Volendo descrivere in estrema sintesi la musica del trio tedesco “Lind”, la si potrebbe
definire come l’anello di congiunzione musicale tra Italia settentrionale e paesi del Nord Europa. Quello che sin dal primo ascolto cogliamo è infatti una certa familiarità nel suono e nelle modalità di cantare, che da una parte rimanda all’ampio repertorio di danze, ballate, canzoni dell’arco alpino, al di qua e al di là dello spartiacque padano-veneto, e dall’altra al repertorio irlandese e delle isole britanniche. Mano a mano che gli ascolti di “De Leit” si ripetono (fatto di facile accadimento in quanto l’album è di una piacevolezza di suono rara), si avvertono però anche echi più lontani, che vengono dalla Scandinavia come dal Mediterraneo, a ricordare che sin dall’antichità le culture nate sulle sponde del “mare nostrum” e quelle che si affacciano sul Mar Baltico si sono incontrate ed influenzate. Con ciò non si pensi però che “De Leit” sia una delle tante operazioni di accostamento di tradizioni e stili fatte solo per compiacere i gusti globalizzati (o banalizzati) di un certo pubblico. “De Leit” è un album in cui si avverte grande padronanza di diversi linguaggi musicali, ed una sincera passione per tutta la “buona musica”. Un’opera che potremmo definire di sincretismo musicale (i Lind parlano della loro musica come di Trad’n’Roll sinfonico), di grande originalità e accattivante bellezza, sulla cui riuscita contano sicuramente le differenti “origini” musicali dei componenti del gruppo: Karl Helbig (voce, sax e tuba) ha iniziato nell’ambito klezmer e ha una solida esperienza come jazzista; Benni "Cellini" Gerlach (voce e violoncello) proviene addirittura dalla scena black-metal, dove si è fatto un nome come performer e arrangiatore del gruppo "Letzte Instanz", di cui è un fondatore; Tim "Doc Fritz" Liebert (voce, armonica a bocca e waldzither, cioè la cetra “della foresta” germanica) è dei tre quello più orientato verso le musiche tradizionali, in particolare il folk blues, l’irlandese e quella di Turingia e di Sassonia.
L’album si apre con “Vorm glas”, delicata, tintinnante e trasparente come il vetro a cui fa riferimento il titolo, ed è una sorta di riflessione filosofica sulla vita con note di buonumore, come accade quando il pensare alto si accompagna a un buon bicchiere di vino. “De leit” è una runda del Vogtland, una canzone da ballo a cui la tuba di Helbig conferisce un tono allegro e quasi ironico, a cui segue “Julisand”, una canzone di grande dolcezza basata su un testo del poeta Wolfgang Borchert e composta da Karl Helbig, e a cui il violoncello prima e il sax nel finale conferiscono un intimo carattere baltico. La ballata “Flut”, cioè “Alluvione” fa riferimento alla piena disastrosa del fiume Elba nel 2013 per diventare un invito a una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi ambientali. Musicalmente rileva la frequentazione di Liebert con il folk irlandese e scozzese, arricchito però da alcuni passaggi di stampo jazz. Al risveglio della natura a primavera è dedicata l’evocativa “April”, brano originariamente strumentale dei “Land Über” (duo formato da Helbig e Gerlach) a cui Helbert ha aggiunto un testo. “Winnerling” è un’altra divertente runda cantata, e uno dei brani più spiccatamente germanici dell’album. “Berg” ha un tono classico contemporaneo, e riporta in musica le impressioni ricevute da Gerlach e Helbig a un loro risveglio mattutino tra le Alpi svizzere. “Der lindenbaum” è uno dei componimenti del poeta tedesco Wilhelm Müller messi in musica da Franz Schubert, che i Lind ripropongono trasformando da lied introspettivo e romantico in un riuscito brano trad’n’roll. Un frammento della cantata BWV 147 di Johann Sebastian Bach e di un valzer, abbinati a un brano tradizionale della collezione Plauen, condendo il tutto con un pizzico di klezmer, danno origine a “Mei Madel” un toccante tributo all’amore. Chiude l’album “S’werthaus”, dai Lind definito “autentico pezzo di pop da taverna”. In esso si canta la gioia del vivere su una musica da danza del Vogtland-Turingia proveniente dalla collezione di Heinrich Nicole Philip datata 1784. Si tratta del brano più antico dell’album, eppure anche in questo caso il gruppo riesce ad andare oltre i confini temporali e geografico-culturali della tradizione arrivando ad evocare nel finale addirittura sonorità da ballu tundu (ascoltare per credere).
Marco G. La Viola
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