Chi conosce “Asso” sa bene che vuol dire ascoltare la sua chitarra: pulita, sporca, ferma, vaga, incisiva, polverosa, blues. Sa bene che le sue corde si muovono nella direzione della sperimentazione, che non si inquadra in uno stile preciso, ma abbraccia tutto ciò che, hic et nunc, è necessario, ossigenato, vitale. Che si tratti della traiettoria minimalista e spigolosa, tagliente, di una chitarra elettrica e inquieta, che si tratti di una chitarra steel fluente e morbida, spaziale e metafisica, o di un’acustica arrotolata sul nervo dell’arpeggio ritmato: il suo suono emana la favola del sognatore, del musicista che intravvede la forma della musica nel momento in cui la esegue, nel momento stesso in cui mani, corpo e testa confluiscono nello spazio astrale del movimento musicale. Tutti i muscoli del suo corpo musicale tendono nella stessa direzione: non si può immaginare l’arpeggio caleidoscopico di un brano come “The house” – appoggiato su suoni orizzontali che strisciano irregolarmente sotto le corde – senza vedere la fonte da cui si genera. Una fonte che è, appunto, fisica: che ha una forma ben precisa. E che corrisponde – almeno per chi scrive – con la postura sonora di “Asso”, con la schiena piegata ad arco a stringere la chitarra sulle ginocchia e la testa tanto vicina alle corde da poterle morderle. Si pretende spesso che un musicista assomigli a qualche altro musicista. È un fenomeno abbastanza comune nel comportamento dell’osservatore musicale. Lo si assume principalmente per far comprendere agli altri in che modo devono ascoltare la musica di cui si parla. Lo si assume per rassicurazione, potremmo dire. In relazione al disco omonimo di “Asso” Stefano si possono trovare, tra i media specialistici che ne parlano, diverse note di questo tipo. Note dalle quali emerge un’ammirazione chiara per il lavoro e il musicista, ma che, allo stesso tempo, rilasciano una sensazione troppo simile al timore, all’insicurezza e, in qualche caso, alla vaghezza. Niente paura – possiamo dirlo in ragione anche della bellezza dell’album – il chitarrista sa quel che fa e piace a molti. Non serve tradurlo. E a lui, ovviamente, piacciono molti musicisti: lo sappiamo, è evidente quanto normale. Ma nel caso di Stefana e, in particolare, di questo album, non mi sporgerei troppo verso i mondi che lo ispirano – mondi dei quali nessun chitarrista sano di mente farebbe mai a meno: da Marc Ribot a Ry Cooder, così come da Woody Guthrie a Hank Williams. Mi sporgerei piuttosto sull’autonomia creativa di Stefana, che è riuscito – in modo più compiuto ed esplicito rispetto alle tantissime prove della sua carriera, da turnista, produttore e autore – a dare forma alla sua visione di musicista, suonando la sua poesia intima con il tocco insuperabile di chi strappa ogni suono dalla sua anima. La composizione stessa dell’album – che racchiude ispirazioni trasversali, dal folk al blues all’ambient – ci conferma uno sguardo più che ampio. L’ispirazione di un musicista, appunto, più che strutturato: pienamente definito, centrato, composto dalle fonti variegate del sapere musicale e chitarristico. A ben vedere, l’album sembra suggerire, nel suo insieme policromo, anche un bel divertimento. Non è solo il compendio formale di un’ispirazione felice, ma soprattutto una riflessione sincera su un momento di raccolta, di verità. A queste condizioni anderebbero ricondotti gli elementi di cui si compone, altrimenti non si comprenderebbero in pieno le relazioni che li legano: pochi e prediletti strumenti, la sola voce di Roscoe Holcomb – letteralmente disseppellita dagli archivi e lanciata in una dimensione del tutto nuova, stellare, paradossale – che canta i suoi “Born and raised in Covington”, la fantastica “I am a man of constant sorrow” e, ovviamente, “Moonshiner” (la cui multiforme fortuna ha interessato, come sappiamo, un po’ tutti: da Tim Hardin ai Punch Brothers fino a Bob Dylan). E, per concludere, la mano di PJ Harvey nelle vesti di produttrice, che ha sistemato la scaletta, estrapolato le atmosfere giuste e regolato l’immagine generale dei nove brani.
Daniele Cestellini
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