L’epopea di Makám Együttes: storia di una longevità musicale – I Parte

“Dedicato con profondo affetto a Ferenc ‘Feri’ Kiss (1954 - 2024) fondatore dei leggendari Kolinda e Vízöntő e autore di vari capolavori in proprio. Polistrumentista, compositore, etno-ricercatore, divulgatore, direttore artistico dell'Etnofon Folk Music, innamorato della tradizione musicale che rivalutava e sperimentava continuamente. Ha coperto incarichi istituzionali nelle organizzazioni civili di arte popolare, Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica d’Ungheria 2006, è stato, tra l'altro, premiato dalla Fondazione d’Arte Béla Bartók”. 
La denominazione “Makám” apparve per la prima volta in una lontana alba degli anni ‘80 del secolo scorso, unita alla terza incarnazione di Kolinda, rimasta nelle mani del solo Péter Dabasi dopo la separazione da Iván Lantos (che decise di continuare a vivere in Francia) e Ágnes Zsigmondi (che partì in direzione degli Stati Uniti). Dissapori insuperabili avevano portato alla dissoluzione di quel seminale gruppo magiaro dopo tre capolavori musicali prodotti in terra transalpina, elogiati perfino dal quotidiano nazionale “Liberation” e seguiti da concerti sia in piccoli folk clubs, sia al Théâtre de la Ville o all'Olympia di Parigi. Dabasi e il violinista András Szell (che era appena entrato nella formazione) tornarono in Ungheria fondando Unikum che di lì a poco registrerà un estemporaneo LP omonimo (prodotto sempre in terra transalpina). Zoltán Krulik si unisce invece al nuovo quartetto ma dopo un mese di concerti nei Paesi Bassi, Dabasi si convince sia meglio far rinascere la creatura Kolinda e chiede a Krulik di farne parte. Quest’ultimo accetta entusiasticamente e i nuovi presupposti rispetto al passato comportano un cambio, oltre che nei suoni, anche nella denominazione stessa dell’ensemble, che diviene “Makám & Kolinda”. La sigla rimane attiva per quattro anni e due eleganti dischi (1982-1984) prodotti dall’olandese Stoof Records, il primo dei quali verrà un paio di anni dopo, stampato anche in edizione ungherese dalla Hungaroton, con in copertina, al posto degli originali strumenti musicali, i capelli al vento (di un phon!) di Margit, moglie di Szabolcs Szőke. Nel disco si assiste alla ricerca di un problematico quanto stimolante equilibrio tra i due nuclei, nel tentativo di un accattivante riassunto in continuazione con quel che era stato e contemporaneamente si cerca una strada per il futuro. Le canzoni ottengono una sensibile caratterizzazione d’atmosfera grazie ai nuovi arrangiamenti orientati verso un suono da camera acustico e virtuoso, denso di improvvisazioni jazzistiche miste a richiami orientali. I testi, in parte a penna di poeti ungheresi contemporanei, ambiscono a trovare attraverso le liriche, armonie e punti di contatto tra concetti astratti ed elementi popolari concreti. Teoricamente avrebbero dovuto essere questi i primi
capitoli di un nuovo assestamento musicale ma non era affatto facile, considerata l’unicità che aveva caratterizzato Kolinda. La storia racconta infatti che così non avvenne anche se i due dischi appaiono tutt’ora prodotti affascinati, innovativi e artisticamente maturi. Makám preferì una strada autonoma intorno alla figura di Krulik, chitarrista acustico e compositore molto prolifico, che aveva dimostrato fin dall’inizio idee molto chiare. Al motto di “la musica non è un modo di vivere, il modo di vivere è musica” venne seguito nell’avventura da Endre Juhász all’oboe e da Szabolcs Szőke a gadulka bulgara e sarangi, a cui si aggregheranno alcuni nuovi arrivati: Péter Szalai a tabla e marimba, László Bencze al contrabbasso e Balázs Thurnay a kaval, marimba, e udu (antica percussione africana a forma di vaso). Il laboratorio musicale Makám Együttes contemplava