Giuseppe Di Bella, ennese, cantautore, poeta, chitarrista, interprete, ricerca la propria originarietà in una sintesi evolutiva della canzone contemporanea, vicina alla musica di composizione colta ma che si nutre dalla grande canzone d’autore e popolare del Novecento. Musicista vulcanico, ricco e prodigo di idee. Nel 2015 con Enrico Coppola pubblica “Il tempo e la voce”, un lavoro di restituzione dai testi e contesti della Scuola poetica siciliana duecentesca, salutato con entusiasmo dalla critica specializzata, accolto dalla Società Dante Alighieri, presentato al Museo di Palazzo Riso, presso Il Teatro Biondo di Palermo e all’IIC a Barcellona in Spagna. Un suo brano è al centro del cortometraggio musicale “Lassami”, diretto da Gianluca Sodaro, con la partecipazione dell’attrice italo-francese Angelique Cavallari De la Tour. Due anni dopo la sua canzone “D’amurusu pais”i, coi versi di Tommaso di Sasso, è la colonna sonora del video d’arte di Antonella Barbera e Fabio Leone, in cui Mimmo Cuticchio è oprante e attore protagonista coi suoi pupi. Del 2018 è “Fuddìa”, opera musicale e letteraria tra versi e narrazione, in cui la contemplazione è già partecipazione: al paesaggio, nello spazio, nell’azione umana. Nel 2020, ancora in collaborazione con Enrico Coppola, esce “Orfeo”, articolato concept album sul mito, che vede tra gli ospiti e i collaboratori Ilaria Patassini Pilar, Mimmo Cuticchio, i Fratelli Mancuso, Giovanni Arena, Michael Occhipinti, Cinzia Maccagnano, Federico Ferrandina, Attilio Ierna. Più volte finalista al Premio Parodi, al premio Botteghe d’Autore e al Premio Tenco. Nel 2022 esce “Sette Arcangeli”, sviluppata nell’incubatore creativo Almendra Music a Palermo. Nel 2024 è la volta di “Tre Sogni Di Sanciu”. Lo raggiungiamo per ripercorrere il suo originale percorso artistico.
Proviamo a riannodare i fili della tua educazione musicale e delle tue influenze?
Prima di ricevere un’educazione musicale di tipo accademico, formativo, io sono figlio di due genitori entrambi musicisti: mio padre è stato per lungo tempo un chitarrista e anche un arrangiatore qui nel nostro entroterra siciliano, ha fatto diverse cose, per un periodo tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90; lui era molto influenzato dal fingerpicking, il bluegrass, la musica acustica del Nord America, soprattutto quella per chitarra. Mia madre invece è una pianista classica, ha studiato pianoforte fino al sesto anno di conservatorio e poi nel frattempo sono arrivato io. Quindi diciamo che’ in un certo senso io sono stato l’interruzione e allo stesso tempo la genesi di un nuovo momento musicale perché, dei tre fratelli che siamo, io sono stato l'unico a raccogliere in maniera compiuta questa eredità della musica. Quindi sono cresciuto con la musica fin da bambino, cioè noi in casa ascoltavamo musica di tutti i tipi in maniera costante. Sono cresciuto ascoltando da piccolo, a parte i cantautori che erano una cosa abbastanza ovvia, soprattutto moltissima musica jazz, musica vocale, musica classica, musica per chitarra, per pianoforte, la musica del romanticismo e questa è stata una prima influenza; oltre ad ascoltare la musica che suonavano i miei genitori, c’era anche quella di alcuni musicisti che venivano in casa per collaborare. In quel periodo c’è stata anche la scoperta di un mio grande amore musicale che è Pat Metheny. Lui fu uno dei primi a raccogliere questo frutto della musica mista, della musica che veniva da varie parti del mondo e convogliarla in una sorta di nuova fusion-jazz molto contaminata e anche molto popular, almeno nella fase iniziale. È stato il primo assoluto imprinting; poi ho cominciato a studiare la chitarra al liceo musicale e al conservatorio, dove sono arrivato fino al quarto o quinto anno di chitarra, poi ho smesso di studiare chitarra perché sono andato a Bologna e lì è iniziata la mia seconda passione o, meglio, la mia seconda ossessione che è stata quella per la letteratura e per la poesia contemporanea.
