Gera Bertolone – Femmina (Sonora Recordings, 2024)


Gera Berolone, cantante, musicista e produttrice raffinata, affida a uno sguardo disincantato un lavoro (forse necessario, se, come nel caso in questione, è condotto con originale equilibrio) su molte suggestioni della Sicilia musicale. Compone e ricompone richiami popolari, adotta testi della tradizione orale e li traspone in una cornice sonora in buona parte nuova: sempre antiretorica e sorprendente. Il titolo “Femmina” riflette l’interesse dell’autrice nei confronti di un universo sterminato, prosaicamente reificato, ma qui splendidamente analizzato. Si tratta di un album profondo e bello, che insiste, in molti passi, sui punti forti dell’epica popolare: le melodie – enfatizzate e “sgrassate” con archi e chitarra elettrica – e le liriche, elaborate con partecipazione e, allo stesso tempo, doverosa distanza. Si può leggere tra le varie recensioni diffuse online che la distanza di Gera (che vive a Parigi) dalla Sicilia (dove è nata) è stata percepita da molti come una chiave d’interpretazione dell’album. Si può essere sostanzialmente d’accordo: quello spazio elaborato e riempito di musica e tempo astratto può sorreggere, in buona parte, l’atmosfera ambigua, di effimero e profondo, che pervade le undici canzoni dell’album. Un’atmosfera che può godere innanzitutto della forza di una consapevolezza non comune, non appariscente ma onnipresente, pervasiva: consapevolezza di guardare a un repertorio e a una storia di suoni e riferimenti come si legge (anche tattilmente, come ci diceva Umberto Eco) un libro – di contemplare una canzone in tutte le sue componenti, assorbendone tanto il significato quanto i “gesti” che l’anno generata (il contesto, il paesaggio, l’aura, si potrebbe anche dire). Una consapevolezza che si lega a doppio filo a una sorta di coscienza musicale di base (la musica si assorbe come il linguaggio, come il dialetto) e a una competenza, che diviene, gradualmente, uno strumento interpretativo, una voce. Questa competenza – che porta Gera a incrementare il “suo” paesaggio sonoro di provenienza con percussioni, chitarra elettrica, clarinetto e (come si diceva) archi – si aggancia a quella coscienza. Si dirà che è scontato: ma allora perché siamo irresistibilmente imbevuti, dopo appena un paio di ascolti, delle inebrianti novità di un brano come “Ti vurria vasari” (testo tradizionale e musiche di Gera)? Per l’andamento terzinato? Per la delicatezza dei dialoghi della chitarra acustica e del clarinetto, per la delicata fermezza della voce? Forse perché sembra intessere un discorso più che armonico con “Binidissi lu jornu” (stessa relazione tra musica e parole), che lo segue quasi senza interruzione? O forse perché percepiamo l’ordine narrativo dell’autrice, perché comprendiamo, dopo appena mezz’ora di ascolto, il rapporto eufonico tra quelle due prospettive di cui si diceva – la coscienza e la competenza – e entriamo in una dimensione finalmente piena, condivisa, aperta e rigenerata. Non è forse questo che ci piace di “Femmina”: la forza della presenza e la lotta alla convenzione, l’ampiezza della sua prospettiva, la profondità del suo orizzonte? Sì, perché l’onda della tradizione espressiva a cui si riferisce non è mai cavalcata con inerzia. Anzi l’album manifesta lo scopo di scomporre una narrativa indurita da processi di reificazione e mercificazione, reinserendone gli elementi più vitali in una nuova forma discorsiva, piena di anomalie e di fascino, di sicurezza e di concretezza. Questo processo è leggibile anche nei brani più legati o più direttamente ispirati alla tradizione (“La tarantula”, “Abballati”, “Vinni a cantari”), ma è illuminante in quelli più sperimentali e trascinanti, come “U muccaturi”, “Sta terra nun fa pi mia” e “Figghia mia”. E si rileva in pieno con “Amuri ca di notti”, in cui la perfezione armonica dell’Anouman String Quartet (violini, viola e violoncello) combatte con le dissonanze di una chitarra elettrica straziante, nella riuscita traduzione musicale di un amore infelice.  


Daniele Cestellini

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