Il Muro del Canto – La mejo medicina (Goodfellas/Believe, 2024)

Basta osservare con attenzione il logo de Il Muro del Canto con l’albero dalle profonde radici ma con i rami protesi verso l’alto per cogliere l’essenza della loro visione musicale. Evocando, infatti, i simboli che rappresentano i rioni di Roma, il gruppo ha voluto rimarcare il legame con le forme espressive della canzone popolare romana, ma anche l’esigenza di declinarla al futuro attraverso l’incontro con il folk e il rock, il tutto unito a testi in cui cantano di resistenza, amore, lotta per il lavoro e contro la sopraffazione. Nell’arco di tre lustri di intensa attività artistica, Il Muro del Canto ha messo tanti concerti in Italia e all’estero, ma soprattutto cinque album tra cui meritano una citazione “L’amore mio non more” del 2018 e “Maestrale” del 2022.  A distanza di tre anni da quest’ultimo li ritroviamo con “La mejo medicina”, album che segna l’ingresso nel gruppo di Edoardo Petretti (fisarmonica, sintetizzatore e tastiere) e Gino Binchi (batteria) e li vede riscoprire le proprie radici musicali, non senza aprirsi a nuove frontiere sonore e stilistiche, pur conservando intatto il sound crudo ed intenso. Abbiamo intervistato il frontman del gruppo Daniele Coccia Paifelman per farci raccontare questo nuovo disco. (S.E.)

Il titolo del nuovo disco “La mejo medicina” è ispirato dalla fase difficile che avete attraversato e superato. Ci potete raccontare questo delicato passaggio?
Il titolo ci è stato ispirato proprio da quella fase che hai ben descritto: un momento difficile che abbiamo
attraversato all’inizio dello scorso anno, quando due di noi hanno lasciato il progetto. Non abbiamo avuto un attimo di incertezza: ci siamo chiusi in studio di registrazione, abbiamo cominciato a scrivere nuove canzoni e a fare provini per trovare nuovi musicisti con i quali continuare il nostro amatissimo sogno in comune: il Muro del Canto. “La Mejo Medicina” è il titolo perfetto per questo nuovo lavoro: rappresenta esattamente cosa sono state per noi queste dieci canzoni, la reazione e le azioni messe in atto per salvare la nostra arte, ovvero “La Mejo Medicina”.

Quanto è stato importante il contributo dei nuovi innesti nella line-up de il Muro del Canto?
Edoardo Petretti (tastiere e fisarmonica) e Gino Binchi (batteria) sono stati provvidenziali: entrambi hanno avuto da subito spazio per esprimersi. Il loro apporto è stato significativo e importante, sia in fase compositiva che poi sul palco, dal vivo. Sono ragazzi splendidi, con cui è stato un piacere immenso andare in giro con il furgone nella prima parte del tour. Non abbiamo mai smesso di ridere: sono state giornate davvero belle e devo ammettere che siamo stati davvero fortunati, e forse anche bravi, a reclutare musicisti eccellenti e ottimi compagni di viaggio.

L’inserimento del pianoforte che mondi nuovi apre alla poetica del Muro del Canto?
Anche nel precedente disco, “Maestrale”, avevamo utilizzato molto spesso il pianoforte, ma da questo disco, con l’apporto di Edoardo, abbiamo sperimentato anche suoni elettronici di sintetizzatori e allargato decisamente i nostri orizzonti sonori.

In cosa si differenzia questo disco rispetto ai lavori precedenti?
Rispetto ai primi quattro album, in “La Mejo Medicina” il Muro del Canto ha una formazione rinnovata per metà. Della line-up originale siamo rimasti io, Eric e Ludovico; quindi, è normale che il nostro sound sia cambiato col passare del tempo, perché sono cambiati gli interpreti. In questo disco ho seguito moltissimo i consigli di Franco Pietropaoli sulla scelta delle liriche: abbiamo, in molti casi, favorito cantati
meno crepuscolari e ricercato messaggi che favorissero una reazione emotiva positiva. In fase di arrangiamento, le forze fresche di Gino ed Edoardo sono state fondamentali. Ma, come in tutti i dischi, anche quelli precedenti, abbiamo privilegiato ancora una volta un linguaggio senza filtri, aggirando parole alla moda e stereotipi commerciali di questa nostra bella epoca, e ci siamo affidati ai nostri cuori per parlare con sincerità agli ascoltatori.