Nonostante tu abbia avuto un padre che era appassionato di musica americana dove la chitarra classica con le corde di nylon si usa pochissimo, tu sostanzialmente sei rimasto fedele a questo strumento.
Sì, anche se nei miei dischi la Martin D35, uno standard della musica folk americana, l’ho spesso utilizzata e poi ho anche studiato e suonato alcuni brani di vari chitarristi come Giovanni Unterberger, Stefan Grossman e altri. Però nella mia musica la chitarra classica è rimasta forse lo strumento privilegiato, perché credo che al di là degli studi ho sviluppato un feeling molto particolare con questo strumento. Quello che sono riuscito a tirare fuori almeno per la mia musica con la chitarra classica non è venuto fuori con la chitarra folk con le corde di metallo. La musica del Mediterraneo è spesso suonata da strumenti con corde di budello o di nylon, strumento. La chitarra classica è più malleabile rapportandola con la voce, dalle corde di nylon si può dire che si può tirar fuori un canto.
Dicevi che poesia e letteratura sono diventate una parte fondamentale nel tuo percorso artistico nel periodo bolognese.
In quel periodo frequentavo moltissimo anche le presentazioni di poesia contemporanea a Bologna, il centro di poesia contemporanea dell’università e ho cominciato a scrivere anche in maniera sistematica i miei primi versi: è nato il mio primo libro di poesie e quando è finita l’esperienza professionale lavorativa che mi assorbiva moltissimo con una rivista letteraria, ho capito che dovevo tornare fortissimamente alla musica e il mio tornare alla musica è coinciso anche con il mio tornare in Sicilia, quindi un doppio richiamo sia alla musica che al ritmo al sud. È stato questo ritorno che mi ha fatto poi rifondere in un’unica eco, in un’unica voce sia l’interesse per la poesia che per la musica.
Uno dei tuoi primi dischi, riguarda proprio uno specifico studio sui poeti siciliani del ‘200 ed è anche un album che tu hai realizzato insieme a Enrico Coppola.
Enrico è un musicista mio conterraneo con cui ci siamo ritrovati in questo luogo al centro della Sicilia, quasi con quella di solitudine di cui parla Sciascia, a pensare di creare qualcosa. In realtà io avevo già registrato e completato tutte le tracce di quello che è stato il mio secondo album “Fuddia”, che anche se è uscito dopo in realtà è stato realizzato prima. Quindi cronologicamente a livello proprio di genesi “Il tempo e la voce” è successivo a “Fuddia”. È un lavoro molto particolare perché la poesia siciliana dei poeti siciliani sotto Federico II sono stati tramandati a noi non nel volgare siciliano del ‘200 ma in toscano, perché dopo Dante la lingua universale per l’Italia è diventata il toscano fiorentino duecentesco. Tutti i testi letterari antecedenti a Dante venivano poi tramandati e trascritti praticamente in fiorentino. Nessun filologo è riuscito a recuperare i testi originali (esiste solo un testo che è “Pirmeucoria Allegrae” di Stefano Protonotaro che è l’unico testo che è arrivato a noi in volgare siciliano). Abbiamo fatto un lavoro di fantalingua, di fantafilologia, abbiamo praticamente preso i testi toscanizzati e li abbiamo risicilianizzati utilizzando un database dell'Università di Catania con tutti i termini e le occorrenze che praticamente potevano somigliare alle parole che noi cercavamo in questo mega dizionario, alle parole del toscano. In alcuni casi era molto semplice perché dal toscano al siciliano cambiava soltanto la vocale finale. Era un po' più difficile quando i termini non erano alla fine del verso e quindi non c’era la rima che ci fornisse la soluzione o quando i termini erano completamente differenti. E lì la ricerca si faceva un po’ più problematica perché bisognava andare a trovare tra questi 8000 testi catalogati il termine che significasse quella cosa in un siciliano verosimilmente uguale a quello che usavano i poeti sotto Federico II.
A proposito de “Il tempo e la voce”, la strumentazione impiegata è molto parca e avete rinunciato a una strumentazione d’epoca. Sono semmai le melodie che , almeno in alcune circostanze, vi hanno portato verso il mondo medievale.
