Alvise Nodale – Gotes (Il cantautore necessario/Culturarti/Egea, 2024)

A partire dagli anni Ottanta e con maggiore intensità nel decennio successivo, la scena musicale friulana è stata attraversata da uno straordinario fermento creativo che ha visto emergere diversi cantautori e gruppi, impegnati nel coniugare le sonorità del rock, del folk-rock e del blues con l’uso della lingua furlana. Questo importante pezzo di storia della musica italiana, sebbene poco noto al grande pubblico, è documentato magistralmente dai quattro volumi di “SUNS Antologjie de gnove musiche furlane” e rappresenta qualcosa di più che una semplice “scuola”, ma piuttosto un vero e proprio movimento in cui sono emersi cantautori come Luigi Maieron, Lino Straulino, Loris Vescovo e Franco Giordani. L’onda lunga che arriva dagli anni Novanta non si è spenta con le generazioni successive, ma anzi è proseguita con i più giovani Massimo Silverio e Alvise Nodale. Quest’ultimo, nonostante non abbia ancora trent’anni, è una presenza familiare in queste pagine. Chitarrista e autore raffinato, è dotato di una voce che lascia il segno, capace di essere allo stesso tempo sussurrata e profonda. La sua poetica, espressa in “marilenghe” (la lingua friulana), variante carnica, evoca luoghi e stati d’animo della sua Carnia. Nodale ha fatto propria la lezione di illustri conterranei come Giulio Venier, Franco Giordani e, naturalmente, Lino Straulino, così come quella del chitarrismo folk inglese. Dall’esordio “Conte flame” a “The Dreamer” (con canzoni in italiano), fino a “Zornant” e alla produzione con il trio Villandorme (in cui suona insieme a Lino
Straulino e Alessia Valle), il suo percorso artistico è stato un crescendo che ha attirato l'attenzione a livello nazionale, superando i confini della sua regione. Il suo nuovo album, “Gotes” (Gocce), nasce dall'incontro con Edoardo De Angelis durante una residenza artistica del cantautore romano a Prato Carnico. Nelle dieci tracce acustiche, distillate con intimità e prodotte da De Angelis, Nodale canta e suona chitarre, mandolino, harmonium e percussioni, accompagnato da Stefano Cabrera (violoncello) e Flavia Barbacetto (voce). Blogfoolk ha incontrato Alvise Nodale a Cagliari, dove è stato finalista alla XVII edizione del Premio Parodi, con l’ottima “Sunsûr”, brano di punta del suo nuovo lavoro, che ha ricevuto la menzione per il miglior testo.

Partiamo dal tuo rapporto musicale e poetico con la lingua friulana nella sua variante carnica.
Il rapporto è più che musicale, il friulano lo parlo quotidianamente con tutti. Qui a Cagliari ci sono Andrea Del Favero e Gianni Gardon di Folkest. Con Andrea credo di non aver mai parlato in italiano in vita mia. Per me è spontaneo e naturale. A livello musicale, è più pratico scrivere in friulano perché ha già vocali lunghe ed è più facile da musicare e mettere in melodia rispetto all’italiano, dove a volte devi cambiare gli accenti perché non stanno nella metrica.

Hai punti di riferimento letterari?
Ho preso qualcosa qua e là da altre canzoni o da alcune immagini, e qualche spunto da Leo Zanier, che è stato un grande poeta carnico. Quando scrivevo queste canzoni, Leo era appena mancato e Lino Straulino, insieme a Valter Colle, ha preso alcune delle sue poesie e le ha musicate. Durante le presentazioni dal vivo, Lino mi aveva chiesto di suonare anche la chitarra, e così ho approfondito una persona la cui poesia già conoscevo un po’. Penso di aver preso qualche immagine indirettamente, inconsciamente.

Da “Conte Flame” a “Gotes”, cosa è cambiato dal punto di vista artistico?
Dal punto di vista artistico, spero almeno di aver imparato a cantare… (ride, ndr). Chi ascolta "Conte Flame" e quest’ultimo lavoro forse fa fatica a riconoscere il timbro della voce. Ho cambiato un po’ il modo di cantare. È rimasto costante il comporre le canzoni sulla chitarra, una cosa che sto cercando di fare sempre meno. Il bello di far uscire un disco è che ti libera e ti fa pensare già al prossimo lavoro, che ho già in mente: musicare storie tradizionali, tramandate oralmente in Friuli, principalmente in Carnia. Per fare questo mi sono un po’ imposto, tra virgolette, di scrivere il meno possibile sulla chitarra. Adesso ho pronti tre brani, di cui due sono stati scritti sul liuto rinascimentale e uno sulla chitarra.

