È un ritorno denso di lucine accese, quello di Vinicio Capossela. Lucine di feste in avvento, di “trambusti, abbracci, lacrime, redenzioni, rivoluzioni, ribellioni”. Che celebrano riti a cui, nella loro tensione popolare, è sempre più necessario attaccarsi, soprattutto in tempi di dimenticanze e de- identificazioni collettive. Da venticinque anni Capossela celebra questo rito con un vero e proprio concerto natalizio, al Fuori Orario di Taneto di Gattatico, in provincia di Reggio Emilia. Adesso, dopo anni di rinvii e urgenze diverse, ha deciso di raccontare il clima festosamente zoppo di quei concerti in questo “Sciusten Feste n. 1965”. Registrato, fra il 2020 e il 2021, insieme ai fidi “Asso” Stefana, Giancarlo Bianchetti, Mirco Mariani, Teo Ciavarella, Glauco Zuppiroli, Michele Vignali e Achille Succi (più gli interventi di ospiti come Vincenzo Vasi, Marc Ribot, Greg Cohen e le Sorelle Marinetti) è, andando a scavare per benino, un lavoro decisamente più complesso di quando possa sembrare a pelle. C’è uno studio quasi filologico, dietro. Tanto in fase di ri-arrangiamento dei brani e di scelta dei timbri, quanto nel lavoro svolto sui testi. E poi è un vero e proprio giro del mondo: abbraccia le ossa messicane e lo swing 50s, ma anche certi fumi di Londra e le luci dei luna park di Hannover e delle feste del Sud Italia, il poetico marciume dei Pogues e il lirismo di Waits. C’è la vita in ogni sua forma, ci sono le lettere d’amore e malinconia e le danze scatenate. C’è un Capossela in grandissimo spolvero, con una performance interpretativa incredibile, che alterna tenerezze malinconiche e picchi da crooner, urla sguaiate e ironie taglienti. Album aperto dallo spoken ieratico di “Sopporta con me” (“Non tenermi compagnia, ma abbi il coraggio, almeno una volta, di sopportare con me”, adattamento di “Abide with me”, inno della tradizione anglosassone composto da Henry Francis Lyte attorno alla metà dell’800, qui ammorbidito dalle incursioni dei sax e del clarinetto e dalle aperture dell’armonio. La stupenda e autobiografica title-track, primo dei tre inediti del lavoro, viaggia lungo strofe che si librano sulle ali della sezione archi e un ritornello elettrizzato da un forsennato levare, per spegnersi in un finale valzereggiante. A seguire, una “Voodoo Mambo” figlia bastarda del Waits più cupo, della “Trilogia di Frank” e delle calaveras del “Dia de los muertos” messicano, animata da una sezione ritmica – è il caso di dirlo – ossea ed ossessiva, su cui guizzano gli abissi dei sax ed i volteggi pipistrelleschi della chitarra di Sua Maestà Marc Ribot, tutti nel vortice di una danza macabra delirante. Altro notevole passaggio è una “Bianco Natale” “gridata al cielo per reclamare l’innocenza perduta della neve”, come dice lo stesso Vinicio, scorticata da schitarrate ispide ed elettriche e da una sezione fiati fosforescente e tiratissima. “Jingle bells” diventa “Campanelle” e finisce per abitare negli anni ’50, con un delizioso swing dinamizzato dai contrappunti di sax e clarinetto e dai cori delle Sorelle Marinetti. Immancabile, poi, l’omaggio – stavolta diretto – al Tom Waits di “Blue Valentine”, qui rappresentato da un commovente adattamento di “Christmas card from a hooker in Minneapolis”, che diventa semplicemente “Charlie”, accolta da un tripudio di sax e dalle tensioni malinconiche e infreddolite del Fender Rhodes e dell’Hammond. “Agita” omaggia “Broadway Danny Rose” di Allen, in uno scatenato profluvio mangereccio, perfettamente scandito dalle nevrosi delle chitarre elettriche. Giro di boa è l’elegante e misteriosa “Danza della Fata Confetto”, direttamente da “Lo Schiaccianoci” di Tchaikovsky, momento strumentale che è un tripudio di flauti e clarinetti, splendidamente incupiti da glockenspiel e theremin. A seguire arriva “Conforto e gioia”, traduzione di “God rest you merry, gentleman”, caliginosa carola inglese qui dipinta dai ricami della sezione fiati e dai timbri medievali di una meravigliosa celesta. “Santa Claus è arrivata in città” è incalzata dall’Hammond, su cui volteggiano fiati caleidoscopici, a disegnare una nuova- e più cupa- storia di un Babbo Natale fattorino Amazon stressato e suicida. “Voglio essere come te”, versione italiana di quella “I wanna be like you” cantata dalla voce di Louis Prima nel “Libro della Jungla” della Disney, si colora dei timbri legnosi della marimba, contrappuntata dalle immancabili incursioni dei fiati e dallo strumming ostinato del banjo, perfetti per accogliere una “Come e più di te” che fa quasi da coda narrativa. Con “Il friscaletto” (“Eh cumpari” in origine) si torna al Sud Italia, con gli ostinati del marranzano a reggere il tripudio di fiati di questa contradanza sghemba con gli strumenti declinati tutti al femminile. A continuare questo enorme gioco di riproposizioni ci pensa una “Dankeschoen” (direttamente dal repertorio di Bert Kaempfert) che diventa “Grazieschoen” e che si anima di fiati vellutati e un Hammond di camoscio, riempite dal timbro quasi da crooner di Vinicio. Chiusura del lavoro è l’ultimo inedito, una “Il guastafeste” che più caposseliana non si potrebbe, scandita da una metrica incessante e dai timbri desertici della chitarra. E, siccome non è festa senza l’ultimo gioco d’artificio, alla fine della fine arriva un inaspettato cameo della Vanoni, a lasciarci lo sbrilluccicare di una malinconia che, davvero, tutte le feste si porta via: “Coriandoli, questo è il tempo che mi dai, mi butti a terra e te ne vai, coriandoli”.
Giuseppe Provenzano
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