dunque fin dal suo nascere, la figura di Szabolcs Szőke, che rappresenterà per i decenni a venire, ad avviso di chi scrive, la più prolifica e innovativa figura della scena etnica ungherese. Krulik, Juhász e Szalai erano stati precedentemente coinvolti nell’embrionale CSÖ (Studio Creativo Cinque), primo, storico nucleo fondato dal chitarrista e rimasto attivo dal 1975 al 1980 (un unico breve brano, in quartetto, sarà ascoltabile all’interno della bizzarra compilation “Orient-Occident” (2007). Zoltán (Zoli) Krulik, nato a Tatabánya nel 1951, aveva iniziato a cantare fin dall’asilo, quindi in chiesa e a scuola, le lezioni di pianoforte cominciarono a sei anni; frequenterà poi la scuola secondaria a Pannonhalma e nello stesso luogo, il Liceo Benedettino. Ad un certo punto gli verrà permesso di suonare regolarmente l’organo della basilica e della cappella Beata Vergine e prese così a suonarlo anche durante le messe studentesche. Imparò le linee melodiche del canto gregoriano, innamorandosi in modo particolare dei canti contemplativi e meditativi. Partecipò poi come corista, alle opere sacre polifoniche e questo gli tornerà utile al momento di arrangiare vocalmente le antiche canzoni popolari ungheresi. Dopo aver trascorso un bucolico anno come assistente agricolo all’interno dell’esercito (in cui comunque esisteva una propria banda musicale) si trasferirà nella capitale per diplomarsi in chitarra classica all’Accademia e prendere contemporaneamente lezioni private di sitar dal Maestro András Kozma. Adattarlo alla sua condizione di suonatore mancino era certamente complicato
ma la folgorazione di aver visto in un video Ravi Shankar imbracciare il sitar sul palco durante il concerto per il Bangladesh del 1971 era stata, a suo dire, troppo stimolante. Nel 1976 fondò l’amatoriale Creative Stúdió Öt (CSÖ) che rappresentava quasi una filosofia di vita, un laboratorio creativo innovativo-sperimentale di improvvisazione, con audaci strutture armoniche e ritmiche composto da due chitarre, oboe, contrabbasso e tabla. Ivan Lantos (membro dei Kolinda) ebbe a notarli a Székesfehérvár e trovando nella loro musica, punti di contatto e similitudini con le sonorità degli Oregon, fece dono a Zoltán del loro disco Winter Light (1973). Il gruppo ebbe la durata di cinque anni, finché, come accennato all’inizio, nel 1980 l’altro membro Péter Dabasi non lo invitò all’interno del processo di trasformazione che stava coinvolgendo in quel momento Kolinda, dopo i tre LP incisi presso la Disques Exagone parigina. Dischi che tanto stupore e plausi avevano suscitato nella scena folk europea occidentale e anche un certo successo commerciale. Grazie all’esportazione il secondo faceva bella mostra, infatti, con la sua splendida copertina cartonata, pure nelle vetrine dei negozi musicali nostrani accanto a Stivell à L'Olympia e Malicorne 2. Preciso “occidentale” poiché in quel momento il vecchio continente era ancora diviso in due blocchi distinti e la loro innovativa musica, essendo pubblicata da una etichetta francese, non godeva di alcuna circolazione nell’area europea orientale, Ungheria compresa, dov’erano assurdamente pressoché sconosciuti rispetto a Francia, Spagna, Italia, Svizzera o Olanda. Per i suoi primi anni di vita Makám camminerà, con cambi di formazione, sull’avanguardistico crinale di una musica sperimentale e creativa, contemporanea e popolare al tempo stesso, basata su dosaggi sapienti di processi sonori, intrecci di elementi ritmici jazz, slavi meridionali e orientali. Una miscela dal delicatissimo equilibrio tra echi tradizionali ungherese-balcanici, richiami a sonorità asiatico-meridionali, contrappuntismi pigmeo-africani misti a minimalismo alla Steve Reich e pianismo alla Frederic Rzewski. Diuturnamente la suggestione indotta dall’ovattato e caratteristico suono cupo dell’oboe, presente in entrambe le formazioni, ha portato
