Amir Amiri Ensemble – Ajdad-Ancestors. Echoes of Persia (Latitude 45, 2024)

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Nel presentare questo lavoro, lo strumentista e compositore iraniano Amir Amiri, residente in Canada dal 1996, racconta la sua infatuazione, a soli sette anni, per la cetra trapezoidale santur a settantadue corde percosse con martelletti (mezrab), che sentì suonare da un musicista dalla lunga barba una notte nella sua casa di Teheran. Una volta intrapreso lo studio dello strumento, il suo maestro, Mehran Galei, lo guidò a connettere diverse forme d’arte, invitandolo non solo ad ascoltare musica, ma anche a leggere libri e osservare dipinti per comprendere la profonda relazione tra la musica e il mondo circostante. Un secondo momento di svolta avvenne quando, cresciuto nell’Iran degli anni ’80 – periodo di forte ostracismo nei confronti dell’educazione musicale – Amir vide alcuni video di Paco de Lucia, portatigli dal padre. Nonostante le difficoltà nel proseguire la pratica strumentale, continuò a studiare e a ricercare. Per superare i limiti dello strumento diatonico, decise di utilizzare due santur: uno accordato nella scala naturale e l’altro dotato di leve di alterazione che offre ampia versatilità. La sua vita, dunque, è stata segnata da condizionamenti e traumi, tra cui il più grave fu la frattura intenzionale del polso sinistro inflittagli come avvertimento da sgherri del regime. La persecuzione spinse Amiri a lasciare il suo Paese. Dopo aver studiato con Ravi Shankar in India, emigrò in Canada, dove incontrò Mohsen Behrad, inventore di un santur a più chiavi per esplorare il rapporto tra concezione eterofonica iranica e quella armonica occidentale. Amir Amiri, oggi cittadino canadese, ha inciso colonne sonore per film, è stato insignito di un riconoscimento della CBC nel
2003, Nel suo Paese d’adozione ha creato diverse formazioni: Amir Amiri Ensemble, con cui si è anche esibito al Womex (Porto, 2021), l’Ensemble Kimya, collaborazione tra musicisti di Montreal e Parigi, il duo Perséides, con il contrabbassista Jean Félix Mailloux Moody Amiri, con il violista Richard Moody, la collaborazione con il pianista jazz e improvvisatore Jean-Michel Pilc. “Ajdad” (Antenati), un album sottotitolato “Echi della Persia”, rende omaggio alle tradizioni d’arte e folkloriche del suo Paese d’origine, mettendo in luce i legami culturali tra mondo arabo e iranico. Un tema particolarmente sentito dal santurista, cresciuto durante la guerra Iran-Iraq, periodo in cui la propaganda governativa alimentava il conflitto storico tra la Persia e il mondo arabo. La copertina dell’album è opera dell’artista visiva iraniana di Montreal Marjane Saidi, della quale è stato riprodotto un magnifico dipinto, tra astrattismo e realismo, intitolato “Treasure in the Garden”. Il piccolo ensemble guidato da Amiri al santur comprende quattro musicisti iraniano-canadesi di Montreal: Reza Abaee al ghaychak (liuto ad arco utilizzato in Iran, Afghanistan, Pakistan e Tagikistan), Omar Abu Afach alla viola, Abdulwahab Kayyali all’oud e Hamin Honari alle percussioni tombak, dayereh e daf. “Ajad” si distingue per l’alta qualità musicale, a partire
dall’iniziale “Khurshid” (Il Sole), brano costruito su arpeggi in tonalità maggiore. Anche la seconda traccia, “Baran” (Pioggia), si ispira a un elemento naturale, l’acqua, e vuole essere un omaggio al celebre suonatore Pashang Kamkar, membro del gruppo Kamkars. Un’altra figura di rilievo celebrata nell’album è Abolhasan Saba (1902–1957), etnomusicologo, compositore, violinista e suonatore di setar. Di Saba viene riproposta “Raghs Choobi” (La danza dei bastoni di legno), tributaria nei confronti del patrimonio coreutico del Khorasan. Il sistema della musica d’arte del radif – che incarna l’estetica e la filosofia della cultura musicale classica persiana, strutturato in oltre 250 unità melodiche (gushe) disposte in cicli modali – è alla base di “Chahar Pareh”. Il portamento malinconico di “Sarzamineh Madaran” (Verso la mia patria), eseguito in modo Abu Atta (avaz del dastgah Shur nel sistema classico persiano), impressiona per il solo di ghaychak. A seguire, “Chahar Mezrab Abu Atta”, con i suoi tempi composti, ricorda il virtuosismo di Faramarz Payvar (1933–2009), innovatore del santur, anche per l’uso di bacchette feltrate, che sistematizzò il radif e sviluppò un sistema di notazione musicale. In “Sarzamin” (Spirito della nostra terra), un assolo di oud esplora il sistema del maqam, evidenziando il retaggio comune tra musica iranica e araba. Se “Roohol Arvah” (Spirito del nostro amore) è una composizione dalla struttura interna al sistema classico persiano, “Raghseh Sama” (Danza Sama) riprende stilemi folklorici della musica curda. Richiami alla tradizione curda e turca caratterizzano anche “Homayoun” (Regale), in cui entrano in gioco diverse accordature della cetra. L’elegiaca “Yadegar Doust” (Ricordo degli amici) rivela una nota profondamente personale per Amiri. Infine, la title track trae ispirazione dalle processioni funebri: una celebrazione della vita attraverso la danza in contrasto con il lutto vissuto con le lacrime. Nel segno di una notevole abilità tecnico-interpretativa, “Ajdad” si impone come una raffinata tessitura di memoria e innovazione. 


Ciro De Rosa

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