Quindi non solo chitarrista, suoni anche altri strumenti?
Principalmente sono un chitarrista, ma per curiosità strimpello strumenti a corda, comunque a pizzico, come il mandolino, il bouzouki e il liuto, anche se molto amatorialmente. Se un vero suonatore di liuto mi vedesse suonare, probabilmente me lo toglierebbe dalle mani perché ha tutta un’altra impostazione. Però, conoscendo già la meccanica della chitarra e degli strumenti a pizzico, mi arrangio.

Uno degli aspetti importanti di “Gotes” è la produzione di Edoardo De Angelis: come vi siete incontrati e com’è stato lavorare con lui?
Edoardo e l’associazione Culturarti hanno prodotto questo disco. Ci siamo incontrati grazie alla Presidentessa Rosvita Del Fabbro, che con Edoardo organizza ogni anno a Prato Carnico una residenza per cantautori e cantautrici under 35. L’anno scorso mi sono iscritto alla residenza e ci siamo conosciuti lì. Edoardo ha apprezzato il mio modo di suonare e cantare, e anche questo “limite” – detto tra virgolette, perché è brutto chiamarlo limite, visto che nessuno, nemmeno Edoardo, lo vede come tale – di cantare in friulano. Mi ha detto: “Proviamoci, vediamo cosa succede”. E adesso siamo qua. All’inizio ero un po’ spaventato all’idea di lavorare con lui, perché nel mondo del rock senti che il produttore a volte si impone. Avevo paura che mi dicesse: “Fai così, fai colà, cambia l’accordo”. Invece è andato tutto liscio: mi ha chiesto di cambiare solo due note con l’harmonium, e per il resto mi ha lasciato molto libero di sbagliare, provare e sperimentare. È stata una collaborazione super tranquilla.

In termini di ambientazione, ami atmosfere soffuse, le penombre? Non si avverte una luce intensa nel tuo cantare, nel tuo suonare.
No, non c’è. È un disco che parla indirettamente di un cambiamento. La luce presente nel cambiamento è quella che va dalla notte al giorno o dal giorno alla notte. Non tratta di un cambiamento globale, ma piuttosto personale. Sono canzoni che parlano di problemi, tormenti, amori, che ognuno può vivere, ognuno in modo diverso, ma questa è la mia visione. Questo è il senso, il filo conduttore delle canzoni, che includono spesso momenti della giornata, citati frequentemente. Non è stato un intento deliberato, nel senso che non mi sono seduto dicendo: “Adesso scrivo una canzone sul tramonto o sull’alba”. Ma poi, mettendole tutte in fila, mi sono reso conto di questo filo comune.

La tua è una ricerca che privilegia l’uso di linee melodiche essenziali, minimali, un lavoro per sottrazione: è questa la tua cifra?
Diciamo di sì. Il mio modo di lavorare è sempre molto scarno. A volte parto dalla musica, ma non succede spesso. Con queste canzoni sono partito da chitarra e voce, e mi sembrava che già funzionassero così. Non riuscivo a immaginare un arrangiamento. “L’ore” e “Sunsûr” sono le prime che ho scritto, hanno almeno sei o sette anni. Hanno avuto vari arrangiamenti. Ho provato tante volte a registrare questo album, ma
sentivo sempre che mancava qualcosa. Alla fine, abbiamo tolto tutto e siamo andati avanti così. A livello di melodie, “Sunsûr” è volutamente scritta secondo il metro della canzone tradizionale friulana, rispettando un po’ tutti i dogmi: i versi sono in ottonari, e anche la melodia rispetta la tradizione. Nelle melodie dei canti tradizionali, la prima voce parte dalla terza nota della tonalità e chiude sulla fondamentale con una scala discendente. Ho imparato e assimilato questi aspetti, e la melodia di “Sunsûr” è il risultato di questo studio.

Ci sono brani che più ti rappresentano?
Personalmente, il pezzo a cui tengo di più è “Cuintrevint”, per ragioni personali. I brani che vedo funzionare meglio a livello commerciale, ossia le canzoni che piacciono di più, sono “Sunsûr” e “Se”, che sono forse le più rappresentative dell’album, insieme a “Un âti mâr”.

“Cuintrevint” ricorda Nick Drake… C’è un riferimento preciso o è legato ai tuoi variegati ascolti?
Ci hai visto proprio giusto, perché per l’arpeggio di “Cuintrevint” sono partito dalla chitarra e da “Cello Song” di Nick Drake. L’accordatura è la stessa, forse cambia solo la posizione del capotasto. Mi ricordo che stavo suonando “Cello Song”, poi ho cominciato a cambiare, a invertire un po’ le note dell’arpeggio, ed è venuta fuori “Cuintrevint”. Racconta di una perdita, ma non è una classica canzone sulla perdita, del tipo: “Mi manchi, non ci sei più e così via”. È la perdita vista da chi resta, da chi ha perso qualcuno. 
È per metà qualcosa che vorresti dire quando qualcuno a te vicino perde qualcuno, e per metà qualcosa che vorresti sentirti dire quando tu perdi qualcuno di importante.

