A dir poco immaginifico questo EP di sette brani che vede i fratelli Bottasso – che, come i lettori sanno, seguiamo passo passo in tutte i loro progetti – sperimentare con due musicisti eccellenti: il clarinettista catalano Oscar Antolì e il violoncellista svizzero Bo Wiget. I Bottasso – Nicolò al violino e alla tromba e Simone all’organetto diatonico – ci confermano (di nuovo) che non badano alle formalità. E che, soprattutto, non si fermano a nessun genere: si potrebbe dire, con un pizzico di fastidiosa retorica, che non permangono in nessuna zona di confort. E qui, però, questa seccante enfasi ci aiuta a comprendere (ancora prima di un ascolto attento, anzi dell’invito a un ascolto coinvolto e sereno) che la traiettoria del duo piemontese è lunga e diritta. Non solo perché – come siamo soliti dire a proposito degli artisti che ci piacciono di più – è orientata, in misura prevalente, dalla sperimentazione curiosa e passionale. Ma anche perché, quando li si ascolta (in duo, in solo, in orchestra o immersi in formazioni variegate) ci si ritrova protetti e ben “aperti” in quella dolce sensazione dello stimolo, del pungolo. In uno spazio di nebbia (prima) e vento (poi) che, in egual misura, genera famigliarità e novità, tepore e brivido. Da un lato – per essere più chiari – riconosciamo i tocchi e i timbri, e ci sentiamo un po’ a casa. Dall’altro comprendiamo quanto ci stiamo sporgendo verso l’orizzonte, condividendo (dalla nostra posizione di ascoltatori “intuitivi”: non diciamo analitici né critici) la forza delle possibilità proposte e di quelle che potrebbero essere (“Liquida”). Niente di meglio, allora, che aggrapparsi al flusso di una compagine musicale dalla matrice forte, per lasciare che i suoni indichino la via (“Loca”). Il legno – come di consueto – è l’elemento principale: il violino sferza e mai indugia in armonie comode, l’organetto impasta melodia e ritmo senza cadere nell’assoluto popolaresco. E, questa volta, gli altri due strumenti stimolano e incamerano, allo stesso tempo, una dinamica provvidenziale, che assume, nello spazio di sette brani sufficientemente espansi (si va dai due ai sette minuti), la forma di una novità davvero curiosa e affascinante (“530 minutes”). È evidente che nel quartetto ci sia sintonia e armonia (“Chersogno”): nella prospettiva, nell’assetto di base e nella ricerca e nell’uso della leva di più tradizioni di riferimento. In questo caso non ci riferiamo alle tradizioni popolari (che, in più passi dell’album, sembrano essere evocate, anche solo sul piano timbrico e ritmico: ma potrebbe essere solo una suggestione irriducibile) ma, in modo più convinto, a quelle culturali. A quelle, cioè, legate all’esperienza e all’allenamento, alla selezione e all’analisi dei testi e dei contesti musicali attraversati dai quattro musicisti (“For Anton”). Insieme a questi elementi di ambiente e di condizione, emergono quelli che riflettono un linguaggio in fieri. Cioè che sta divenendo e che noi osserviamo nel momento in cui, gradualmente, si compone. Questa tensione generativa affranca l’album dalla “sola” sperimentazione (“Morgetaler”). La quale – si dirà e mi dico io stesso mentre scrivo – è già tanto, è già straordinario e magari averla sempre. Ma qualche volta assottiglia il gusto dell’indagine e, con questo, dell’ascolto (probabilmente non dell’esecuzione), perché può allontanare dalla genesi e dal processo e, con un buon grado di paradosso, plastificare l’esito. Oltre questo complesso spazio – ancora, di cultura e gusto, di prospettiva e radici, di interpretazione e tensione – se ne intravvede uno più profondo, meno fisico e definito: più possibile, più eventuale (“Mantra”). Così, “A dozen words for seven” apre all’infinito: quattro musicisti di grande esperienza e talento, otto mani senza freni protese in avanti.
Daniele Cestellini