Come mai avete deciso di rileggere “Eppure soffia” di Pierangelo Bertoli?
Ho sempre amato profondamente questo grande autore, grazie ai miei genitori che, da bambino, mi facevano ascoltare le sue bellissime canzoni. Sono stato davvero felice quando ho proposto “Eppure Soffia”, perché la risposta degli altri è stata un “sì” corale e unanime. La scelta è caduta su questo brano specifico perché il testo affronta due temi centrali in questo drammatico momento storico: la guerra e la distruzione dell’ambiente. Esprimersi con le parole di Bertoli su certi argomenti è stato per noi un privilegio enorme.

Quali sono le ispirazioni alla base di “Sotto n’ artro cielo”?
Per scrivere il testo di “Sotto n’artro cielo” mi è bastato guardarmi intorno e immedesimarmi in molti dei miei coetanei, ragazzi ormai brizzolati che non sono riusciti, anche provandole tutte, a crearsi un presente stabile, con uno stipendio, una casa o una famiglia. Gente onesta, cui non piace piangersi addosso. Uomini
e donne che lasciano tutto per cercare un po’ di dignità altrove. Naturalmente, il collegamento non espresso a migrazioni di massa ben più drammatiche non è un sottotesto facoltativo. 

“Montale” è uno dei vostri brani più intimisti: com’è nata questa canzone?
Spesso quello che diciamo è ciò che vorremmo sentirci dire. La vita è difficile, i ritmi sono frenetici. La solitudine e la paura prendono spesso il sopravvento. Parlare agli altri con dolcezza, mettendo sé stessi un po’ da parte, è tra le cose nobili che sono ancora in nostro potere. Possiamo farlo ogni giorno. Possiamo scrivere anche canzoni che siano il più possibile vicine al nostro cuore e a quello degli altri. Questa è l’epoca delle crisi di panico, non dei gangsters. 

“Pe’ troppo amore” ha le radici piantate nella canzone romana. Quanto è importante il vostro rapporto con la tradizione?
Il rapporto che abbiamo con la tradizione potrebbe sembrare centrale nella nostra produzione, ma ci piace poterci sganciare a nostro piacimento, senza sentirci schiavi di indossare dei panni molto accoglienti, ma spesso troppo caratterizzanti. Nel caso di “Pe troppo amore”, le parole sembrano uscite da una vecchia canzone romana tradizionale: sono degli endecasillabi molto regolari, che sarebbero caduti a meraviglia su
una chitarra classica. Il testo “strappacore” avrebbe fatto il resto. Per questo motivo, abbiamo optato per un arrangiamento completamente diverso, registrando una delle canzoni più sperimentali del nostro repertorio.

Nella fermezza delle vostre radici arriva, ogni tanto, quasi un senso di distacco, o - meglio ancora - di smarrimento da Roma, che mi ha fatto tornare alla mente Remo Remotti e quel “Me ne andavo da quella Roma”. Avete mai avuto un sentimento così estremo? 
È probabile che il nostro sentimento distruttivo verso Roma sia stato, in qualche caso, anche più estremo di quello espresso da Remo Remotti in “Mamma Roma Addio”. L’amore che si può provare per la bellezza disarmante della nostra città sa trasformarsi in odio feroce per i molti, troppi, insostenibili problemi che quotidianamente un romano deve affrontare.

Sempre a proposito di identità: lo scrivere in dialetto (che è, probabilmente, l’elemento che più di tutti è capace di raccontare luoghi e umori) è legato al fatto che pensate anche in dialetto, e quindi sia la cosa più normale, o è figlio di una qualche idea di salvaguardia di peculiarità del genere? 
Scrivere in romano è per me naturale come bere un bicchiere d’acqua. Non ho nessun altro codice da rispettare rispetto ai miei pensieri soliti, e quando scrivo in romano mi sento libero, e la libertà è tutto.
Non mi sono mai sentito un fanatico della mia parlata e della nostra cultura, ma credo che un livello minimo di decenza vada ristabilito, al di là della parolaccia più colorita o del decalogo più esatto per cucinare la carbonara. Roma e la romanità hanno decisamente moltissimi altri argomenti da mettere in tavola e da far conoscere fuori porta.

Esiste, secondo voi, una relazione tra forma canzone e letteratura? Sono due cose che appartengono alla stessa famiglia o cos’altro?
Per approfondire questo tema in modo completo, servirebbe un anno intero, e non basterebbe a esaurire l’argomento. Secondo il mio modesto parere, la canzone e la letteratura appartengono certamente alla stessa famiglia; anzi, richiamando la mitologia, posso dirti che Euterpe e Calliope erano sorelle, come tutte le muse, figlie di Zeus.