qualcuno a definirli “gli Oregon dell’Est”. Caratteristica ben evidente fin dall’esordio di “Közelítések = Approaches” (1988), inciso presso l’istituzionale Hungaroton Records, etichetta di Stato della Repubblica Ungherese dei Soviet. Un disco nel quale i brani melodici e le improvvisazioni sono collocati sul lato A, mentre le composizioni lunghe, ricche di elementi ripetitivi e strutture metriche tipiche della musica contemporanea sono udibili sul lato B. Ulteriori conferme della statura artistica e dell’ispirazione profonda del quintetto magiaro si ebbero ascoltandolo in quello stesso anno, dal vivo qui a Verona, dove l’improvvisazione colta del jazz si fondeva ai respiri cameristici dell’avanguardia. E lo fu ancor più nel 1992, quando tornarono, durante un lungo periodo di pausa discografica (sei anni), raddoppiati nel percussionismo e dando l’idea di “ripercorrere tutte le età della musica”. La sopraffina sensibilità delle composizioni di Krulik è intrisa della lezione di Bela Bartók (1881-1945) e del pianista György Szabados (1939-2011). Il primo ha tracciato la reinterpretazione delle tradizioni popolari con la sua pionieristica ricerca etno-culturale della purezza naturale all’interno del patrimonio magiaro dove “...i corpi possono vagare coperti solo di vento e sole, le gambe sopportare la pietra del focolare e non solo calpestare muffa frondosa, le bocche bere non da bicchieri di cristallo ma da sorgenti pure di montagna...”. Lo sciamanico Szabados, dal canto suo, filosofico creatore di un originale free-jazz basato sulla musica tradizionale magiara, intendeva la vita stessa come parte del flusso di pensiero organico e di musica libera e collettiva. Il tutto nell’elaborazione dell’arcaico patrimonio popolare: “...si deve attraversare il calore e sentire la natura improvvisativa del jazz all’interno della musica ungherese, come durante l’esecuzione degli arcaici canti neri si sente l’improvvisazione nella voce seguire l’espressione, la respirazione e i cambiamenti dello stato emotivo...il folklore ungherese non è estraneo alla pratica dell’improvvisazione...” Messo da parte l’atipico apporto dell’ospite americano Steven James al sarod (il quale per seguire i corsi di Ravi Shankar, si era trasferito in India nel periodo 1976-1983) che aveva contribuito alla registrazione di Közelítések = Approaches (in special modo nel brano Indák/Trailers), la dualità della linea di improvvisazione melodico-tematica e delle strutture ripetitive e complesse dell’utilizzo sistema sonoro
cameristico di Bartók, continua anche nel disco seguente “Divert Time Into” (1994). Nel marzo del 1990 in Ungheria si svolsero le prime elezioni parlamentari libere dalla fine della guerra mondiale, un’epoca volgeva al tramonto, nel mondo intero la world-music prendeva sempre più spazio. La Hungaroton nel 1995 venne privatizzata, nel giro di pochi anni sorgeranno anche in terra magiara numerose etichette discografiche indipendenti, “Divert Time Into” viene pubblicato dalla “Fragile Records” ma si tratta, con tutta probabilità, di una auto-produzione mascherata (risulta essere questa la sua unica realizzazione!). È un disco sempre rigorosamente privo di vocalità e la scelta di utilizzare strumenti in grande maggioranza convenzionali, anche se in combinazione con kaval e gadulka tradizionali, allontanano l’ensemble (ora un ottetto) dalle sonorità formalmente folkloriche, per avvicinarlo piuttosto a una avanguardia sempre più priva di riferimenti geografici precisi. La tipica ritmica asimmetrica balcanica è combinata alle metriche della musica classica nord-indiana, i vari sistemi tonali sui modelli persiano-arabi in carattere ripetitivo, conducono