come ha sottolineato Ignazio Macchiarella). Si analizza la messa in scena e l’azione scenica nello spettacolo, il portato brechtiano, le posture e la scelta dell’outfit come parte di costruzione identitaria e di “distinzione”, per dirla con Bourdieu. Centrali sono le questioni riguardanti le procedure musicali, perché quello che fa il Nuovo Canzoniere Italiano è operare nella “costruzione dell’alterità”, di quella che deve essere la “vera” musica del popolo (p. 130). Tomatis entra nel cuore delle estetiche della voce (la questione del “ricalco”, ad esempio), discute i profili vocali degli interpreti borghesi e di Giovanna Daffini, esponente del proletariato agricolo, cantante semi-professionista con un ampio repertorio, che nel suo esprimersi guardava anche alla canzone di consumo: non dimentichiamo che le mondine ascoltavano le espressioni della cultura di massa, a cominciare da Sanremo, e i borghesi ascoltavano le mondine! Lo studio prende in esame la componente strumentale, l’uso e l’accompagnamento per chitarra. Inevitabile il confronto con il folk revival statunitense ed europeo, così come con la nascita dei cantautori. La “Coda. Noi e loro”, se da un lato avvia la disamina verso la conclusione, dall’altro lancia una serie di domande ancora pregnanti. Per di più, la storia artistica di “Bella Ciao” non si è esaurita in quegli anni: in occasione del cinquantenario, lo spettacolo è stato ripreso recentemente da Riccardo Tesi e altri artisti italiani (su un’idea di Franco Fabbri) e ora ha ripreso a circolare, perfino con lo spin-off “A Sud di Bella Ciao”, che raccoglie canti dal sud, non presenti nello spettacolo che si fermava all’Italia centrale. E pure questa nuova articolazione dovrà essere storicizzata e passata sotto la lente degli studiosi. In definitiva, “Bella Ciao” di Tomatis è opera articolata, di certo urticante per molti nelle modalità con cui mette in discussione – e talvolta demolisce – i santini di un’idea di “autenticità” cara a molti. Il volume non manca di spunti autoriflessivi, mostrando come questa costruzione culturale abbia influenzato anche chi è cresciuto con essa. Pur nella densità di trattazione, la lettura scorre agevolmente e si fa perfino avvincente. Ricostruire le vicende della diffusione del canto, dello spettacolo e del disco, significa comprendere il rapporto tra musica e politica nel segno della storia sociale della canzone in Italia, ma vuol dire anche mettere sotto la lente di osservazione le categorie con cui definiamo il fare musica e valutare la tenuta dei terreni della ricerca musicologica nella contemporaneità. 

Ciro De Rosa

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