La dimensione del dolore è sempre molto presente nei vostri lavori. È un qualcosa di necessario per la vostra scrittura o, più semplicemente, è il riflesso di una condizione costante?
Nessuno è immune dal dolore, questa è una costante che accompagna tutti noi dalla notte dei tempi. Il dolore, la sua elaborazione e il conclusivo superamento fanno parte della vita dell’uomo. Nelle canzoni create per le radio commerciali, nei jingle pubblicitari e nei reel di Instagram, certi temi sono considerati
tabù, ma rappresentano la realtà. Chi scrive canzoni senza affrontare morte, dolore o ingiustizie è un bugiardo, un servo del sistema o entrambe le cose.

Quanto è attuale in questi tempi culturalmente miseri e mortificati, il fare canzone come gesto politico…
Nella mia esperienza, ho conosciuto soltanto tempi culturalmente miseri e mortificati, ma allo stesso tempo sono venuto a contatto con una marea di persone che non si arrendono e cantano/scrivono/operano contro un sistema che va contrastato di continuo e con tutte le forze.
Grazie degli ottimi spunti di riflessione.


Salvatore Esposito e Giuseppe Provenzano


Il Muro del Canto – La mejo medicina (Goodfellas/Believe, 2024)
Dopo quattordici anni di carriera e tantissimi palchi, Il Muro del Canto pubblica il loro sesto album "La mejo medicina", che contiene dieci tracce inedite. L’organico attuale comprende Daniele Coccia Paifelman (voce e testi), Ludovico Lamarra (basso elettrico), Eric Caldironi (chitarra acustica, 12 corde e dobro), Franco Pietropaoli (chitarra elettrica e cori), Edoardo Petretti (fisarmonica, synth, pianoforte) e Gino Binchi (batteria). In apertura il rock robusto di “Che te lo dici a fa' “ (“Campo co' poco e m'accontento, quello che manca poi me lo invento, tu piangi er morto, ma freghi er vivo, tu stai in vacanza, io sopravvivo”) con hammond e chitarra elettrica in primo piano, “Sotto 'n artro cielo” (“E sonava 'na canzone dalla radio a tutte l'ore e diceva che ogni donna e ogni omo su 'sta terra, cammina verso la sua dignità, corre incontro alla sua libertà”) è una struggente ballad arricchita dalla voce particolare di Bianca “la Jorona” Giovannini. “Montale” (“Er tempo che consuma 'na montagna, nell’anno che hai passato t'ha insegnato, un corpo dopo l'altro sei rinata, sei diventata tu quella montagna") ha un ritornello trascinante a ritmo di rock: Segue “La mejo medicina” (“Cor tempo pure tu te sei imparato, come funziona er monno e sei sparito, er sogno nostro t’e sembrato poco, t'è sembrato er vizio de ‘n fallito”) è più delicata, accarezzata dal pianoforte, dalla chitarra acustica e dalla pedal steel di Alessandro Valle. “Aprile” (“Voglio pensare però che chi si è perso per mare, non sia perduto per sempre che altri possa insegnare, possa imparar chi ha futuro a non restare a guardare, chi per destino ha la vita dovrà tuffarsi e nuotare”) è tirata, con sonorità spagnole sottolineate dalla tromba di Mirko Rinaldi. “Eppure soffia” è un sentito omaggio al grande Pierangelo Bertoli. Echi di polka si colgono in “Pe' troppo amore” (“Co’ ‘sto dolore ce poi fa’ ‘n’altare, pe’ nun dimenticallo un monumento, la notte quanno ce verrà a trovare, nun da’ soddisfazione de un lamento”), la voce femminile di Hallyx dona energia a “Minerva” ("Minerva tornerà in città, ridisegnerà tutto e sopra al fuoco soffia già, madre strappati quel lutto e poi vieni via”). La successiva “Come l'antichi” (“Ma non me di che annamo a lavora’, perché io no, nun ce la posso fa', sarebbe 'nvece mejo anna' a ruba', che armeno rimanemo in libertà”) è ironica e schiettamente popolare. Infine, “La bandiera” è un interessante racconto scandito da chitarra slide, fisarmonica, percussioni, con una coda strumentale dal sapore western. Un ottimo lavoro dove emerge la scrittura pungente di Daniele Coccia, amplificata dalla sua voce corposa e profondamente romana, le sonorità taglienti che mescolano folk, rock, popular, ska, tutte caratteristiche che da sempre ne fanno il loro marchio di fabbrica. Un graditissimo ritorno per uno dei gruppi più interessanti del panorama italiano, non c'è miglior medicina che continuare ad ascoltare la loro musica così vera e così libera.


Marco Sonaglia 

Foto di Georgiana Acostandei

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