E “Lontan”?
“Lontan” è una canzone sulla fragilità, sul sentirsi fragili e vulnerabili, e questo spesso comporta il sentirsi lontani, diversi. Ma non è un limite, non è una brutta cosa. Credo che tutti ci sentiamo fragili, a volte, o un po’ giù di morale. Parla principalmente di questo, del sentirsi distanti più che lontani, distanti dagli altri.

Poi c’è “L’invier”?
È una canzone strana, nata naturalmente, perché spesso in queste interviste o parlando con le persone mi viene chiesto come scrivo le canzoni, da cosa parto. “L’invier” nasce dal tentativo di spiegare il processo creativo, quello che succede prima che le parole arrivino sul foglio.

“Gotes” è uno strumentale ma anche il titolo. Come mai questa scelta?
Devo ammettere che l’idea l’ho copiata da Lino Straulino. Perché i due dischi che mi vengono in mente sono “I dîs” e “Spin”, che sono i miei suoi due dischi preferiti assieme a “Al Soreli”. sono i “I dîs” e “Spin” sono i titoli degli album e dei brani strumentali al loro interno. Gli unici brani strumentali
all’interno dei dischi. Io invece ho usato “Gotes”, che ho scritto mentre stavo leggendo un libro, un romanzo, “Le cronache dell’assassino del re” (trilogia fantasy scritta da Patrick Rothfuss, ndr), in cui il protagonista, un musicista, si ritrova da solo col liuto nella foresta, dove succedono un po’ di cose nel mezzo. Lui è proprio solo con questo liuto che lui suonava. Dopo un po’ di mesi da solo nel bosco si è stufato di suonare le canzoni che sapeva già quindi ha cominciato a comporne di nuove, ma non sentendo mai una voce che non fosse la sua, ha deciso di scrivere brani strumentali sulle cose che lo circondavano, che un suono non ce l’avevano. Lui fa l’esempio della foglia che cade sullo stagno e quindi ha portato in musica questo movimento, questa foglia che cade. Mi è sembrata un’idea veramente bella, poi ho scelto le gocce, loro un suono già ce l’hanno, però sulla chitarra i primi armonici, il primo arpeggio armonico dovrebbe rappresentare le gocce di pioggia che battono.

Chiudi con la già citata “Un altro mare”, “Un âti mâr”.
“Un âti mâr” è stato un piccolo sogno che si è realizzato, perché mi è sempre piaciuta la musica nei film. Ho sempre desiderato provare a scrivere una colonna sonora. Due miei amici, appassionati di regia e videografia, mi hanno chiesto di scrivere la musica per alcune scene di un corto che partecipava al Premio “San Simon” di Codroipo, un premio letterario che ogni quattro anni prevede anche una sezione per i
cortometraggi. Mi hanno chiesto di comporre la musica per due scene e una canzone per i titoli di coda, ed è nata “Un âti mâr”. La canzone racconta la storia di una separazione, che nel film viene esplorata in profondità: il senso è la possibilità di fare le nostre scelte senza che ci vengano rinfacciate, di poter andarcene quando non ci sentiamo più a nostro agio.

Più volte hai menzionato il debito nei confronti di Lino Straulino: lui ormai è un classico della musica friulana, un punto di riferimento storico, se vogliamo. Recentemente si è imposto all’attenzione anche Massimo Silverio. In Friuli c’è un grande fermento...
Sono contentissimo di quello che sta succedendo in Friuli, perché siamo tutti amici e ci conosciamo bene. A volte sembra che ci siano tanti musicisti, ma alla fine le facce che vedi sono sempre quelle quattro o cinque. Anche tra noi giovani c'è un bel movimento. Quest'anno, ad esempio, un’altra cantautrice friulana, Nicole Coceancig, ha vinto il Premio Ciampi. Lei utilizza il friulano carnico nei suoi brani e mi fa molto piacere perché ho sempre creduto che in Friuli ci fosse un grande fermento. È lo stesso spirito che si vive anche al Parodi: non c’è mai competizione o gelosia. Anche Nicole aveva inviato i suoi brani per il Parodi, ma siamo felici l’uno per l’altra e dei successi reciproci. Sono molto contento anche del percorso di Massimo Silverio, che per me è fondamentale. Senza di lui, forse, non esisterebbe Alvise Nodale. Il mio primo approccio alla musica professionistica l’ho avuto in duo con lui, e il mio modo di cantare lo devo tanto a Massimo, che aveva fatto qualche seminario di canto. Lui sapeva cantare, io invece suonavo soltanto. Poi una sera, Massimo aveva un concerto altrove, ma avevamo già fissato una data. Così ho
cantato io. Se quella sera lui fosse stato presente, chissà come sarebbero andate le cose… Sono davvero felice che la musica friulana stia finalmente trovando il suo spazio.