Ho un’idea abbastanza balzana, però ritengo abbastanza forte, cioè ritengo che quando si musicano le poesie non si tratti di sovrapporre una melodia o una tessitura musicale su un testo poetico, ma di fare l'inverso, cioè di estrarre dai versi la melodia, cioè tirare fuori dalla poesia la sua musica, cioè tirare fuori dalla poesia la sua musica. I suoni di quelle parole, i suoni di quei versi non potevano che rimandare, inevitabilmente in alcuni momenti, al sound, se vogliamo, originario. Per esempio, la “Dulsicera Placenti” è un brano che suona molto tardo medievale, primo rinascimentale. In realtà, la musica dei provenzali o dei minnesanger è leggermente successiva al periodo in cui sono scritti quei versi. I provenzali anche prima dei siciliani usavano cantare i loro versi. I poeti siciliani rappresentano un po’ uno spartiacque, perché loro cominciano a scrivere una poesia che è pensata per essere solo scritta e solo letta in forma di poesia, mentre prima, anche se le forme metriche sono assolutamente rigide, perfettamente simmetriche, perfettamente geometriche, quindi assolutamente cantabili. Fino a quel momento, la fusione del poetico e della forma canzone era molto più forte. Pensare alla poesia senza la musica era anzi quasi qualcosa di strano. Come del resto era nella Grecia: tutti i grandi lirici greci compresa Sappho erano dei musicanti, erano dei cantori, e questo è un po’ il discorso che poi ci ha portato anche a Orfeo.
“Orfeo” è il secondo disco che avete realizzato insieme. Si potrebbe quasi considerare un’opera folk o forse meglio ancora un’opera cantautorale, ha un taglio molto acustico anche se c’è un po’ di elettronica. Poi, ci sono diversi ospiti che hanno contribuito, come i Fratelli Mancuso, una vera istituzione della musica popolare della Sicilia, ci sono Ilaria Pilar Patassini e Michael Occhipinti, chitarrista canadese, fondatore del Sicilian Jazz Project.
Un’opera corale, i testi li abbiamo scritti noi deformando alcuni versi di Rainer Maria Rilkie e altri poeti dell’800 e del ‘900 riprendendo alcuni frammenti della lirica e degli inni orfici, per raccontare questo mito in una versione come dire non post-moderna o neoclassica ma cercando un approccio contemporaneo a un’idea di melodramma, con varie scene, l’intervento anche di cori e di varie voci. Quindi gli ospiti non sono un vezzo, al di là del fatto che tutti quelli che hanno partecipato in questo disco sono carissimi amici e persone con le quali c’è un rapporto umano, ma era proprio l’idea che questo disco fosse un affresco di tante voci e che intervenissero più personaggi che andavano rimarcati non solo attraverso la scrittura ma anche attraverso differenti timbri, differenti quadri, differenti scene. Il disco è acustico prevalentemente, un po’ come i miei lavori, ci sono alcuni interventi di loop, di elettronica, delle manipolazioni particolari attraverso anche la post-produzione. Anche questo era finalizzato a creare una sorta di scenografia trasparente, una sorta di impalcatura musicale evanescente e cangiante su cui si svolgesse. Questo racconto e il discorso poetico viene fatto attraverso non soltanto le citazioni e i frammenti, ma anche attraverso il tentativo di portare dentro la canzone una lingua complessa, perché poi ci sono diversi livelli di fruibilità delle canzoni. Però l’obiettivo era questo, cioè portare un linguaggio poetico complesso all'interno della forma canzone.
“Il tempo e la voce” effettivamente è stato registrato tre anni dopo “Fuddìa” che dovrebbe rappresentare in verità il tuo vero debutto discografico ed è un lavoro ancora diverso, un disco che potremmo definire folk d’autore, perché si avvicina di certo alla musica popolare siciliana, anche se i brani portano la tua firma.
Ho cominciato a scrivere canzoni a 16 anni ma grazie a Dio non esistono registrazioni di quelle canzoni, sono soltanto nella mia testa quindi quelle di “Fuddìa” sono le prime vere canzoni che ho salvato, che ho codificato, che ho impresso in un disco e che tuttora continuo ad amare.