Perturbazione con Nada e Alessandro Raina – La Buona Novella. Dal vivo (Iceberg/Warner Music Italia, 2024)

Ci sono cose di cui sai che ti occuperai sempre, perché magari sono cose che ti hanno cambiato così tanto nel profondo che quello che sei lo devi, inscindibilmente, anche a loro. E quindi, fosse anche solo per riconoscenza, cerchi di omaggiarle ogni volta se ne presenti l’occasione. Ecco, “La Buona Novella” è una di quelle cose che mi ha stravolto totalmente, e parlarne, soprattutto in relazione alla modernità disarmante di cui continua ad essere attraversato, è sempre una bella scarica di endorfine. In questo caso, ovviamente non raccontiamo del disco originale, quanto, piuttosto, dell’interessante omaggio realizzato dai Perturbazione (con un paio di ospiti di tutto rispetto, ma ci arriviamo). Omaggio che altro non è che la registrazione – quasi riscoperta – di un concerto che la band di Rivoli tenne nell’ottobre 2010, per i quarant’anni dell’originale, al Teatro Civico di Varallo Sesia, in provincia di Vercelli. 2010, si diceva: una vita fa, racconto anche di un tempo altro, in cui si parlava dei Perturbazione come di un sestetto, con- oltre ai “soliti” Tommaso Cerasuolo, Alex Baracco e i fratelli Cristiano e Rossano Antonio Lo Mele- anche Gigi Giancursi (a chitarre e cori) ed Elena Diana (violoncello e cori) come elementi effettivi, cui si aggiunsero, per quella specialissima occasione, Dario Mimmo a fisarmonica, bouzouki, tastiere e cori, e le voci dell’immensa Nada e di quel fuoriclasse che risponde al nome di Alessandro Raina. Fatte queste doverose premesse, tutto scorre in perfetto ordine di tracklist, con una “Laudate Dominum” scandita da bassi acquosi, pronti a lasciare il passo all’arpeggiare umido della chitarra, che introduce una “Maria nella bottega del falegname”, colorata dalle incursioni del bouzouki e della fisarmonica ed increspata ritmicamente dalle nevrosi del violoncello e dallo strumming ostinato del mandolino. A seguire, “Il ritorno di Giuseppe”, cantata da Raina, sgrana l’incedere polveroso della chitarra su un pattern ritmico sabbioso appena accennato, con le aperture di violoncello e fisarmonica ad allargare il finale. “Il sogno di Maria” omaggia splendidamente i colori misteriosi dell’originale, con gli interventi del violoncello a contrappuntare i fraseggi nebbiosi di mandolino e bouzouki. Nada ci regala una “Ave Maria” da pelle d’oca, intensamente adagiata sui teneri arpeggi della chitarra, a loro volta accolti da un organo terso e da un violoncello cristallino. Ad aprire la seconda parte del live, quella più ruvida, ci pensa una “Maria nella bottega del falegname” che, sempre sgranata dalla voce di Nada, si srotola lungo l’incedere marziale della sezione ritmica, affumicato dai synth e caricato di solennità dal violoncello. Quell’ottovolante di umanità ed emozioni che è “Via della Croce” (cantata da Alessandro Raina) viene perfettamente tratteggiato da una vorticosa linea di basso e dagli interventi della chitarra elettrica, a correre perfettamente sui pattern affrescati dalla batteria. “Tre Madri” torna a rannicchiarsi dentro dinamiche meno serrate, ma si riempie di tensione grazie al magistrale (e commovente) intreccio di malinconie tessuto da chitarra, fisarmonica e violoncello. La colossale “Il Testamento di Tito” (cantata, oltre che da Cerasuolo, sia da Nada che da Raina) trova nuovissimo colore in un vestito ritmico più compassato dell’originale, quasi a voler raccontare l’umanissima stanchezza del Tito moribondo, reso più arioso dai fraseggi dei synth e dalle aperture di fisarmonica e violoncello. A chiudere il concerto, una “Laudate Hominum” su cui il lavoro di ri-arrangiamento è stato fenomenale: l’arpeggiare della chitarra è scavato, in ogni sua profondità, da un basso di piombo, squarciato, nel bridge, da una fisarmonica che, sul finale, lascia spazio ad una tempestosa lisergìa musicale da opera rock. Un finale perfetto per un disco (fortunatamente) ritrovato, che ha l’enorme merito di aver passato una mano di vernice fresca su una delle vette indiscutibili della nostra canzone d’autore, e di averlo fatto con tatto, cura e rispetto. E, come se non bastasse, ri- pone l’attenzione su dei testi che continuano a parlarci a voce piena, perché, purtroppo, duemila e passa anni di storia non ci hanno insegnato nulla. 


Giuseppe Provenzano

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