il gruppo a riferirsi sempre più al “maqam” da cui prendono il nome. Krulik scrive e i compagni improvvisano un illuminato e suadente quadro sonoro di tradizione araba, composto di struttura melodica, scale, frasi, modulazioni e abbellimenti che talvolta paiono prometeici. Dal 1991 il sassofonista d’avanguardia István Grencsó (soprano e alto) aveva iniziato a partecipare come ospite solista, divenendo membro del gruppo a pieno titolo tre anni dopo. Fin dalle prime battute di “Café Babel” (1997) si comprende come la sua statura jazzistica sia in grado di connotare e condurre il suono d’insieme e possedere parallelamente un effetto fertilizzante sulle composizioni. Il senso di coesione e interrelazione delle identità non può più venire semplicisticamente descritto dai contrasti tra parole quali “arcaico” e “moderno”, “collettivo” e “individuale”. Oregon appare ancora sullo sfondo ma anche svariate altre indistinte sonorità ECM e spunti improvvisativi free, soprattutto afroamericani. Alcuni ospiti entrano ed escono nei suoni, frammentando i singoli brani, l’elemento percussivo etnico sparisce del tutto a favore di una più convenzionale batteria (seppur parca e funzionale al suono d’insieme). Zoltán stesso si cimenta in più occasioni, al pianoforte, d’altronde la sua estesa apertura compositiva glielo permette. La musica
contiene una sintesi terrena probabilmente non estranea alle condizioni di vita di quegli anni nel cuore del bacino dei Carpazi, dove erano entrati differenti mondi da tutti i lati. Le stratificate culture millenarie rimanevano mascherate, impigliate nell’anima, il disco contiene suoni meno spirituali dei precedenti, è più pulsativo e aggressivo, meno meditativo e trasognante. L’elemento folklorico ungherese non è che una suggestione che appare ora sempre più lontana. Ma improvvisamente l’anno dopo, alla comparsa di “A Part” (1998), tutto cambia ancora una volta, l’onda world music è travolgente ovunque in Europa e Makám muta come il serpente che ha pelle non elastica e che non si rigenera. Il sassofono sparisce dall’insieme, percussioni di svariati generi prendono la scena, i brani si sintetizzano in brevi spazi temporali alla ricerca di elementi comuni primordiali, appaiono una serie infinita di strumenti musicali orientali e africani. La moneta dei Makám mostra l’altra faccia: dove Café Babel era Terra, A Part è Aria. Continui frammenti emergono in superficie da strumenti quali tampura, sarangi, ektara, celesta, marimba, gong, sanza, gatham, descrivono una sorta di foresta sonora dell’Eden. Come in momentanea pausa, melodie e armonie appaiono nella semplicità del loro lato più nudo, indigeno e radioso, la simmetria della natura universale a cui appartengono come “in una lingua musicale che era andata perduta durante la costruzione della Torre di Babele”. Una visione filosofica di elementi che pur essendo antichissimi, si attualizzano per aver subìto lunga dimenticanza. E col trascorrere dei minuti si discendono gli strati profondi di questa ricerca sonora e rimane il ritmo puro in una struttura cubista, Makám sembrerebbe quasi voler tentare l’impossibile di arrestare il moto perpetuo universale per tradurlo in linguaggio umano. Potremmo considerarlo quasi un disco testamentario di un decennio magnificamente rappresentato dagli album musicali prodotti e portati in concerto in giro per il Vecchio Continente. Il periodo comprenderebbe anche un disco radiofonico di musica da camera in stile “etno-folk ripetitivo” creato a colonna sonora di un film di viaggio nel sud-est asiatico e registrato senza Grencsó, che, con i suoi numerosi movimenti, richiama l'atmosfera della prima produzione Makám (Armonica Laotiana, Vízóra…). 

Flavio Poltronieri

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