In questo album Laerte Scotti raccoglie nove brani profondi e partecipati. Sono nove dediche, come recita il titolo, in cui l’organettista laziale ripercorre - senza porsi limiti di genere e contenuto - la strada fatta fin qui. Attraversata imbracciando l’organetto, sperimentando l’effettistica, elaborando le tradizioni legate al proprio strumento, rivivendo gli incontri e le collaborazioni con musicisti e artisti. Le dediche sono indirizzate a figure precise, che puntellano un orizzonte musicale molto ampio e che, con la loro forma quasi epistolare, ricompongono la forma armonica di uno strumento in fondo variegato e, senza dubbio, affascinante. Uno strumento sul quale alcuni artisti, oggi come ieri, hanno costruito una narrazione originale, non solo attraverso il potenziamento timbrico, ma soprattutto il superamento delle sue applicazioni più tradizionali. Questo è un aspetto che non si può certo non considerare e che, a ben vedere, torna spesso nelle riflessioni, di musicisti e osservatori, sullo strumento. Da un lato perché l’organetto ha avuto (e mantiene) dei connotati evidentemente popolari, essendo una parte fondamentale di molti paesaggi sonori di tradizione orale. Dall’altro perché ha le potenzialità di trasformazione di uno strumento complesso. Potenzialità che spetta, ovviamente, agli artisti, comprendere e sperimentare. La scaletta di “Dediche” ci appare come l’indice dei capitoli di un libro e precisa che sì è personale e risulta da scelte artistiche, ma rappresenta una traiettoria definita nella relazione: le dediche sono come delle stazioni che separano gli spazi che si percorrono lungo quella traiettoria. Si decide dove fermarsi ma comunque si passa di lì: e, per questo, ogni brano riflette, in un certo senso, un incontro, oltre che una sosta di riflessione. Che, per noi, diviene l’elemento che ci fa comprendere il percorso, l’insieme delle suggestioni di Scotti. La parte più interessante di questa narrazione è, come si può immaginare, riconoscere i destinatari. Perché racchiudono un mondo che si articola in modo originale, e perché, una volta concluso il percorso, ne ricompongono uno nuovo, in cui si ricollocano, in una disposizione piena di senso, John Lennon e Francesco Guccini, Pino Daniele e Loreena McKennit, Màirtìn O’Connor e Alessandro Parente (con il sostegno dei musicisti che accompagnano Scotti: Marco Pescosolido al violoncello, Gabriele Coen al clarinetto, Daniele Sepe al sassofono, Cosmo Masiello alla chitarra, Maura Amata alla voce, Maurizio Stammati ai flauti, Antonello Iannotta al tamburello, Stefano Saletti al bouzochi e Vincenzo Zitello all’arpa). Una vota dentro non ci resta che ascoltare, riconoscendo a ogni dedica il tempo di un ascolto attento: perché ognuna è elaborata con solennità, con l’attenzione della scrittura sentimentale, con il sentimento della gratitudine e della rispettosa ammirazione. In generale, le dediche - che, presentate così, possono sembrare colme di sola riverenza - si configurano come delle vere e proprie micro narrative di melodia e ritmo, che propongono, nel percorso di elaborazione dell’album, i micro significati di uno sviluppo musicale ormai decennale. Laerte, che nasce in provincia e si sposta nel mondo e assorbe in pieno la dinamica dell’avventura sonora del suo strumento, riconosce il valore di una crescita circolare, che impregna non tanto l’organetto ma un organismo di cui questo fa parte e che coincide con il musicista, la sua visione artistica, la sua capacità di trattenere e trasmettere, di frastagliare, ricomporre e sistemare. “Immagine” di John Lennon (non so se questa è la prima volta che viene ricomposta con l’organetto: in ogni caso il risultato è commovente per la forza che esprime) è posta a conclusione del giro, per raccogliere i termini più profondi di una vertigine insopprimibile. Il suo andamento non può ovviamente prescindere dalla matrice iconica del brano, ma il ritmo che la impregna ne denota un carattere imprescindibile, incorruttibile sebbene destrutturato dentro i tasti morbidi dell’organetto: come ci dice lo stesso autore, qui vi è la speranza che, nella trasformazione, sorregge un modo che può cambiare. La leva che fa da contrappeso a quest’ultimo tassello può essere “Bella figliola/ Sunshine and showers”, in cui la tammurriata e la locuzione che più ne connota la funzione confluiscono, in una composizione che gradualmente si rigenera con sovrapposizioni equilibratissime, dentro un flusso melodico celtico. I musicisti che affiancano il maestro Scotti intervengono con consapevolezza in ogni passo dell’album: con decisione e incisività (“Marco Polo”), con delicatezza e dolce leggerezza (“Argos”), grazia, leggerezza, stupore (“Quando”) sempre perfettamente funzionali alla parabola. Così l’album ci indica la strada da seguire (personale ma di valore), affidando a Moni Ovadia un messaggio chiaro - che declama in “Il vecchio e il bambino”: “mi piacciono le fiabe/ raccontane altre”.
Daniele Cestellini
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