Che è successo al trio Villandorme? 
È sopito, ancora in fase di stand-by, vediamo. se magari tornerà fuori, non so sarebbe da discutere con Lino per capire.

Cosa dici di questa esperienza al Premio Andrea Parodi? 
(L’intervista è stata raccolta prima che Alvise Nodale si aggiudicasse la menzione per il miglior testo con “Sunsûr”, ndr) Io ho già vinto solo per essere qui. Non me l'aspettavo di arrivare fino a questo punto. Venendo da dove vengo io, essere arrivato qui è già una vittoria, comunque vada. L’atmosfera è una delle migliori che si possa desiderare: tutti sono gentili e disponibili, e non si percepisce alcuna competizione. Dietro le quinte scherziamo, ridiamo, ci diamo pacche sulle spalle, indipendentemente da come andrà. È un ambiente che apprezzo molto, proprio per questo spirito di cooperazione. Come dico spesso, siamo tutti nella stessa barca. Il Friuli ne è un esempio in piccolo, ma anche in Italia, confrontandoci durante questi tre giorni, posso dire che siamo davvero tutti nella stessa barca.


Ciro De Rosa

Alvise Nodale – Gotes (Il cantautore necessario/Culturarti/Egea, 2024)
Dall’esordio con “Conte Flame” del 2015, passando per “The Dreamer” del 2018 e “Zornant” del 2021, Alvise Nodale ha compiuto un percorso artistico tutto in crescendo, mettendo sempre più a fuoco le sue ispirazioni e la sua cifra stilistica, ma soprattutto affinando il suo songwriting. Il suo nuovo album “Gotes” ha preso vita dall’incontro con il cantautore romano Edoardo De Angelis che ne ha curato la produzione per l’Associazione Culturale CulturArti, e raccoglie dieci brani originali, composti in lingua carnica, nei quali si intrecciano le riflessioni sui sentimenti, sull’esistenza e su quei dubbi che puntellano il vivere quotidiano e i cambiamenti della vita. Il titolo che in carnico vuol dire “Gocce” racchiude il senso profondo di questo disco, ogni canzone è, infatti, una goccia diversa per forma, per densità, per sostanza e racconta un frammento di quella vita, fatta di esperienze stratificate che cambiano, formano e segnano. Dal punto di vista musicale, il disco si caratterizza per arrangiamenti prettamente acustici che mettono al centro la voce e la chitarra del cantautore carnico, esaltate dagli interventi del violoncello di Stefano Cabrera e dai controcanti di Flavia Barbacetto. De Angelis ha lavorato, dunque, per sottrazione facendo emergere tutte le sfumature della scrittura di Alvise Nodale, quei chiaroscuri poetici dove ogni pausa, ogni silenzio acquista un peso specifico all’interno di ogni brano. Se in “Zornant” emergeva la capacità con la quale descriveva la sua terra, in questo nuovo album il songwriting appare ancor più evocativo e denso di lirismo sia nei testi sia nelle tessiture musicali. Tutto ciò lo si percepisce sin dalle prime note dell’iniziale “L’ore” nella quale si intrecciano folk americano e canzone d’autore, a cui segue la splendida “Lontan” che colpisce per la raffinata costruzione melodica. Il vertice del disco arriva con “Sunsûr”, per la quale è stato realizzato il bel video diretto da Federico Gallo che ne ha colto in modo eccellente le suggestioni poetiche del testo, tutto giocato sui cromatismi dell’alba. Se in  “Ricuarts” si susseguono immagini legate ai ricordi familiari, la successiva “Gotes” è un pregevole strumentale che mette in luce l’eleganza dello stile chitarristico di Nodale con il crescendo chitarristico che sembra evocare la pioggia che cade e non cade in un giorno grigio. Si prosegue con il climax di “Se…” che prende il volo a metà brano con il violoncello a sostenere la trama intessuta dalla chitarra, e l’introspettiva “Cuintrevint”, una riflessione sulla vita e sui sogni che spesso si infrangono contro la realtà. “Invier” con la sua architettura quasi cameristica con gli archi e la chitarra ad avvolgere le voci del cantautore carnico e di Flavia Barbacetto, ci conduce verso il finale con “Il spieli” e “Un ati mar”, due piccole perle incastonate in un disco da ascoltare con grande attenzione per coglierne fino in fondo la profondità delle liriche e i suoi magistrali arrangiamenti che valorizzano tutto il talento del cantautore carnico.


Salvatore Esposito 

Foto di Ingrid Wright (2-3), Denis Blarasin (4, 5, 6)

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