Il Muro del Canto – Maestrale (Fiori Rari/Goodfellas/Believe, 2022)

A quattro anni di distanza dall’uscita de “L’amore mio non more”, Il Muro del Canto torna con “Maestrale”, album dal titolo evocativo che rimanda al vento di Roma, quel “magister mundi” che, nella collocazione mediterranea della Rosa dei Venti, troverebbe proprio nella Città Eterna uno dei punti più importanti. Sotto il profilo tematico, le storie del disco sono permeate da tematiche naturali, nell’eccezione talvolta più ruvida come nel caso della title-track, posta in apertura (“Vorrei saper pregare quando cresce l’ombra e mi sovrasta un male, con le mani unite calmare il temporale. Ma allargo le mie braccia e grido al Maestrale”), un intenso recitato che poggia su un denso reticolato di sintetizzatori ed arpeggi di chitarra riverberati. A seguire troviamo “La luce della luna” (“Sorella Morte che me dai la mano in mezzo a ‘sto sgorbio de realtà, me insegni che giocà è ‘na cosa seria, che l’arte e la follia so’ verità”), scandita da una sezione ritmica tempestosa, contrappuntata a sua volta dai fraseggi elettrici della chitarra che inaspriscono l’atmosfera, mentre le note distillate dalla tastiera finiscono per creare un perfetto contraltare timbrico. “Cenere e carbone” segue le trame di un perfetto incastro fra arpeggi acustici e svisanti tensioni elettriche, ben amalgamate da un tappeto d’organo dalle ombre blueseggianti. Anche “Non si comanda il cuore” si snoda lungo gli arpeggi ricamati dalla chitarra elettrica, ben sostenuti da una linea di basso collosa e da un pattern di batteria incessante, con i fraseggi di un banjo a dar colore e le aperture della fisarmonica a regalare ariosità ad una traccia dinamicamente equilibratissima. “Lasciame sta’” (“E chi me vede non sa che pensare, sotto la pioggia cammino da ore co’ ‘na fiammella ar posto der core, faccio di tutto per non farla bagnare, ché se si spegne è un gran dispiacere, perché è svanito sto poco d’amore”) è accompagnata da un morbido arpeggio di chitarra acustica, ulteriormente addolcita da una linea di basso avvolgente e da un pianoforte elegante, mentre l’ingresso delle schitarrate distorte elettrizza la dinamica del pezzo. “Controvento” (“Ma non stamo zitti e boni, s’addormimo a malapena, se giramo e rigiramo, ce sta stretta sta catena. Semo nati cor sorriso pe’ esse fari in mezzo ar mare, chi ce vo’ tené legati finirà pe’ fasse male”) si attorciglia lungo le spire blueseggianti di uno slide, che apre ad una simil- patchanka sghemba e dal levare delirante, stordita da una vorticosa sezione fiati. Non è da meno “Lupa”, la cui anima acustica fa da ossatura per l’armatura di irrequietudini elettriche che la segna, fra slide acidi, bassi vorticosi e sviolinate cupe. “Un pugno di mosche” è uno dei passaggi più interessanti dell’album, costruito attorno ai funambolici volteggi della fisarmonica, scortata dalla potenza di fuoco delle schitarrate distorte e dalle aperture dei synth. “Prima di tutto” è segnata dal pattern secco ed incessante della batteria, squarciato dagli interventi corrosivi della chitarra elettrica e dalle incursioni stranianti dell’organo. La penultima traccia dell’album, “Cometa” (“Vorrei salì su ‘na cometa pe’ famme portà via, co’ la forza de un reattore alimentato co’ la malinconia, guardà tutti dall’arto mentre prendo er volo e piagne lacrime de gioia e non sentimme più da solo, soffià su ogni lampione e fa scenne er sipario, tutta l’aria che c’ho in petto, famme esprime un desiderio”), coincide, probabilmente con il passaggio più bello e, contemporaneamente, più classico: un malinconico riff acustico ci accompagna ad un ritornello aperto da una fisarmonica densa di pathos e dai fraseggi umidi della chitarra elettrica. A chiudere il lavoro ci pensa “C’era una volta un amore” (“Vento che mi agiti il cuore metti a dormire il dolore,canta parole di rabbia a chi non ce la fa”), pezzo sorretto dallo splendido volteggiare di violino e fisarmonica, egregiamente legati da un basso elastico e dai crescendo ritmici della batteria, mentre un mandolino tremante si occupa di spargere ulteriori colori. Insomma, il ritorno dell’ensamble romano- Daniele Coccia Paifelman (voce), Alessandro Pieravanti (voce narrante e batteria), Eric Caldironi (chitarra acustica), Ludovico Lamarra (basso elettrico), Franco Pietropaoli (chitarra elettrica) e Alessandro Marinelli (fisarmonica)- ci regala un disco traboccante di umanità, di vene sanguinanti e di squarci in petto. “Maestrale” è un album profondamente e meravigliosamente politico, in cui il lirismo letterario di Daniele Coccia ha risaltato come forse non aveva ancora fatto. È un disco che non si ascolta, ma che, probabilmente, per un motivo o per un altro, ognuno di noi vive quotidianamente. 


Giuseppe Provenzano

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